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Le radici totalitarie dello Stato moderno teorizzate nel «Defensor pacis» di Marsilio da Padova

di Francesco Lamendola - 03/03/2009

 


Che cosa hanno in comune i gruppi terroristi che attaccano lo Stato, mietendo vittime in maniera indiscriminata, e lo Stato moderno, che ad essi «risponde» con un grado maggiore o minore di violenza ma, in ogni caso, con la ferma determinazione di perseguirli e distruggerli, negandone le ragioni politiche e, anzi, negando ad essi qualunque forma di riconoscimento?
Hanno in comune questo: che in entrami i casi, la parte pretende di essere il tutto; di farsi legge da sé medesima; di sottomettere chiunque alla propria legge, e di negare riconoscimento a chiunque tenti di opporsi loro, eliminandolo sul piano giuridico e umano, ancor prima che sul piano materiale e repressivo.
E, se la cosa può suonare paradossale, si rifletta al solenne riconoscimento, giuridico e morale, che lo Stato stesso fornisce a determinati gruppi partigiani (come è stato il caso della Resistenza italiana, francese o jugoslava nella seconda guerra mondiale), qualora determinate vicende storiche portino ad una coincidenza delle reciproche ragioni di esistenza e di lotta. E che altro è un gruppo partigiano, dal punto di vista di uno Stato che si trovi con esso in antagonismo, se non un gruppo terroristico?
Pertanto, sarebbe quanto mai ingenuo immaginare che fra lo Stato moderno e il terrorismo partigiano vi sia opposizione inconciliabile. Se vi è, allora lo Stato dichiara inesistenti le ragioni dei partigiani, e li persegue non come degli avversari, ma come dei nemici, ossia negando loro il riconoscimento di combattenti d'una causa legittima, ancorché avversa (come avviene, di norma, nella guerra fra Stati). Ma se non vi è opposizione, bensì convergenza, allora i partigiani diventano benemeriti della patria, si conferiscono loro delle medaglie al valore e si erigono loro dei monumenti commemorativi nelle piazze.
Si dirà che la differenza tra la resistenza del 1943-45 e l'azione delle Brigate Rosse negli anni Settanta del secolo scorso è di tipo storico e morale; che la prima, cioè, scaturiva da ragioni oggettive e da esigenze etiche, mentre la seconda non era che il frutto di una ideologia pseudo-rivoluzionaria, aberrante e velleitaria.
Può essere: ma chi è che sanziona la liceità, politica e morale,  della prima e l'illiceità della seconda, se non quell'ente super-partigiano che è lo Stato moderno, persona giuridica della sovranità collettiva? Tanto è vero che, quando l'azione dei partigiani coincide con quella dello Stato che, poi, risulta vittorioso, riceve un solenne riconoscimento onorifico; mentre se si verifica il contrario, essi vengono declassati a «terroristi» e privati di alcune garanzie giuridiche fondamentali. In un certo senso, vengono considerati sotto-uomini, belve assetate di sangue, che non meritano alcuna indulgenza. Tutti ricorderanno come, parlando dei detenuti di Guantanamo, a chi gli obiettava la loro mancanza di tutela giuridica, il presidente americano George Bush junior rispondeva sbrigativamente che essi erano «i più malvagi fra i malvagi» (e, dunque, implicitamente, che non meritavano alcuna compassione).
Dunque, lo Stato moderno, nella sua pretesa di rappresentare la totalità dei cittadini e di ridurne la molteplicità ad unità mediante la legge e il proprio potere coercitivo, possiede una inquietante parentela strutturale con i gruppi partigiani che, talvolta, lo combattono con ogni mezzo.
Vi sono dei casi nei quali questa imbarazzante parentela è evidentissima, perché la si può cogliere nella filogenesi di entrambi in un arco di tempo molto breve. Tale, ad esempio, è il caso del moderno Stato di Israele.
