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Il mondo è un luogo invivibile per coloro i quali non sanno vederne la bellezza

di Francesco Lamendola - 02/03/2009


Crediamo di aver mostrato, nel precedente articolo «È giusto aiutare un bambino a non credere che viviamo in un mondo cattivo?» (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice), che il concetto del «dire la verità» non è affatto così neutro e innocente come generalmente si pensa, dato che esso  dipende dalla nostra idea intorno alla natura della «verità».
Sembrerebbe una cosa ovvia; mentre, al contrario, si tratta di una questione delicatissima, perché implica il tipo di immagine del mondo che noi intendiamo trasmettere ai nostri bambini. È chiaro, infatti, che le nostre parole, le nostre azioni ed i nostri comportamenti sono in grado di influenzare moltissimo la percezione della realtà da parte di un bambino, e specialmente da parte di un bambino piccolo.
Del resto, anche se noi, nel dipingergli il volto del mondo come «cattivo», lo facessimo con la nobile motivazione di aiutarlo a difendersi contro di esso, qualcuno ci potrebbe tuttavia domandare: chi ha detto che il mondo è cattivo?
Ed eccoci arrivarti al cuore del problema: poiché il nostro atteggiamento nei confronti dei bambini scaturisce, a sua volta, dal tipo di lettura che noi facciamo, davanti a noi stessi, nei confronti della realtà. E la risposta che decidiamo di dare al quesito circa la bontà o la cattiveria del mondo,  influenzerà moltissimo, in primo luogo, quel bambino che sopravvive nel profondo di noi stessi, e che tende a guardare ancora alle cose con lo stesso stupore e con la stesa meraviglia di quando avevamo due, tre, cinque anni.

Ai nostri giorni è diventato quasi un luogo comune affermare che viviamo in un mondo brutto, anzi, orrendo e invivibile; e ogni qualvolta accendiamo il telegiornale o sfogliamo le pagine di un quotidiano, ci sembra che la realtà dei fatti confermi, impietosamente ed eloquentemente, un tale giudizio, in una misura tale che solo un pazzo o, appunto, un bambinetto, potrebbero ardire di non trovare sufficiente.
Ogni volta che sentiamo o leggiamo di violenze, rapine, stupri, omicidi, atti di terrorismo che mietono numerose vittime innocenti - per non parlare delle guerre, guerricciole e guerriglie che infuriano contemporaneamente, più o meno dimenticate, in alcune decine di luoghi del nostro pianeta -, ci sembra di avere la prova provata che il mondo è orribile e che l'essere umano è una creatura miserabile e meritevole soltanto di schifo e disprezzo.
In realtà, tutto questo non ha nulla a che fare con la filosofia, ma soltanto con l'emotività e con il desiderio inconfessato di autocommiserazione: perché non emerge da un ragionamento articolato intorno alla natura del male morale - che, per esempio, potrebbe anche essere la conseguenza dolorosa, ma necessaria di un privilegio straordinario della persona umana, ossia la facoltà di compiere libere scelte -, ma si limita a selezionare una parte di quel che la realtà ci offre, in modo da trovarvi quel giudizio negativo che fin dall'inizio si desiderava formulare.
Infatti, se è vero che il mondo in cui viviamo è caratterizzato dalla presenza insidiosa e inquietante del male - a prescindere dalla patologica, interessata amplificazione che ne fanno i mezzi d'informazione di massa, allo scopo di realizzare alte vendite o alti indici di ascolto -, è pur vero che, in esso, sono presenti anche molti elementi di segno opposto, che vi sono, cioè, molte persone buone e molte azioni generose e disinteressate; e che, pertanto, «decidere» circa la bontà o la malignità del mondo in cui viviamo è pur sempre il risultato di una operazione articolata, le cui fasi dovrebbero essere:
1) la valutazione spassionata di entrambi gli aspetti;
2) il ponderato confronto, sia quantitativo che qualitativo, del loro rapporto reciproco;
3) il giudizio complessivo, in un senso o nell'altro.
E, quanto alla natura dell'uomo, ci sembra un po' semplicistica la tendenza di certe filosofie (dal buddhismo a Schopenhauer agli esistenzialisti), le quali vedono nella volontà di vivere e nel desiderio verso un piacere infinito, la radice di tutti i mali e della massima infelicità: perché, anche qui, si «pone», puramente e semplicemente, quello che andrebbe, semmai, dimostrato: ossia che il dolore prevalga sul piacere e che il dolore medesimo rappresenti solo e unicamente una condizione negativa per l'uomo (mentre si potrebbe vedervi, per esempio, la sorgente di molte occasioni di bene le quali, altrimenti, resterebbero inespresse).
Insomma, quando ci si domanda se il mondo in cui viviamo è realmente un luogo invivibile, bisogna stare bene attenti a non cadere in quei discorsi triti e scontati, in quelle tirate da osteria contro «le donne, il tempo ed il governo» (come recitava una bella canzone di Fabrizio De André) che danno forse sollievo a dei vecchi brontoloni esacerbati, ma non hanno alcun punto in comune con l'esercizio razionale del pensiero.
Il fatto è che, spesso e volentieri, in quei tristi sfoghi da osteria indulgono proprio coloro che fanno professione di intellettuali; sicché, a forza di sentir ripetere quelle sentenze da parte di fonti autorevoli, l'uomo della strada finisce per convincersi della loro verità, e introietta come assolutamente «naturale» una visione del mondo che, invece, è frutto di una evidente distorsione del giudizio.
Gli scrittori, i poeti e i drammaturghi delle ultime generazioni hanno una notevole responsabilità nella diffusione dell'immagine nichilista e pessimistica del mondo, perché, grazie al fatto che a loro - a differenza che ai filosofi - non viene chiesto di argomentare, ma solo di esprimere sentimenti e stati d'animo, tocca il «privilegio» di poter calunniare il mondo senza essere chiamati a renderne  conto.
Ed è così che il «male di vivere» di un Leopardi o di un Montale finisce per diventare una sorta di dottrina universalmente accettata, poiché il grosso pubblico dei lettori non si prende il disturbo di distinguere il piano della poesia da quello della riflessione razionale e tende a pensare che, se intellettuali di quel livello hanno detto simili cose, ciò significa che queste ultime devono pur essere «vere» (altrimenti, non le avrebbero dette).

