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Il wrestler che è in noi

di Mauro Baldrati - 10/03/2009

 


Mickey Rourke-Randy è spesso ripreso di spalle, massiccio, abbronzato, coi lunghi capelli ossigenati come Hulk Hogan, l’anziano wrestler acciaccato protagonista di un reality americano, e noi lo seguiamo nei suoi spostamenti per lo schermo, come se ci guidasse in un viaggio impedendoci la vista del panorama; poi si gira e ci mostra quella faccia ricostruita, con imbarazzanti labbroni, occhi piccoli, le famose mani con le unghie enormi, giacca a vento lisa e scucita. E’ una vita grama, la sua, e ci sarebbe l’eco di Hank Bukowski, se non fosse che manca persino la follia felice, o la risata tragica: la sua è l’unica vita possibile, l’unica sopravvivenza di cui dispone, da quell’ammasso di carne maciullata che è. Dopo le glorie degli anni Ottanta, quando era “The Ram”, il campione, e c’erano i Guns N’ Roses, ora Randy si esibisce in incontri di provincia, dove la violenza è concordata, come sempre accade nel wrestling, ma lo è per compiacere il pubblico, che vuole vedere il sangue. E Randy, d’accordo coi suoi avversari, tutti ragazzi giganteschi pieni di steroidi, teneri, educati, rispettosi fuori dal ring, il sangue lo tira fuori: ha una lametta nascosta nelle fasciatura del polso, con la quale si incide la fronte, mentre è a terra fingendosi svenuto. Il sangue gli scende sulla faccia, tra le urla di tripudio degli spettatori. Oppure si rotola nel filo spinato, lacerandosi la pelle, o addirittura facendosi piantare punti metallici da un avversario che lo chiama rispettosamente “signore”, riducendosi una maschera sanguinolenta.

Ma oltrepassa tutti i limiti che gli sono concessi: si imbottisce di farmaci, di ormoni, di viagra, sottopone la sua carne maciullata a ogni sorta di violenza e di contusione. Così un giorno, al termine dell’incontro più sanguinario della sua carriera, collassa. Infarto, e divieto di continuare a combattere.

E’ dura per Randy, perché senza incontri, senza l’urlo del pubblico, è il nulla, è nessuno; ma cerca di sopravvivere anche a questa svolta. Lavora part-time al banco di una salumeria, con una buffa cuffia che gli trattiene la chioma, come un rasta. Cerca di guadagnare i dollari necessari per pagare l’affitto della roulotte dove abita, e le medicine di cui ha bisogno. Con l’aiuto di una spogliarellista, che frequenta in uno strip bar, si sforza di riallacciare i rapporti con la figlia, che lo disprezza perché non è mai stato un padre, non era presente quando lei aveva bisogno di lui. Randy si impegna a fondo, sua figlia è tutto ciò che gli resta. Le compra regali, le chiede di perdonarlo, di frequentarlo, di farlo sentire un vero padre. Perché ha avuto l’infarto. Perché è solo. Perché vuole vivere.

Lo osserviamo con disagio, mentre esprime per noi questo mix di sentimentalismo, di egoismo e disperazione. Riesce a strapparle un appuntamento, e se ne va contento, con la speranza che gli illumina lo sguardo. Ma quella sera si dimentica, si fa rimorchiare da una sgarruppata in un locale e va a strafarsi di coca e sesso. E’ l’ennesima rottura, definitiva, questa volta. Cerca anche di avere un vero rapporto con la spogliarellista, ma lei lo rifiuta, perché non intende “uscire coi clienti”. Il tempo è fermo, lo spazio è bloccato, la figura scalena non riesce a ricomporsi.
Al banco della salumeria, con la cuffia rasta in testa, con le vecchie signore americane che si fanno servire strabilianti cibi cotti americani, fa l’ultima scelta. Una scelta di sangue, una scelta autodistruttiva. Combatterà di nuovo. Incontrerà il suo antico avversario, l’Ayatollah, col quale ha già diviso antiche glorie.

Assistiamo al coronamento ineluttabile di questa vita buttata, di questo fallimento. The Wrestler avrebbe potuto avere un finale diverso, ma forse il regista Darren Aronofsky, amante delle vibrazioni forti, non voleva scadere nello happy end all’americana; così Randy, prima di salire per l’ultima volta sul ring, respinge l’unico segnale di speranza, forte e bello, che gli viene offerto. Lo butta via, e oltrepassa la linea proibita della corde, col suo cuore malandato, le sue speranze distrutte.
Così la violenza del wrestler che dallo schermo richiama la difficoltà di tutti noi di essere uomini, di esseri adulti, e padri: la violenza dell’esterno, fasulla, ignorabile, perché violenza di sovrastrutture, di Superii territoriali e mondiali, diventa violenza autentica, interna, che minaccia e distrugge la stessa vita.