Negli ultimi anni del mandato britannico sulla Palestina, esistevano numerosi gruppi terroristici ebraici che colpivano indiscriminatamente sia le forze militari inglesi, sia la popolazione araba; valga per tutti il caso della famigerata banda Stern, che assassinava con spietata determinazione i civili arabi, donne e bambini compresi. Il loro obiettivo era la partenza delle autorità mandatarie e la proclamazione dello Stato d'Israele. Allorché questi obiettivi vennero clamorosamente raggiunti, fra il 1947 e il 1948, l'ingombrante passato terroristico dei gruppi partigiani ebraici venne chiuso accuratamente nell'armadio, come uno scheletro da non far più vedere; mentre la durezza della politica militare israeliana contro gli Arabi palestinesi, cui era rimasta solo la risorsa della lotta partigiana, venne giustificata in nome della lotta al «terrorismo».
Ed è cronaca dei nostri giorni, come si è visto nella campagna di Gaza del Natale 2008, dove, per snidare alcune decine di guerriglieri di Hamas, il potente esercito israeliano non ha esitato a colpire indiscriminatamente le strutture civili, comprese scuole e ospedali, provocando circa 1.000 morti e 5.000 feriti, in gran parte ragazzi e bambini; il tutto con la comprensione e la tacita approvazione della comunità internazionale.
In altre parole, finché lo Stato nascente non è riuscito a consolidare le proprie strutture, esso si serve della lotta partigiana come di uno strumento indispensabile per raggiungere il suo obiettivo; ma, quando lo ha raggiunto, ripudia il terrorismo e lo combatte con estrema violenza, negandogli ogni forma di legittimità e disconoscendo ai suoi militanti la qualifica di avversari. Solo in casi eccezionali, come nella Francia giacobina del 1793-94, lo Stato si fa promotore esso stesso di una politica del terrore: in quel caso, l'eccezionalità era dovuta alla minaccia controrivoluzionaria interna e a quella militare esterna, le quali avevano indotto la Convenzione a proclamare che il governo repubblicano era «rivoluzionario fino alla vittoria» (un governo rivoluzionario è una contraddizione in termini).
Ebbene, quello che abbiamo osservato per la nascita dello Stato di Israele si può estendere, «mutatis mutandis», a tutti gli Stati moderni, cominciando da quelli regionali italiani fra XIV e XVI secolo, e finendo con gli ultimi grandi Stati nazionali occidentali a costituirsi nel corso del XIX e del XX secolo: l'Italia nel 1861, la Germania nel 1871, la Polonia, la Cecoslovacchia e la Iugoslavia nel 1919 (passando, ovviamente, per la nascita degli Stati Uniti d'America nel 1775 e per quella delle Repubbliche latino americane nei primi decenni dell'Ottocento).
Si badi: non stiamo affermando, semplicemente, che lo Stato moderno nasce dalla violenza di un gruppo che pretende di essere il tutto, ossia d'interpretare, esso ed esso soltanto, le esigenze della collettività: verità che, da Machiavelli, è divenuta così familiare alla nostra cultura politica, da potersi ritenere addirittura banale.
Stiamo affermando, invece, una cosa molto più radicale: e cioè che, come bene aveva visto Marsilio da Padova ai primi del Trecento - ossia nelle convulsioni finali dei due grandi poteri universalistici medievali, Papato ed Impero, e all'inizio della formazione degli Stati europei sotto forma di monarchie nazionali - la violenza da cui nasce lo Stato moderno non è altro che la volontà partigiana (nel senso etimologico della parola), la quale pretende di assolutizzarsi e di cristallizzarsi in nome del bene comune e della pace.
Non è un caso che il trattato politico in cui Marsilio da Padova sostiene le sue teorie, per l'epoca assolutamente rivoluzionarie e scandalose (tanto da essere immediatamente colpito dalla scomunica papale) si intitoli, appunto, «Defensor pacis», «Il difensore della pace». Per lui, il pericolo più grave alla pace dei popoli veniva dall'esistenza del potere temporale della Chiesa, che egli proponeva di smantellarle totalmente; ma, al di là del contesto specifico in cui maturò il suo pensiero - quello delle ultime lotte fra Papi avignonesi e Imperatori tedeschi: nella fattispecie, fra Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro -  il concetto dello Stato da lui teorizzato si presenta come una unità semplice e indifferenziata, la quale rende operative le leggi non in base a un diritto divino o naturale, ma unicamente in base alla capacità dello Stato medesimo di renderle operanti, e cioè di imporle, se necessario, mediante l'uso della forza.
