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L’effetto Schumpeter. L’infondatezza delle politiche di deregulation e antitrust

di Vittorangelo Orati - 03/03/2009

 

 



“Deregulation significa profitti più elevati”
Joseph Stiglitz (Nobel per l’Economia nel 2001)
I ruggenti anni novanta, Einaudi, Torino 2004, p. 85

“Le leggi fondamentali dell’economia dicono che la concorrenza dovrebbe azzerare i profitti”
Joseph Stiglitz (Nobel per l’Economia nel 2001)
I ruggenti anni novanta, Einaudi, Torino 2004, p. 86

Se, come mostrano le frasi di Stiglitz riportate in esergo, a livello di premio nobel (ed a distanza di poche righe) ci si contraddice platealmente sulle “leggi fondamentali dell’economia” in materia di libera concorrenza e/o monopolio, non deve meravigliare che “a destra” come a “sinistra”, nel “BelPaese” si disputi una incessante gara a chi è il più “fondamentalista di mercato” nel predicare “più concorrenza!” per ottenere (più?) sviluppo. E’ infatti fatale che ai piani più bassi della gerarchia scientifica, ancorché dagli scranni parlamentari, gli economisti italioti come consiglieri dei molti “principi” (da operetta), siano confusi al punto da suggerire l’eresia per cui una maggiore concorrenza (una maggiore deregulation e una maggiore flessibilità) rappresenta la via maestra per ottenere lo sviluppo! Ultimamente abbiamo suggerito, a chi sa leggere tra le righe, alla sedicente sinistra, ormai contaminata dalla pandemia del neoliberismo, di iniziare a prendere in considerazione su basi non più fideistiche e chiesastiche ma autenticamente scientifiche che non è affatto fatale morire di capitalismo e della sua infondata base teorica, incentrata sulla, più o meno “ufficiale” scienza economica, che non solo “non progredisce” ma addirittura “regredisce” 1 al suo stadio ingenuamente metafisico; che affida alla settecentesca smithiana “mano invisibile” del mercato libero-concorrenziale taumaturgiche armonie economiche attraverso la sua “autoregolazione”. Abbiamo infatti smascherato l’infondatezza delle virtù “universali” della dottrina del free trade (libero scambio), rivelando l’inconsistenza scientifica del suo impianto pro globalizzazione incentrato sul “teorema dei costi (vantaggi) comparati”, dando così per la prima volta una base scientifica a politiche protezionistiche (opportunamente “illuminate”). La qual cosa, tra l’altro, sana la costante frattura tra realtà e teoria a favore della prima che, in barba alla ufficiale professione di fede “libertivendola” (per dirla con G.B. Shaw) sul libero commercio a livello di mercato internazione ha visto costantemente applicate politiche protezionistiche o neoprotezionistiche, più o meno camuffate, da parte degli stati ad economia di mercato. 2 Più recentemente, e sempre more geometrico, abbiamo rilevato e rivelato l’ignoranza e/o la stupidità che sta dietro all’ormai trovata “pietra filosofale” per lo sviluppo ed il benessere economico; “pietra filosofale” sottesa alla vuota e generalmente condivisa giaculatoria “libera concorrenza!”