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Pappagalli verdi

di Marco Managò - 08/03/2009

 

 
Pappagalli verdi. Gino Strada
 

Gino Strada, noto chirurgo, fondatore di “Emergency”, in giro per il mondo presso i teatri di guerra, è l’autore di questo volume (Giangiacomo Feltrinelli editore) in cui ripercorre, senza ordine cronologico o tematico, alcune strazianti esperienze. I protagonisti, purtroppo numerosi e sparsi in ogni angolo della Terra, sono i civili, soprattutto bambini, vittime delle guerriglie e delle mine antiuomo così strategicamente seminate.
La barbarie si sposta sistematicamente dalle forze regolari dei conflitti e si dirige verso le fasce più deboli.
Gino Strada ricorda come tali mine siano poste spesso in prossimità di fonti o cimiteri perché considerati luoghi di notevole transito umano. Trovare una mina significa ricevere la morte o, nella migliore delle ipotesi, l’amputazione degli arti; in alcuni casi, crudele paradosso, il trovare tali oggetti metallici equivale a realizzare piccoli guadagni nel mercato locale e questo induce i bambini poveri a rischiare per pochi dollari.
I contesti logistici in cui si imbattono i medici di Emergency sono pressoché approssimative: situazioni di fortuna, vecchi ospedali riadattati o edifici adibiti ex novo alle cure di tanti disgraziati. A questi è arduo fornire assistenza, medicinali e protesi, tanto che occorrerebbe insegnare ai locali come realizzare stampelle e arti artificiali.
Molte volte si rischia di non poter offrire la giusta assistenza, morale e medica, ai tanti bambini ricoverati. Per uno di questi, a cui forse non è stata data una parola in più (autore di un tentativo di suicidio dopo aver perso gli occhi), Strada ammette: “Mi passa vicino, Lui non può vedermi, né io sarei in grado di sostenerne lo sguardo”.
Uno spaventoso teatro di guerra è quello del Ruanda, dove “hutu” e “tutsi”, esasperati da vecchie tensioni alimentate dagli ex colonizzatori, subiscono un nuovo incitamento alla violenza fanatica e alla distruzione di quella terra definita, in passato, una sorta di Svizzera dell’Africa. Il conflitto interessa tutte le fasce della popolazione, dalle madri che uccidono i propri bambini generati con uomini di diversa etnia, ai poveri pastori che nulla sanno se non di stagioni e di clima e che, invece, sono vittime di quel flagello transgenerazionale delle mine antiuomo.
Gli aiuti umanitari che provengono dall’estero sono, a volte, di minima entità o addirittura inutili. A Kigali (Ruanda), infatti, durante lo sforzo titanico di rimettere in piedi un ospedale già devastato e insanguinato, proviene un decantato massiccio aiuto americano. I signori che scendono dall’aereo, però, più simili a un gruppo di turisti in gita, portano solo vecchie cianfrusaglie poco utilizzabili. Scrive Strada: “Frughiamo tra gli scatoloni, alla ricerca di qualcosa di utile. E scopriamo, in sequenza, bambole di plastica mezze rotte, bidoni di latte in polvere scaduto, vecchi palloni da basket, e due casse di profumo “Obsession”.
A Quetta, città desertica del Pakistan, Strada viene a conoscenza di uno squallido particolare, che riscontrerà successivamente anche in altre regioni della Terra, quello dell’utilizzo di mine (di fabbricazione russa) dalla forma a giocattolo, di color verde. Sono quelle che i vecchi afghani definiscono “pappagalli verdi”, anche se la sagoma sembra più quella di una farfalla: sono armi pericolosissime, gettate dall’alto come volantini (la forma è studiata proprio per farli planare dolcemente), in pasto agli ignari bambini locali, per l’annuncio di uno spettacolo di morte dalla gravità infinita.
Si tratta di ordigni che non esplodono immediatamente ma devono esser maneggiati come dei giocattoli, da bambini appunto, come trofei da mostrare agli amici.
L’autore al riguardo precisa: “Così abbiamo immaginato – sapendo che era tutto maledettamente vero – un ingegnere efficiente e creativo, seduto alla scrivania a fare bozzetti, a disegnare la forma della PFM-1. E poi un chimico, a decidere i dettagli tecnici del meccanismo esplosivo, e infine un generale compiaciuto del progetto, e un politico che lo approva…”
Sono gli individui che hanno loro stessi dei figli e che durante il giorno sono genitori scrupolosi e attenti ai pericoli circostanti; accompagnano a scuola i pargoli e poi si dirigono a compiere il loro lavoro, a studiare mine più devastanti, appositamente per bambini, per fiaccare la gioventù delle popolazioni in conflitto, tutto ciò nel trionfo dei paradossi e delle contraddizioni più disumane.
I pericoli non riguardano solo le popolazioni locali ma gli stessi operatori umanitari, molte volte considerati come spie o come pericolosi estranei, anche quando si tratta di infermieri e medici che tentano di alleviare il dolore del prossimo, senza preclusioni di etnia o religione.
La presenza di dittatori o di regimi volti a mascherare le stragi compiute, conduce sempre alla caccia nei confronti delle organizzazioni “scomode”, da costringere alla fuga, soprattutto se in possesso di beni e attrezzature utili.