Ne deriva, come implicita conseguenza, che chi si trova al di fuori dello Stato e vi si oppone, si trova anche al di fuori della legge: pertanto, non potrà essere trattato da avversario, ma solo da nemico assoluto.
Il pensatore europeo che, dopo Hobbes, maggiormente si è interessato di questo aspetto «totalitario» dello Stato moderno, è stato il tedesco Carl Schmitt, del quale abbiamo già avuto occasione di occuparci in un apposito saggio (cfr. F, Lamendola, «Amico e nemico nel pensiero politico di Carl Schmitt», sempre sul sito di Arianna Editrice).
Secondo Carl Schmitt, l'ordine costituito non riposa su di una norma, ma su di una decisione (vale a dire, su una volontà). La decisione, a sua volta, non solo precede logicamente la fondazione della norma, bensì la precede anche storicamente, tanto più che ogni qual volta le tendenze distruttive insite nella società tendono a prevalere, l'ordine costituito viene messo in pericolo e si richiede, per ristabilirlo, un intervento eccezionale.
Ma chi decide quando lo stato è in pericolo ed è necessario un potere dittatoriale per salvaguardarlo e ripristinarne l'autorità? La norma non può stabilire quando venga meno lo stato di normalità e subentri quello di eccezione; essa può solo indicare chi, eventualmente, abbia il potere di intervenire per salvare lo stato dal disastro. In definitiva, quindi, la sovranità risiede in chi possiede l'autorità e solo un governo di eccezione, cioè una dittatura, può salvare lo stato dal collasso nei momenti di maggiore pericolo.
Inoltre, Carl Schmitt sostiene che ogni forma statale viene elaborata in corrispondenza di un centro di riferimento spirituale che è storicamente determinato e, quindi, muta via via col tempo. Nel Medioevo, ad esempio, il centro di riferimento spirituale universalmente accettato in Europa era di tipo teologico e si traduceva, nell'ambito del politico, in una teorizzazione delle monarchie di diritto divino, il cui scopo era imporre pace e giustizia sulla Terra a immagine e somiglianza del Regno dei Cieli, di cui era - per così dire - il riflesso mondano.
Ma, tra il Seicento e l'Ottocento, i vari sistemi di riferimenti si sono succeduti a ritmo sempre più veloce finché, col XX secolo, il sistema di riferimento è divenuto il mondo della tecnica. Ora, il mondo della tecnica è teoricamente fruito, o fruibile, da tutti e diviene, pertanto, un centro di riferimento totale, il che esclude che esso possa fungere da terreno neutrale per lo scontro tra sistemi di riferimento antagonisti e da fucina per l'elaborazione di un nuovo centro. La tecnica diventa, così, il presupposto per ogni forma di vita organizzata e, non che costituire un modello di riferimento per le altre forme della vita sociale, finisce per essere l'elemento comune a tutte. Cade, a questo punto, la distinzione fra ciò che è politico e ciò che non lo è; tutto diventa politico e tutto diventa parte della vita e del funzionamento dello stato; si origina lo stato totale.
Ma, nello stato totale, caratterizzato dal fatto che in esso ogni forma di vita associata diventa statale, la politica stessa viene inglobata in una nuova realtà, ove politico e statale diventano un tutt'uno, inseparabile e indistinguibile. Questo significa anche, insieme alla fine dello «stato classico» - basato, appunto, sulla distinzione di statuale e politico - la fine della politica?