. A tal proposito abbiamo mobilitato il lascito scientifico non già di un pericoloso eversore dell’ordine capitalistico, bensì quello del suo, forse, più estremo difensore: il “reazionario” J. A. Schumpeter. Insieme a tale eredità abbiamo anche fatto ricorso allo strumento principe dell’ “Economia del Benessere”, quello che risponde al concetto di “ottimo paretiano” che, appunto, per eponimia è da far risalire a Vilfredo Pareto, economista e altro vessilifero della più retriva conservazione e perciò vezzeggiato da Mussolini.3 In base a quest’ultima e ufficialmente insuperata “conquista” scientifica (quella di “ottimo paretiano”, insiema al teorema del “Second Best”) abbiamo inconfutabilmente dimostrato che non v’è modo in base alla dismal science o economics di poter scegliere e/o preferire un più basso grado di monopolio rispetto ad uno più alto, ovvero che non è possibile rigorosamente dimostrare che un più alto grado di libera concorrenza è migliore e/o preferibile ad uno più basso. Ma siamo andati oltre, sviluppando il contributo di Schumpeter alla teoria dinamica dell’accumulazione del capitale, abbiamo mostrato la contraddizione antagonista che sussiste tra libera concorrenza e sviluppo: o l’uno o l’altro (aut aut), non entrambi (disgiunzione esclusiva, in logica formale). 4
Vogliamo in questa sede proseguire la denuncia della vuotezza teorica degli irrinunciabili articoli di fede “neoliberisti” (in realtà paleoliberisti per il fatto che l’unico liberale conseguentemente, ancorché infondatamente e velleitariamente, riformatore è stato J.M. Keynes), 5 mostrando come non solo il pieno laissez-faire, ovvero il massimo risultato auspicato dalle politiche di deregulation e antitrust, contrasti lo sviluppo economico (cosa che abbiamo dimostrato nel precedente saggio su Il Ponte del giugno 2005), bensì come tali politiche, nella misura in cui risultino efficaci, trasformino lo stimolo dinamico dell’innovazione tecnologica in un fattore di regresso economico. […]
Per il fine che ci proponiamo è essenziale richiamare brevemente il ruolo chiave dell’ “innovazione” nel determinare l’epocale passaggio da un’economia statico-stazionaria ad una economia dinamica, ove quindi si manifesti il fenomeno dello sviluppo economico (misurato attraverso il parametro del reddito pro-capite).
Partendo da una situazione di Kreislauf (“flusso circolare”), dove qualunque surplus sotto forma di profitto si annullerebbe a causa della libera e perfetta concorrenza e in costanza delle tecniche produttive, l’unica possibilità di aumento del reddito pro capite in presenza di pieno impiego (ex definitione sancito dall’equilibrio statico-stazionario) è da Schumpeter ravvisato nel progresso tecnologico, ovvero nell’innovazione che lo incorpora, in quanto è questo il solo mezzo nella situazione descritta in grado di aumentare la produttività del sistema economico, ovvero l’efficienza del lavoro impiegato, innescando, così il processo di sviluppo.
Poiché il plesso socio-economico cui si sta facendo riferimento è quello tipicamente ascrivibile ad un sistema economico dove le decisioni dei soggetti economici sono di tipo atomistico e decentrate, e in cui sono i prezzi del perfetto e libero mercato il linguaggio o medium che determina i comportamenti dei produttori e dei consumatori, rispondenti a norme sancite dal paradigma delle “scelte razionali” (rational choice) e di ottimizzazione, risulta palmare che ogni “innovazione” o “nuovo” modo di produrre (nel senso proprio di un diversa e più efficiente funzione di produzione) entra in conflitto con il “vecchio” modo di produrre (nel senso di una meno efficiente ricetta produttiva alias funzione di produzione). Se dunque al “nuovo” sotteso all’ “innovazione” va ascritto il compito essenziale di sostanziare il processo dello sviluppo, ciò non avviene sine effusione sanguinis dal punto di vista delle risorse economiche sin li presenti e/o accumulate, Il “vecchio” andrà “distrutto” prima che il “nuovo” lo soppianti diffondendosi in tutta l’economia, a partire dal primo debutto dell’imprenditore innovatore, il cui minor prezzo