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La storia di Betha

di Serge Michel - 02/03/2009

      
 

 
 
Da diversi anni la Cina investe ingenti risorse in Africa allo scopo di assicurarsi l’approvvigionamento di materie prime indispensabili alla sua crescita economica. Quella raccontata da Serge Michel è la storia di una di queste “colonizzazioni economiche”: in Zambia i cinesi hanno acquistato una miniera di rame chiusa, imponendo però condizioni particolarmente sfavorevoli per la popolazione locale. La comunità cinese vive separata da quella africana, mentre le dure condizioni di lavoro, i bassi salari e gli incidenti mortali fanno crescere l’ostilità verso gli asiatici.
Di questa ostilità sono vittime anche i figli misti, non riconosciuti dai padri cinesi e mal accettati dagli africani.

In Zambia ci sono migliaia di cinesi, ma per le strade della township di Chambishi, nel cuore della provincia della Copperbelt (la cintura del rame), non se ne vede neanche uno. Eppure è qui che si concentra la maggior parte dei progetti di Pechino nel paese: una miniera, delle fonderie e diverse fabbriche. Dove sono allora? Nel bar della piazza centrale, Chris, un minatore, ci indica con la testa gli alti muri dall’altra parte della township. “Quello è il campo dei cinesi”, dice, senza interrompere la sua partita a biliardo. Nel muro, strettamente sorvegliato, c’è un varco, dove ogni tanto entrano autobus provenienti dalla miniera. Le antenne paraboliche del campo confermano l’assenza di contatti tra le centinaia di cinesi barricati in questa struttura, abbastanza accogliente, e i settemila abitanti della township, una serie di baracche allineate lungo strade in terra battuta. In mesi di viaggi in Africa per raccontare l’arrivo dei cinesi nel continente – dalla Nigeria alla Repubblica Democratica del Congo, dall’Algeria all’Angola – non ho praticamente mai visto operai cinesi e africani andare a bere una birra insieme dopo il lavoro. Ed è stato altrettanto raro incontrare delle coppie miste. Eppure sono dieci anni che la China Nonferrous Metal Company (Nfc) ha comprato la miniera di Chambishi. Pechino ha sempre considerato lo Zambia il migliore esempio della sua generosità verso gli africani. Negli anni settanta Mao Tse Tung offrì al governo di Lusaka la Tanzam, una ferrovia che fece uscire il paese dall’isolamento permettendogli di esportare il rame senza passare per il Sudafrica dell’apartheid. Il gesto avrebbe dovuto dimostrare agli africani la superiorità del comunismo di Pechino. Vent’anni dopo i cinesi sono tornati, ma con un approccio molto più capitalistico: vogliono sviluppare il commercio e sfruttare le miniere di rame della Copperbelt. Ma sono davvero rimasti chiusi dietro i loro muri? Chris scuote la testa: “Prima dell’incidente ogni tanto uscivano. Ci sono anche un paio di bambini cinesi nella township”. “Bambini? Sul serio?”. “Mi segua”, dice Chris, dopo aver finito la sua birra tutto d’un fiato.
L’esplosione
L’incidente di cui parla Chris risale all’aprile del 2005, quando un’esplosione nella fabbrica di dinamite Bgrimm, di proprietà dell’Nfc, ha ucciso 52 zambiani. è l’incidente più grave nella storia industriale del paese. Quel giorno ogni famiglia di Chambishi ha perso un figlio o un nipote. I risarcimenti pagati dall’Nfc sono stati irrisori. L’inchiesta, mai conclusa, ha appurato che gli operai venivano reclutati alla giornata davanti ai cancelli dello stabilimento, senza ricevere istruzioni sul trattamento dei materiali pericolosi. Lavoravano in cinquanta dentro una stanza costruita per massimo quindici persone. I liquidi infiammabili e i detonatori erano immagazzinati nello stesso luogo. “Il presidente ha venduto il paese ai cinesi”, ha detto Bill Sinyangwa, padre di Howard, un ragazzo morto nell’incidente. Chris passa davanti al cancello del campo cinese senza degnare di uno sguardo la guardia asiatica. Poi gira a destra e dopo un centinaio di metri indica una porta verde: “Bussi lì e chieda di Betha”. Mi apre un bambino con la pelle chiara, i capelli ricci e gli occhi a