No, perché nello stato totale emergono con prepotenza due categorie fondamentali che ne giustificano la dialettica interna: quella di «amico» e quella di «nemico». Con il suo caratteristico disprezzo per il pensiero politico liberale, Schmitt mette bene in chiaro che l'antica distinzione fra amico e nemico, basata sul concetto di concorrenza, è da considerarsi ormai del tutto superata. Amico e nemico sono ormai  determinati, l'uno rispetto all'altro, dalla categoria di una radicale alterità, ossia di una impossibilità di comporre indefinitamente i contrasti sul piano concreto, esistenziale, e quindi dalla necessità di ricorrere al conflitto mediante una decisione.
Ed ecco che il cerchio si chiude: lo stato può far valere la propria norma legale, e trovare la propria unità politica (superando e neutralizzando i dissensi interni) nella misura in cui ha di fronte un «nemico» - che, evidentemente, può essere tanto esterno quanto interno - e decide, mediante una rottura dell'ordine costituzionale, di affrontarlo in no scontro totale.
A questo punto, si può cominciare a intuire perché non pochi osservatori della politica internazionale di questi ultimi anni siano arrivati a ipotizzare che lo Stato - per esempio, gli Stati Uniti di Bush - abbia avuto, in certo qual senso, bisogno di rapportarsi con il terrorismo in uno scontro totale, dato che solo da uno scontro totale esso può trovare la propria legittimazione ultima e la propria ragion d'essere. Non per nulla, gli strateghi del Pentagono, dopo l'attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001, avevano inizialmente varato la formula della «guerra infinita» (poi maldestramente sostituita con una meno allarmante), a sottolineare la necessità strutturale del conflitto col Nemico assoluto. 
In altre parole, se Bin Laden e Al Qaida non fossero esistiti, forse, sarebbe stato necessario inventarli: perché solo così si può giustificare la necessità di un forte Stato moderno, che sia legge a se medesimo.
Le estreme conseguenze del pensiero di Carl Schmitt sono piuttosto inquietanti. Non è difficile scorgere delle notevoli analogie fra esso e la filosofia politica di Giovanni Gentile, sostenitore dello «stato etico»: dal comune disprezzo per il pensiero politico liberale e per gli istituti della democrazia, all'abolizione della distinzione fra pubblico e privato in nome di uno stato che assorba in sé anche l'intera sfera del privato.
L'uno e l'altro, comunque, sono debitori della lucida, rigorosa, quasi geometrica analisi che Marsilio da Padova fece, nel suo «Defensor pacis», dello Stato moderno, sostenendo che le leggi non devono ispirarsi ad alcun ordine permanente dell'universo, ma devono ispirarsi all'unico criterio di prevenire le discordie civili, mediante la delega della facoltà legislativa della totalità dei cittadini, «universitas civium», ad una o più persone, la «pars valentior», che la esercita in nome della «volontà comune» (precorrendo un analogo concetto di J. J. Rousseau).

Scrive Francesco Gentile nel volume «Intelligenza politica e ragion di Stato» (Milano, Giuffré Editore, 1984, pp. 101-105):

«Quando arrivò alla corte di Lodovico IV di Baviera (1324), dove altri nemici del papa avevano trovato rifugio, Marsilio era già segnato dall'epiteto di "bestia de abysso satanae". Ben più perspicaci dell'Imperatore bavarese, ingenuo e grossolano, i delegati di Giovanni XXII avevano colto il potenziale rivoluzionario della sua teoria politica, che solo per un malinteso poteva essere considerata come un semplice supporto delle pretese imperiali.
Quale, dunque, la sua tesi scandalosa? "La città o Stato non è una per qualche sua forma naturale. (…) Roma, Magonza e le altre comunità sono infatti uno Stato o impero numericamente uno, solo perché ciascuna di esse è ordinata per la sua volontà a un governo supremo numericamente uno. (…) Gli uomini di una città o provincia sono chiamati una città o Stato perché vogliono un governo numericamente uno" (Marsilio, "Defensor pacis", I, XVII, 11). La definizione marsiliana è tagliente e non lascia spazio ad equivoci. L'unità numerica, infatti, denota una persona, tale non per natura o altra ragione inerente alla sua essenza, ma per artificio, un artificio in grado di ricondurre ad unità, di unificare, le differenze dei singoli.. Tale funzione artificiale è esercitata dalla volontà, e volontà contrapposta a natura designa, né potrebbe essere altrimenti, una convenzione partigiana.