di vendita scaccerà dal mercato i meno intraprendenti concorrenti. Il cattolico apostolico romano J.A. Schumpeter trasferisce qui alla dimensione dell’economia la relativa teodicea: il “bene” o la “giustizia divina” (lo sviluppo capitalistico), la “creazione, ”si affermano di necessità (“naturale”) attraverso il “male”, il “peccato originale”, la “distruzione” (di risorse). Senza sofferenza non v’è sentiero per la salvezza! Opporsi a ciò sarebbe illusione materialistica, ateismo antropocentrico, utopia pianificatrice, insomma comunismo. E’ questa in buona sostanza - a parte le metafore teologiche - la vulgata a cui, in “letteratura”, si affida il concetto schumpeteriano di “distruzione creatrice”, che, se fosse senza appello darebbe senz’altro ragione a Sylos Labini che, ancorché con rammarico, colloca Schumpeter all’origini del pensiero “neocon”. 6
Ma come spesso, e per sua fortuna come scienziato sociale, accade in luoghi e momenti essenziali della sua opera, Schumpeter, che pur ama collocarsi nel solco epistemologico “positivista”, 7 si “contraddice”; nel senso niente affatto scandaloso dal punto di vista metodologico della “dialettica”, intesa come negazione dell’ingenua intentione recta che, per usare una efficace metafora musicale, finisce per trascurare “the dark side of the moon” 8 nell’ambito dell’indagine economica e sociale del filone “positivo”. In altre parole Schumpeter non indossa mai il “paraocchi” della sua “ufficiale” Weltanschauung, in specie lì dove l’oggetto d’indagine insegue la continua metamorfosi della dinamica capitalistica. Ciò è massimamente vero dinanzi all’antagonismo assoluto che sussiste tra i termini del binomio creative destruction. Qui l’approfondimento del fenomeno “innovazione”, del suo diffondersi nel sistema economico attraverso la logica della lotta tra “vecchio” e “nuovo”, porterà l’acerrimo critico dell’”interventismo” keynesiano - e per esteso di ogni concezione “volontaristica”( contrapposta a quella “naturalistica”) dell’agire economico 9 a sfiorare posizioni obiettivamente molto prossime all’ammissione dell’esigenza di un controllo “pianificato” del processo di sviluppo economico: al fine di massimizzare i risvolti “creatori” dell’innovazione minimizzandone quelli “distruttivi”. In realtà Schumpeter è costretto a seguire i corollari logico-economici della sua analisi del fenomeno dello sviluppo economico. Anche se ciò viene a costituire oggettivamente un poderoso dirimente argomento contro il laissez-faire e la visione del capitalismo quale economia decentrata affidata ai soli animal spirits dei capitalisti-imprenditori. […]
E’ noto come nel modello schumpeteriano dello sviluppo, lo stimolo dinamico dell’innovazione ovvero del progresso tecnologico e più generalmente del mutamento della funzione di produzione in un qualche settore produttivo, trovi il suo teatro elettivo in un assetto statico-stazionario dell’economia (Kreislauf); dove quindi le tecniche produttive sono date e costanti ed omogenee all’interno delle varie industrie o settori produttivi (per ciascuna merce i vari produttori applicano le medesime ricette produttive). Altrettanto nota è la circostanza con cui tale “modello” intende spiegare la morfologia ciclica del processo dinamico: lo “sciame” degli imprenditori imitatori si disporrebbe in forma ciclica nel tempo, che è come dire che in tale forma ciclica si verrebbe ad atteggiare la “propensione imitativa” che altro non sarebbe che la mobilizzazione dello stato di libera e perfetta concorrenza ovvero dello stato della tensione libero-concorrenziale.