mandorla. Poi arriva una bella ragazza. [...] “Cosa vuole?”, chiede sorridendo. [...] Betha ha preso Bupa, il piccolo che ha aperto la porta, sulle ginocchia. Poi, invece di rispondere alle domande, prende dalla libreria un album di foto. Una la ritrae a 18 anni, nel 2001, in minigonna davanti a un microfono. “è la sera in cui ho vinto il premio di Miss Chambishi”, dice. La sfortuna di Betha comincia proprio da quel momento di gloria. Quella sera, infatti, un certo signor Wang, caporeparto nella miniera cinese, è andato a congratularsi con lei. Le ha fatto una dimostrazione di kung fu e le ha chiesto se voleva diventare la sua ragazza. Nelle foto successive si vede Betha nel suo giardino con un cellulare (un regalo del signor Wang), e con un elegante vestito da sera al Recreational club di Chambishi. “Anche quello me l’aveva regalato lui”, racconta. Il Recreational club è un’eredità dell’epoca coloniale britannica, quando le miniere di rame funzionavano sulla base di un modello paternalistico. L’impresa si occupava di tutto: ospedali, scuole, squadre sportive, spazi verdi. Le cose non sono cambiate dopo la nazionalizzazione delle miniere e l’indipendenza del 1964, ma negli anni ottanta lo Zambia, seguendo le direttive del Fondo monetario internazionale (Fmi), ha privatizzato le miniere per pochi soldi. È stata una catastrofe: alcuni investitori si sono limitati a smontare gli impianti per rivenderli ai rigattieri. Quando i cinesi sono arrivati a Chambishi, nel 1983, la miniera era chiusa da anni. Sembravano dei salvatori, ma hanno subito posto delle condizioni: molti visti per i loro lavoratori, stipendi bassi per la manodopera locale, niente sindacati, tasse minime e controlli contabili affidati direttamente alla casa madre di Pechino. I genitori di Betha, entrambi ex dipendenti della miniera, erano felici che la produzione ripartisse. Sono stati contenti anche quando la figlia nel 2004 ha partorito una bambina, che hanno chiamato Tawanda, “dono di dio” in lingua bamba. Il signor Wang era scomparso da un bel po’. Forse era tornato in Cina. [...]
In seguito Betha ha vissuto alcuni mesi di relativa spensieratezza, scanditi dalle feste e dai matrimoni delle sue amiche con i ragazzi del villaggio. In cambio di denaro o di regali, andava a letto con amanti occasionali, ma alcuni sembravano disgustati alla vista della bambina dalla pelle chiara. Ormai Betha non porta quasi mai la figlia al mercato, perché l’ostilità della popolazione nei confronti dei cinesi cresce di giorno in giorno. Gli abitanti di Chambishi sono arrabbiati, perché l’azienda paga poco e non fa nulla per migliorare la vita nella township. Dopo quattro anni di negoziati i cinesi hanno offerto alla comunità solo una tettoia in metallo per la fermata dell’autobus. “Mi chiamavano la ragazza cinese”, racconta Betha. All’epoca un altro cinese del campo, il signor Chang, passava ogni giorno davanti a casa sua e le faceva la corte. Hanno avuto una relazione e Betha è rimasta di nuovo incinta. “Quando gliel’ho detto, ha preso l’autobus per Lusaka”, racconta. “Diceva che doveva andare in Cina, ma che sarebbe tornato”. Nell’estate del 2005 Betha ha partorito Bupa, ma questa volta i genitori l’hanno cacciata di casa. Nel frattempo la Bgrimm era esplosa, e da allora le manifestazioni e gli scioperi contro l’Nfc sono all’ordine del giorno. Più volte gli abitanti della township hanno bloccato la strada costruita dai cinesi per trasportare il rame in Sudafrica e spedirlo con le navi in Cina. La polizia zambiana è intervenuta sparando sulla folla e uccidendo delle persone. Betha ha chiesto aiuto al responsabile del campo dell’Nfc. Le è stato risposto seccamente che il padre non può essere un cinese, perché tutti i dipendenti ricevono un trattamento sterilizzante. Da allora è tornata dai genitori, che però non le danno né denaro né cibo. Le piacerebbe iscriversi a un corso da infermiera, ma costa troppo. Per ora è diventata la ragazza facile del villaggio. I suoi figli non escono mai di casa e Betha non può permettersi di mandarli a scuola. [...]