Non v'è dubbio che prendere partito è una costante politica. Ma, in questa prospettiva, prendere partito ha un senso affatto speciale: si tratta di individuare e di proclamare le condizioni particolari in funzione delle quali, mediante l'atto di volontà costitutivo dello stato, viene estinta la natura ed azzerata la condizione di ciascun soggetto particolare. Marsilio non aveva dubbi. La "reductio ad unum" dei singoli nello stato, operazione convenzionale e partigiana, non trova, ma neppur cerca, la sua giustificazione  in un principio ulteriore; essa consiste, totalmente ed esclusivamente, nello schierarsi, appunto mediante l'artificio volontario, da una parte piuttosto che da un'altra.
Appare così il primo carattere, dominante e distintivo, di questa volontà partigiana produttrice della persona pubblica, dello Stato moderno: il bastare a se stessa. Esso presenta, innanzitutto, un aspetto operativo. Infatti, escluso ogni riferimento ad un principio universale, ulteriore, che ne comprometterebbe la particolarità, una volontà partigiana per non scadere a pura velleità deve possedere in sé una effettiva potenza operativa. Ed ecco quanto Marsilio dice a proposito delle leggi, che di quella volontà sono l'espressione più diretta e immediata. "L'autorità di fare delle leggi spetta soltanto a colui il quale, facendole, farà sì che esse siano meglio osservate o addirittura assolutamente osservate. (Idem, I, XII, 6). Sicché appare chiaro che la validità delle leggi non dipende dalla loro bontà o giustizia ma dal potere effettivo di chi le pone. ma tale bastare a se stessa, della volontà partigiana costitutiva dello Stato moderno, ha anche un aspetto teorico. Per poter definire, infatti, la persona pubblica come sufficiente a se stessa, bisogna altresì affermarne l'autonomia da ogni principio eterogeneo rispetto alla volontà partigiana che l'ha prodotta, rispetto, cioè, alla volontà particolare di un "governo numericamente uno", mediante la quale una moltitudine dispersa è divenuta uno stato. Ed ecco di nuovo quanto dice Marsilio: "Non tutte le vere conoscenze delle cose giuste e civilmente benefiche sono delle leggi, ove non siano state emanate mediante un comando coattivo che ne imponga l'osservanza, o non siano state fatte per mezzo di un comando. (…) Invero, anche delle conoscenze false delle cose giuste e benefiche diventano talvolta delle leggi, se viene emanato il comando di osservarle o vengono fatte per mezzo di un tale comando" (Idem, I, X, 5). La chiarezza del testo dispensa dal commento.
Secondo Marsilio, dunque, la verità, la giustizia non sono condizione di validità della lege, che si qualifica piuttosto come tale per il potere in essa concentrato. E in funzione di questo potere, la volontà partigiana, produttrice dello stato, è libera da ogni legge. È "legibus soluta". Ma un ulteriore passaggio logico si impone.
In funzione di questa autosufficienza, essenziale per l'esistenza stessa della persona pubblica, bisogna che lo stato rivendichi la qualità d principio, in rapporto al quale la stessa vita dei singoli, che lo compongono, deve venir misurata, e dunque orientata e giudicata.  Non per caso Marsilio, subito dopo aver definito lo stato come una unità operativa, prodotto d'una volontà partigiana., precisa: "Tuttavia gli uomini non sono numericamente una parte dello Stato per la stessa ragione onde sono uno Stato o una città numericamente una. Poiché anche se essi desiderano un governo numericamente uno, e per questo appunto vengono detti una città o uno Stato, vengono riferito a questo governo numericamente uno mediante una diversa istituzione attiva e passiva che è poi soltanto il diverso comando impartito loro dal governante. Ed è appunto mediante questo diverso comando che vengono destinati a diversi uffici. Proprio per la differenza  di questo comando, essi costituiscono formalmente le parti e gli uffici diversi dello Stato" ( (Idem, I, XVII, 12). La metamorfosi della condizione individuale, realizzatasi  ad opera della volontà partigiana, produttrice dello Stato moderno, non poteva essere affermata in modo più radicale. In altri termini, una volta costituitasi la persona pubblica, ciascuno dipende da essa come dalla propria "causa efficiente" (I, XIX, 3), ad essa deve  la "propria essenza o differenza" ((I, XIX, 2).