Indicando con: M = K/C [1] il rapporto in “valore” tra beni di investimento e beni di consumo ovvero tra capitale “costante” e beni di consumo, che per ipotesi semplificatrice esauriscono il monte salari, è evidente come la [1] misuri anche lo stato delle tecniche, ovvero il grado di meccanizzazione, ovvero ancora il rapporto tra mezzi di produzione e forza lavoro occupata. L’aspetto positivo, “creativo”, progressivo dell’innovazione sta nel fatto che essa permetterà l’aumento di M che passerà ad: M’ = K’/C [2] (M’ > M poiché K’ > K). L’aspetto “distruttivo” dell’innovazione è evidente nel fatto che K’= K + ?K – ?’K [3], ovvero K’ risulterà maggiore di K se e solo se ?K > | ?’K |. Dove evidentemente ?’K è la quota di beni di investimento che l’innovazione “distruggerà” fisiologicamente estromettendola dal mercato( come abbiamo visto in una tale costruzione l’”innovazione” fronteggia uno stato delle tecniche produttive che è costante ergo omogeneo nei vari settori produttivi). Sicché, per semplificare, se vi sono solo due merci cioè un bene di investimento ed un bene di consumo (rispettivamente pari a K e C), sarà l’entità di ?K a determinare il grado di obsolescenza o il grado di esclusione del mercato delle aziende non innovatrici. Vale la pena notare che siamo fuori dal panorama neoclassico: innanzi tutto siamo fuori dall’equilibrio per tutta la durata del fenomeno “sviluppo”; in secondo luogo non sussiste per definizione un unico ed eguale saggio del profitto nell’intero sistema. Infatti, l’innovazione o viene adottata e procura a quanti la attuano un saggio positivo del profitto (che diminuisce fino ad azzerarsi man mano che la concorrenza alimenta la diffusione dell’innovazione con il processo di imitazione) o si è fuori dal mercato per non aver innovato (fuori dai settori interessati dall’innovazione, evidentemente, per ipotesi vige il kreislauf ove non si da profitto alcuno). Di qui una prima conseguenza di rilievo:

1) quanto più “epocale” o rivoluzionaria è l’innovazione, ovvero quanto maggiore sarà il suo portato in termini di incremento del rapporto capitale/lavoro ovvero di aumento del “grado di meccanizzazione”, tanto sarà maggiore il gradiente di sostituzione del capitale esistente. E ciò significa che quanto maggiore è l’effort imprenditoriale alias il grado di imprenditorialità dell’innovatore, cioè questo e/o la “propensione imitativa”, ovvero ancora gli animal spirits concorrenziali dell’innovatore e dei seguaci imitatori (surplus, sotto forma di “risparmio forzoso” permettendo) tanto maggiore sarà la “distruzione” del “vecchio” ad opera del “nuovo”.
Se ora ci mettiamo nella migliore situazione auspicata dai superficiali e miopi apologeti della “libera concorrenza” come panacea per lo sviluppo economico, ovvero immaginiamo che tra “banchiere” e “innovatore” si sia pronti a sostituire interamente il capitale esistente ovvero che la tensione concorrenziale sia al suo massimo livello teorico (pur nel dualismo tra innovatore e imitatori) e che gli imitatori tutti siano pronti nel più breve intervallo di tempo ad attuare l’innovazione con investimenti innovativi, ebbene l’innovazione sarebbe foriera di un subitaneo e immenso disastro! La medesima preoccupazione di essere scacciati dal mercato da parte di soggetti che condividono una medesima ed altissima (la massima teoricamente misurabile) “propensione imitativa”, ma che operano in modo completamente decentrato (autonomo e indipendente), cioè in assenza di piano, porterebbe ad uno squilibrio critico nell’interscambio tra settore produttore dei beni di consumo e quello di beni di investimento da condurre alla crisi. Dunque la più “auspicabile” ed ideale situazione in termini di propensione all’innovazione e/o all’imitazione con la altrettanto ideale e sottesa tensione libero-concorrenziale costituirebbe in realtà il peggiore risultato in termini di performance del sistema economico: lungi dall’innescare lo sviluppo la situazione “ideale” da parte dei “libertivendoli fondamentalisti di mercato” ed i loro un “po’ meno incinta” pentiti “di sinistra”, rovinerebbe lo stesso stato di economia stazionaria facendo precipitare il livello del Pil e quindi dando luogo ad una caduta del reddito pro capite. La situazione che configura l’estremo opposto di quella appena descritta è quella di un isolato conato innovatore con assenza assoluta di libera concorrenza, ovvero assenza di imitatori. Qui sono da prendere in considerazione due casi: l’innovazione è epocale e tale da far raggiungere comunque all’innovatore livelli critici di investimento per quanto attiene l’equilibrio intersettoriale, per cui si ha la crisi; l’innovazione è “marginale” ed i suoi riflessi sono irrilevanti sul piano del progresso tecnologico e dello stesso processo di sviluppo: l’assenza di competitori permetterebbe all’innovatore di lucrare profitto (anche massimo in quanto è nullo nel resto dell’economia) vendendo al vecchio prezzo diminuendo il numero di lavoratori per unità di prodotto abbassando così il livello di occupazione.