Tale ostilità a volte potrebbe far vacillare le motivazioni di chi si dedica alla professione del chirurgo di guerra; introspezioni quotidiane non fiaccano, in ogni caso, la voglia di sfida e di superamento delle difficoltà. Anche quando sembra che sia tutto perso è sufficiente un sorriso di chi soffre, e il suo parziale recupero alla vita, per trovare la forza di andare avanti.
La riflessione conduce spesso all’angoscia e Gino Strada ne ha provata molta nel ripensare alla moglie e alla figlia lontane, spesso prive di notizie, alle quali, in momenti di sconforto subentra il rammarico di non aver offerto sufficiente affetto.
Strada si sofferma sulla figlia, per la quale pensa di essere in colpa per l’allontanamento prolungato, ma una visita della stessa, accompagnata dalla madre (in Pakistan), ha sgombrato molti dubbi. Fedele al sangue paterno, la figlia, ormai cresciuta, ha voluto rendersi conto della situazione locale apprezzando l’operato del padre e ha espresso addirittura il desiderio di seguirne le orme.
Insieme hanno riflettuto sulla particolarità di alcuni bambini dilaniati e feriti ma non in lacrime, vittime divorate dalla quotidianità della guerra, ormai private del pianto, al contrario dei capricciosi bambini occidentali.
Alcune volte i minori, al termine di operazioni che li hanno resi privi di gambe o braccia, sembrano tornare felici a casa, come se abbiano effettuato un’operazione da poco, tanta è l’attitudine al disagio, alla tragedia, alla sopravvivenza. Alla mente tornano anche i ricordi paterni e il timore sul giudizio che deriverebbe dalla scelta professionale intrapresa, molto spessa intrisa di nobili (e vere) opere umanitarie ma in ogni caso, per stessa ammissione dell’autore, guidate da un innato senso dell’anticonformismo, dell’abiura della monotonia e del certo. Gioco, avventura e fantasia, come ai tempi del lontano Sessantotto.
In teatri di guerra ove “non ci sono medici né medicine, e il poco disponibile è riservato in modo esclusivo a militari e combattenti” è arduo anche effettuare il cosiddetto “triage”, la selezione di intervento secondo la gravità del ferito. Visto l’alto numero di feriti e il loro concomitante grido d’aiuto è doloroso decidere chi abbia la precedenza, una scelta da compiere ben consci, spesso, di decidere sulla vita del prossimo.
Occorre far presto e decidere in pochissimo tempo, ripetendo infinitamente alla propria coscienza come tale operato sia il più legittimo; in gironi danteschi ove aleggiano ombre di disperati che si trascinano, madri e bambini deturpati, senza ascolto e in condizioni igienico-sanitarie da far impallidire. Il privilegio concesso ai feriti militari trova regolare conferma, un esempio è un centro riabilitativo e di reinserimento sociale in Angola, di livello ottimale e infatti, quasi inaccessibile per i poveri civili.
In Perù, Strada conosce un altro sconcertante particolare: un vecchio deve essere operato, pena la morte sicura ma rifiuta l’intervento pur non avendo paura. Perché? Perché in Perù si paga tutto in ospedale, passi per medicine, unguenti e bendaggi ma un’operazione costa troppo, si rischia di far precipitare le proprie famiglie sul lastrico!
Terribili e inverosimili scenari si schiudono dinanzi alla triste realtà chiarendo molti dubbi. << Perché un campo profughi è fonte di potere, e di protezione. Non per i profughi, ma per chi li controlla. E non si può lasciarli andar via, i profughi sono ostaggi, preziosi prigionieri che fanno da scudo e attirano soldi, quelli degli aiuti internazionali. >> Specifica Strada.
L’autore racconta anche di Belgrado e della visita del ministro italiano di turno, capace di addolorarsi notevolmente ma pronto a sfruttare a livello mediatico le sorti di alcuni poveri bambini, promettendo adozioni e riscatto, salvo dimenticarsi presto delle sorti dei malcapitati, secondo un copione ormai noto alle organizzazioni umanitarie.
Alcune volte può capitare che in uno stesso ospedale si trovino fianco a fianco feriti delle diverse fazioni in lotta e l’ostracismo continua anche tra le corsie; qui occorre una sapiente e lunga azione da parte dei sanitari per convincere tali feriti, spesso mutilati entrambi, che il vero nemico è proprio la guerra che li ha messi uno contro l’altro e ridotti in tale stato. E’ gratificante notare come gradualmente tale astio si ricomponga sino ad assistere a scene di collaborazione e dialogo come in una fiaba a lieta fine.
Riflette Strada << Avevo immaginato di trovarmi in faccia a combattenti con la benda insanguinata sul capo, e mi sono trovato a operare centinaia di donne e bambini, di vecchi magri e con la barba piena di polvere… >>
Questo perché, statistiche alla mano, nei conflitti la percentuale dei civili feriti o deceduti è notevolissima.
Tragedia e crudeltà umana allo stato puro, dai “pappagali verdi” alle stragi indiscriminate sui civili, questo lo scenario globalizzato del pianeta, in grado di aprire gli occhi a Gino Strada e fargli anche capire, a fondo, il perché di quella strage perpetrata nella scuola di Gorla, così viva nelle parole del padre.