Per risultare più convincente, Marsilio propone un confronto tra il governo civile e il cuore dell'animale.  Quest'organo, infatti, "!regola e misura con la sua influenza o azione le altre parti dell'animale in modo tale da non essere mai regolato da esse e da non riceverne alcuna influenza"" (I, XVIII, 2). La cultura medica del padovano è piuttosto rudimentale, ma il messaggio di cui essa è latrice non lascia incertezza. D'altra parte la sua cultura teologica è più rigorosa, sicché il nuovo confronto che avanza è più efficace ma anche più compromettente. Il rapporto tra i privati e la persona pubblica è comparato al rapporto fra gli enti e l'Essere. "Gli enti costituiscono un mondo numericamente uno in funzione  dell'unità numerica dell'Essere primo, perché ogni essere è naturalmente inclinato verso l'Essere e ne dipende. Il predicato, per cui diciamo che gli enti tutti costituiscono un mondo numericamente uno, non è il predicato formale d'una certa unità numerica presente in tutti gli enti o di un certo concetto universale di unità, ma piuttosto il predicato di una molteplicità di cose che noi diciamo una poiché è ordinata in funzione di e da un ordinatore (I, XVII, 11).  Anche in questo caso la chiarezza del testo dispensa dal commento; basta sottolineare le due proposizioni "in funzione di" e "da".
L'esistenza della persona pubblica, dello Stato moderno, prodotto d'una volontà partigiana, risulta dunque confinata da un lato all'efficacia del suo potere, senza regole, e dall'altro all'analogia funzionale con la Causa prima, con la Divinità. Ecco, dunque, un "partigiano divino".
Molti secoli sono passati da quando Marsilio consigliava al giovane imperatore di scendere a Roma, di denunciare come eretico Giovanni XXII, di farsi coronare in San Pietro. Tuttavia la definizione di questa volontà partigiana avente gli attributi della divinità ha rappresentato il nodo nevralgico della scienza politica moderna, fattore essenziale dello Stato moderno, la cui vita secolare è stata caratterizzata dalle opposizioni fra nazione e nazione, fra ordine e ordine, fra classe e classe, in genere fra parte e parte. Marsilio, nel suo rigore quasi matematico, ha avuto una sola debolezza; non ha consigliato a Lodovico di farsi consacrare, lui l'imperatore, Pontefice. Ma a rimediarvi ha provveduto Rousseau, il dolce viandante solitario, che ha previsto per quanti non professano la religione civile la pena capitale("Contratto sociale", IV, 8).»

Concludendo.
Lo Stato moderno nasce da un'azione partigiana, ossia di una parte che, sia pure in nome della «volontà comune» o «volontà generale», pretende di ergersi a espressione del tutto, anzi, di essere il tutto.
D'altra parte, anche i gruppi partigiani rappresentano il tentativo di fondare una realtà politica «totale» e quindi, in prospettiva, di creare uno Stato in cui la loro legge sia legge assoluta, fuori della quale non vi è spazio per critiche o «zone grigie».
Il caso dei Khmer rossi in Cambogia, i quali, da guerriglieri operanti nella foresta, sono diventati la «pars valentior» dello Stato da essi creato, trasformando la Cambogia in un universo concentrazionario quale poche altre volte si è visto nella storia contemporanea, rappresenta certamente un caso limite; ma, per il filosofo della politica, sono appunto i casi limite quelli che risultano più utili per individuare i tratti salienti di una ideologia, di un movimento, di un governo o di una qualsiasi altra istituzione.