Ad esempio, scriveva Eugène Ionesco, nel suo libro dal titolo alquanto significativo «Il mondo è invivibile» (titolo dell’opera originale: «Un homme en question», Paris, Gallimard, 1979; traduzione italiana di Isabella Facco, Milano, Spirali, 1989, pp. 199-201):

«Non sono certo l’unico a dire che il mondo è diventato invivibile.  I popoli sono in pieno delirio. Gli uomini i hanno oltrepassato  i limiti persino dell’ignobile. Non c’è più scelta  fra una causa o l’altra. Il terrore generalizzato  che noi viviamo rende i più sensibili incapaci di sopportare  questo enorme fardello, sono sull’orlo del suicidio  a meno che non vengano uccisi. Altri, i più forti,  vivono nel terrore come nel proprio elemento naturale,  normale; di fatto, è naturale e normale.  Anormali sono la pace e la dolcezza.  Ma tra i più forti si arruolano anche i politici, i fanatici, gli assassini, i massacratori.
Verrà il tempo degli assassini, profetizzava già Arthur Rimbaud. L'assassino, l'uccisore è l'ideale confessato e sconfessato di molti fra noi. Si è tanto parlato della violenza e la si è tanto giustificata che, adesso, eccola onnipotente, invincibile. È stata molto criticata la violenza repressiva, quella del potere. Oggi, ci sembra che la violenza del potere , sia pure orrenda, sia la più dolce fra le violenze.
Non posso più leggere i giornali, non posso più ascoltare l'attualità, tutto questo mi riempie di orrore. Ma noi siamo doppi: infatti, sono anche meravigliato nell'accorgermi di quanto io sia attratto dai film di violenza. Indubbiamente, in me come in ciascuno di noi, ci sono la paura e l'amore del terrore. Ma in ogni caso, in me predomina il disgusto per la violenza, il disgusto per il crimine. Perché le persone si uccidono fra loro? Non moriranno tutti. Se un uomo ne uccide un altro, è come se uccidesse se stesso.  Il trionfo della violenza è il trionfo dell'autodistruzione. L'umanità non può più sopportare se stessa.
Mi chiedo con spavento se il solo modo di governare i popoli sia il terrore. È quanto fanno i governi forti all'Est come all'Ovest. Mi chiedo, con vergogna e con rimorso, se i gulag non siano inevitabili. Evidentemente, più che evidentemente, il mondo è malvagio. O forse malfatto, mal fabbricato. Gli gnostici pensavano che Dio non fosse il vero creatore del mondo.. I demiurghi sarebbero stati demoni o angeli caduti che avrebbero rubato a Dio i segreti di fabbricazione e che avrebbero concepito e fatto questo mondo senza la volontà di Dio o, addirittura, contro la Sua Volontà. Poiché il mondo è malvagio, è normale che vogliamo cambiarlo: diventa la creazione degli uomini. Ma gli uomini lo rendono ancora più malvagio Di cambiamenti in cambiamenti, le società sono diventate più orribili dell'orribile, più odiose dell'odioso. Coloro che hanno voluto, e ancora vogliono o presumono di volere, instaurare la giustizia, instaurano soltanto la vendetta e il castigo.. Coloro che presumono di voler fare regnare la libertà fanno regnare soltanto la dittatura e il terrore. Vogliamo davvero instaurare il Bene oppure, nostro malgrado, vogliamo il Male senza che la nostra coscienza lo sappia. È tutto irrazionale. I nostri desideri profondi sono insondabili. Diffido di quanti vogliono salvare il mondo.
Le ideologie, le religioni, le dottrine filosofiche sembra forniscano soltanto pretesti alla violenza. Questa va sempre oltre il suo scopo. Così, dopo che un regime è stato rovesciato, la violenza continua la sua opera giudicando e decapitando. Si ha paura della vendetta dei vinti. Si detestano quanto i vincitori quanto i vinti.
La violenza che si trova in tutte le società è psicologica e biologica, è la parte che tocca in sporte a ciascuno. È inspiegabile. È un mistero
Che cosa fare davanti a questo enigma che ci lascia impotenti? Se voglio fare qualcosa contro la violenza, faccio a mia volta violenza. Due secoli di rivoluzioni non hanno migliorato l'uomo., quest'uomo pericoloso per l'uomo. Sapevamo da tempo che l'uomo è il peggior nemico dell'uomo.
Davanti a questo enigma fondamentale, che cosa possiamo dire ancora? Che cosa intraprendere? Che cosa scrivere? Ormai ci sono valanghe, miliardi di parole. Che caos!
Benché rare, ci sono anche persone felici. Sono forse incuranti, indifferenti? Spesso hanno sofferto più degli altri. Ho un amico che hanno cercato di uccidere in una sommossa. La ferita che ha riportato ha lasciato strascichi pesanti, non nutre odio, mi dice di sentirsi felice di vivere, di vivere nell'incanto, giacché è ancora vivo nonostante le sofferenze e la vita, per lui, è un dono in ogni istante.
Sì, ci sono anche quelle persone benedette, che non sanno odiare. Vengono odiate anche loro, giacché i sobillatori non vogliono lasciarle in pace. Ma finirà. Questo mondo finirà. Forse finirà bene. »             