L’aumento del rapporto capitale/lavoro da parte dell’innovatore sarebbe accompagnato dalle diminuzione del medesimo rapporto a livello aggregato con la diminuzione del livello di occupazione.
Se dunque le uniche innovazioni in grado di suscitare sviluppo sono quelle “epocali” – escluso l’”errore” su cui Schumpeter non transige escludendone ogni dignità teorica a livello epistemologico – l’unica distruzione “gratuita”, inutile, il puro spreco di risorse che si accompagna all’innovazione non può che essere quello patologico conseguente alla crisi (di sovrapproduzione generale) . Crisi che porta al mancato utilizzo dei mezzi di produzione (e alla caduta del connesso Pil) al di là di quelli resi obsoleti dall’innovazione (distruzione fisiologica) nel solo settore o nei soli settori implicati tecnologicamente dall’avvenuto progresso tecnico. Non lascia equivoco alcuno il seguente passo di Capitalism, Socialism and Democracy:
“Our arguments however extends beyond the cases of new concerns, methods and industries. Old concerns and established industries, whether or not directly attacked, still live in the perennial gale. Situations emerge in the process of creative destruction in which many firms may have to perish that nevertheless would be able to live on vigorously and usefully if they could weather a particular storm. Short of such general crises or depressions, sectional situations arise in which the rapid change of data that is characteristic of that process so disorganizes an industry for the time being as to inflict functionless losses and to crate avoidable unemployment. Finally, there is certainly no point in trying to conserve obsolescent industries indefinitely; but there is point in trying to avoid their coming down with a crash and in attempting to turn a rout, which may become a center of cumulative depressive effects, into orderly retreat”10
Da tutto ciò sembra ne debba conseguire more geometrico l’ammissione dell’esigenza di una istanza di piano, almeno in termini di una politica anticiclica. Persino il tono con cui Schumpeter se la prende con quanti ignorano i risultati patologici dell’innovazione appena riportati sembra un proemio ad una concessione rilevante al “volontarismo” economico, ad un riconoscimento della necessità di una politica economica volta ad addomesticare, a minimizzare se non ad annullare la componente gratuitamente destruens della dinamicamente salvifica “innovazione lasciando così dispiegare la sua componente construens. Così infatti Schumpeter continua: “All this is of course nothing but the triest common sense. But it is being overlooked with a persistence so stubborn as sometimes to raise the question of sincerity”11
Ma la resa al “piano” ed al destino “socialista” che attenderebbe l’ “evoluzione” del capitalismo nel suo procedere lungo lo stadio oligomonopolistico resterebbe tutta interna alla sfera economica nel suo svolgersi storico, senza abiura della filosofia “naturalistica”, antivolontaristica e quindi anti-interventista. Fedele all’ “individualismo metodologico” e quindi alla visione atomistico-decentrata del processo economico, lungi dal riconoscere allo stato un qualche ruolo positivo di intervento nelle faccende economiche (si tratterebbe di vera e propria ingerenza) Schumpeter è proprio al tendenziale carattere “monopolistico” del capitalismo che consegna gli anticorpi verso gli eccessi del ciclo economico. Anticorpi affidati alla logica di piano insinuantesi attraverso il cedimento progressivo del capitalismo libero-concorrenziale alla logica” pianificatrice” delle big corporations. All’aumento del grado monopolistico del sistema economico è inoltre possibile connettere una maggiore rigidità alla diminuzione del livello generale dei prezzi rispetto alla domanda globale; maggiore rigidità che caratterizza l’impresa oligo-monopolistica nel fissare il prezzo nei confronti della propria domanda e che da questa si trasferisce al sistema tutto. E poiché le crisi cicliche si caratterizzano come crisi deflative in cui la spirale caduta dei prezzi - caduta delle quantità – caduta dei prezzi, e così via, conduce alla depressione, allora:
“ of the cartel type as well as those which merely consist in tacit understandings about price competition may be effective remedies under conditions of depressions as far as they are, they may in the end produce not only steadier but also greater expansion of total output then could be secured by an entirely uncontrolled onward rush that cannot fail to be studded with catastrophes”12