Non dovremmo, perciò, sottovalutare la lezione implicita in vicende come quella che ha portato al potere i Khmer rossi - i quali, come si ricorderà, godettero a lungo di ampie e calorose simpatie presso gli intellettuali occidentali progressisti, primi fra tutti quelli della «gauche» parigina, negli anni Settanta del Novecento.
Si dirà che i governi democratici non corrono rischi del genere, perché l'ideologia liberale, dalla quale essi derivano, possiede in se stessa gli anticorpi capaci di difenderli da una eventuale deriva totalitaria.
Non è vero. Si ricordi che tanto il fascismo, quanto il nazismo sono andati al potere mediante regolari elezioni democratiche, sanzionate dalla massima autorità dello Stato: la Monarchia in Italia, il Cancellierato in Germania. E, quanto al totalitarismo sovietico, si ricordi che la cosiddetta Rivoluzione d'Ottobre (in realtà, un colpo di Stato) fu diretta non contro un regime reazionario e illiberale, ma contro un governo democratico; e che l'Assemblea Costituente, regolarmente eletta in quei giorni, pur sconfessando apertamente l'azione di forza dei bolscevichi, fu impotente a ripristinare la democrazia in Russia.
Lo Stato moderno ha nel suo DNA il totalitarismo, poiché nasce come volontà politica di una parte che pretende di ergersi a totalità e di trasformarsi in religione civile. Questa religione civile, recentemente, ha colpito con il carcere studiosi come lo storico inglese David Irving, colpevoli di non riconoscere i dogmi del nuovo credo totalitario: nel caso specifico, la difesa contro l'antisemitismo e il «negazionismo» - veri o presunti -, che si fa, essa stessa, una forma di legge etica assoluta, con caratteri intolleranti e repressivi, analoghi a quelli della Santa Inquisizione di medievale memoria.
La distinzione fra regimi democratici e regimi totalitari è, da un punto di vista teorico, assai meno rilevante di quanto non si creda, perché riguarda solo l'assetto organizzativo della forma politica; mentre, nella sua essenza, lo Stato moderno è sempre, tendenzialmente, totalitario, perché partigiana, e quindi totalitaria, ne è l'origine.
E, se questo è vero, esso sembra avere sempre bisogno, per sopravvivere, di un nemico altrettanto totalitario: che, se non è rappresentato da altri Stati (come nelle due guerre mondiali o nella «guerra fredda»), non potrà assumere che le forme delle organizzazioni partigiane, in questo caso classificate come «terroristiche».
Il partigiano agisce in abiti civili, colpisce a tradimento e si nasconde tra la folla, giustificando tale modo di agire con l'argomento che deve combattere contro un avversario talmente crudele e disumano, da non meritare alcun rispetto e alcuna pietà. Ogni mito resistenziale si regge su questo assioma: e chi si permette di metterlo in dubbio (ad esempio, avanzando riserve sulla opportunità di azioni come quella di Via Rasella, che uccisero a tradimento una trentina di soldati tedeschi mentre  attraversavano le vie di Roma, esponendo la popolazione civile all'inevitabile rappresaglia), viene bollato quale «calunniatore» (e, naturalmente, quale «revisionista»).
Ebbene, anche lo Stato moderno tende a trattare i terroristi con il medesimo grado di brutalità e di cinismo, con i quali questi ultimi lo combattono; come fece, per esempio, lo Stato tedesco «democratico» nei confronti della banda Baader-Meinhof (cfr. il nostro articolo «Il cadavere rimosso di Ultrike Meinhof ingombra la coscienza della democrazia tedesca», sempre sul sito di Arianna Editrice).»
Tale è il «peccatum originalis» dello Stato moderno.
E non c'è niente da fare: per quanto esso si sforzi di nobilitare le proprie origini, il suo atto di nascita ha le radici nell'azione volontaristica di una «pars» che, a un certo punto - e in nome, beninteso, della pace e del bene comune - pretende di essere il tutto, operando una «reductio ad unum» delle varie «partes» della società.
Come aveva ben visto Marsilio da Padova, sette secoli or sono, nella sua lucidissima e quasi spietata analisi della genesi dello Stato moderno.