Se poi ci si domanda a che cosa mirino riflessioni di questo tenore, si giunge inevitabilmente alla risposta (cui Ionesco perviene in modo esplicito) che «Dio si è sbagliato», e che «la Sua creazione contiene un grave errore di fondo».
Eppure, se si vuol tirare in ballo Dio, dovrebbe essere piuttosto evidente che noi non possiamo pretendere di valutare né Lui, né la Sua creazione, con le categorie mentali che ci sono proprie, e che sono le uniche - del resto - a nostra disposizione: sarebbe, più o meno, come se delle formiche pretendessero di giudicare il Monte Everest. Invece dobbiamo sempre tener presente che le Sue vie non sono le nostre vie, e che i Suoi pensieri non assomigliano ai nostri.
A noi, talvolta, può sembrare che il male prevalga sul bene, e siamo perciò tentati di trarne la conclusione che Dio deve essersi sbagliato a nostro riguardo. Ma, nel far ciò, ci comportiamo come quel ragazzaccio che continua a tentare la pazienza di suo padre e che si stupisce di ricevere, al posto di un drastico, meritatissimo castigo, sempre nuove prove di fiducia e sempre nuove occasioni di ripensamento e di riscatto.
Molto spesso, la sbrigativa filosofia del «tutto è male» finisce per diventare il paravento per un atteggiamento di colpevole indulgenza verso la propria inerzia morale; come se noi, dopo esserci ricoperti con le nostre stesse mani di disprezzo e di esecrazione, ci sentissimo inconsapevolmente liberati del senso di colpa, e pronti a ricominciare nei nostri comportamenti sbagliati. Molto spesso, cioè, il nichilismo e il pessimismo a oltranza non sono che la maschera di un segreto compiacimento di sprofondare sempre di più nel male: tanto, si sa, l'essere umano è malvagio, e da lui non bisogna aspettarsi mai niente di buono, se non per caso o per interesse.
Questo è il pericolo dal quale occorre guardarsi.
Prima di lamentarsi che ci troviamo in un mondo invivibile, ciascuno di noi dovrebbe sforzarsi di renderlo un po' più vivibile, a partire dal proprio, piccolo ambito quotidiano. Nessuno ci domanda di raddrizzare il mondo, con tutte le sue storture; mentre ci verrà chiesto, crediamo, di rendere conto di quel che avremo fatto, o meno, per migliorare il nostro stresso io, e per rendere un po' più respirabile il nostro angolino di realtà.
Forse, nonostante tutto, il mondo non è poi quel luogo orrendo e invivibile che è piaciuto dipingere a Leopardi, Schopenhauer, Pirandello, Montale, Sartre e tanti altri.
Forse, dopotutto, esso è un luogo invivibile solo per coloro i quali non sono capaci di vederne la bellezza, spingendo lo sguardo oltre le apparenze.