Quindi per Schumpeter alla luce della sua teoria dinamica del processo capitalistico un sistema economico in cui aumenti il grado di “monopolio” è – inter alia – preferibile ad una situazione contraria, ove cioè aumenti il grado di libera e perfetta concorrenza. E ciò perché aumenta il “grado di autoregolazione” del sistema tutto. E per épater le bourgeois di sessant’anni fa ed ancor più i contemporanei “fondamentalisti del mercato” che insieme alla giaculatoria “più concorrenza” per lo sviluppo strillano “flessibilità!” per lo sviluppo, ecco che il massimo difensore del capitalismo e della sua “civiltà”, l’unico ad aver inteso l’esigenza di spiegare la reale dinamica ciclica dell’accumulazione del capitale, giunge alla conclusione opposta: “In other words, under the conditions created by capitalist evolution, perfect universal flexibility of prices might in depression further unstabilize the system, instead of stabilizing it as it no doubt would under the conditions envisaged by general theory”13
Quindi alla conclusione per cui è un maggior grado di monpolio che si associa ad un più intenso e durevole sviluppo economico piuttosto che ad un maggior grado di libera concorrenza (che frena in proporzione lo sviluppo), 14 va aggiunta un’altra non meno eclatante conclusione. Poiché lo sviluppo economico di un’economia capitalistica decentrata è per sua ineliminabile natura un fenomeno ciclico, ad un crescente grado di monopolio si associerebbe una crescente capacità di autoregolazione del sistema in termini anticiclici: se la dinamica capitalistica scaturisce dall’innovazione tecnologica che per sua ineliminabile caratteristica ha una componente distruttiva, patologica (oltre che fisiologica), questa può essere combattuta attraverso la semiologia che innesca le crisi. E tale semiologia è quella dei prezzi quale si manifesta nella deflazione. Deflazione che è tanto più violenta ed intensa (inutilmente distruttiva) quanto più le quantità ovvero la produzione e quindi l’occupazione sono sensibili alla caduta dei prezzi. Tale sensibilità ha un preciso nome e centro d’imputazione: la flessibilità o elasticità (o rigidità) dell’offerta rispetto ai prezzi e più precisamente alla diminuzione di questi ultimi. Poiché l’assetto sempre più marcatamente oligomonopolistico del capitalismo trasferisce alla scala del livello generale dei prezzi la caratteristica delle imprese oligomonopolistiche che mostrano una maggiore rigidità dei prezzi al diminuire della domanda rispetto alle imprese libero concorrenziali, e tale rigidità è crescente al crescere del “grado di monopolio” presente nel sistema economico, ne discende che una tale evoluzione del sistema capitalistico in direzione di un montante oligomonopolismo vede crescere endogenemente le sue capacità di autoregolazione anticiclica. Fenomeno quest’ultimo che, per quanto detto in precedenza, proponiamo di chiamare “effetto Schumpeter”. […]
Abbiamo altrove e più volte trattato dei limiti del modello schumpeteriano dello sviluppo rispetto agli intenti che il suo formulatore si proponeva di raggiungere con il suo “progetto di ricerca”.15 Quello che qui rileva è però la considerazione che tali limiti – sostanzialmente sintetizzabili nell’errore (insormontabile perché ineliminabile)16 di Schumpeter di affidare ad una sola variabile, l’innovazione, sia il fenomeno dello sviluppo che quello della crisi cioè contemporaneamente la distruzione e la “creazione” (lo sviluppo e il suo contrario) per i vincoli neoclassici del suo approccio – non producono effetti sulla validità di quello che abbiamo proposto in termini di analisi del nesso antagonistico tra libera concorrenza e sviluppo economico. Nesso che imporrebbe un radicale ripensamento su questo (ed altri) centrale tema in materia economica da parte di chi sente l’esigenza che non si potrà dare futuro alla “forze di progresso” se queste si atteggeranno come un semplice polo alternativo delle forze conservatrici in una omologa “visione del mondo” ; insomma se la questione della scelta tra i “poli” sarà riducibile a mero “tifo politico” o a inessenziali opzioni del tipo “Coca Cola o Pepsi Cola”, con il definitivo appiattimento all’”american way of life”.