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"Pechino vuole sterminare il nostro popolo"

di Maria Paola Gianni - 10/03/2009

 

«Il governo comunista cinese non ha la coscienza a posto, ecco perché ha paura. Sa che i tibetani sono esasperati, dopo 60 anni di occupazione. E al compimento di un anniversario così importante, sentiamo ancor più forte l`umiliazione e la voglia di reagire». A parlare, senza mezzi termini, è Thupten Tenzin, presidente della Comunità Tibetana italiana. È uno dei 150 mila esuli che non hanno mai conosciuto la terra d`origine. Thupten è nato in India, la nazione vicina al Tibet che più di ogni altra offre da cinquant`anni riparo e accoglienza ai poveri tibetani in esilio. Oggi vive a Bologna, con sua moglie Daniela, italiana, dalla quale ha avuto un figlio. I suoi genitori sono scappati durante la rivolta tibetana all`invasione cinese, nel 10 marzo del 1959, contro l`occupazione iniziata già nove anni prima. Oggi sarà un giorno decisivo. E governo cinese è molto preoccupato, teme ripercussioni. Già l`anno scorso c`è stata una dura rivolta su tutto il territorio del Tibet. Secondo Pechino, nelle proteste del 2008 sono state uccise 19 persone, il governo tibetano in esilio ha denunciato circa 140 morti. Ma forse sono anche di più. E questa volta potrebbe rivelarsi ancor più devastante. Non solo, in vista di questa data, sono stati intensificati i controlli e aumentati i presidi militari e di polizia, specialmente nelle zone a ridosso dei monasteri. Ma già da metà gennaio, Pechino ha iniziato in Tibet una campagna "anti-crimine" (o "colpisci duro", in cinese yanda), setacciando case e monasteri, aumentando i posti di blocco, i telefoni sotto controllo, cacciando persino i turisti da molte zone dove risiedono i tibetani. Insomma, una vera e propria campagna di repressione. Sono fioccate nuove condanne a lunghe pene per gli autori della rivolta del 2008, in tutto sono stati imprigionati a centinaia. Un tribunale della provincia cinese del Sichuan di recente ha condannato due monache tibetane a nove e dieci annidi carcere per aver preso parte alle proteste del marzo scorso. Le due religiose buddiste del monastero Pangri Na, di 35  e 36 anni, facevano parte di un gruppo di 55 monache arrestate dopo la manifestazione di protesta davanti agli uffici governativi di Ganzi, il 18 marzo 2008.

 In Tibet, Xizangin cinese, vi sono almeno una ventina di Laogai, ossia campi di lavori forzati, come a Bomi, Chushur, Lhasa, ora stracolmi di patrioti tibetani. Ve ne sono molti altri nelle province di Guansu, Yunnan, Sichuan e Qinghai. Lo scorso 23 gennaio è stato ucciso, sotto tortura, Pema Tsepak, di 24 anni. A. Gaba, nel Sichuan, 600 monaci sono stati assaliti dalla polizia mentre marciavano in preghiera. Il 27 febbraio il monaco Tapey del monastero di Kirti si è dato fuoco e la polizia gli ha sparato. Come denuncia Thupten Tenzin, «continuiamo a morire. Più di un milione e 200 mila tibetani sono stati uccisi per insurrezione di massa, suicidio o tortura. Sono dati che risalgono a qualche anno fa, ma i tibetani sono sempre di meno». Poi aggiunge: «Quest`ultimo anno molti dei nostri sono scomparsi, suicidati per non subire torture, o uccisi. Catturati per i motivi più futili, ad esempio per aver partecipato a una manifestazione, o perché avevano una foto del Dalai Lama in casa». I giornalisti non hanno accesso libero a questo scenario dantesco, per cui non possono documentare quello che sta accadendo. Il rischio è che in Tibet possa scoppiare una nuova sanguinaria insurrezione, con una ennesima repressione non testimoniata nel mondo.

«Per neutralizzare il cinquantenario della rivolta tibetana», prosegue ancora il rappresentante della comunità in esilio in Italia, «già da mesi Pechino sta travisando la verità, per diffondere il messaggio opposto, come se noi celebrassimo i 50 anni della liberazione. Anzi, nel Tibet hanno costretto la nostra gente a preparare danze e festeggiamenti per quella data, chi non ha voluto è stato torturato o imprigionato». E pensare che proprio quest`anno ì tibetani hanno scelto di non celebrare il capodanno, che ricorre il 25 febbraio, in segno di lutto per quanti sono rimasti uccisi negli ultimi mesi. Per rafforzare la denazionalizzazione, migliaia di cinesi vengono incoraggiati a immigrare in Tibet. La chiamano "soluzione finale", per distruggere alla radice usi, costumi e cultura del luogo.

Oggi, a distanza di mezzo secolo, tutte le comunità tibetane in esilio in Italia hanno organizzato una mega-manifestazione pacifica nella capitale. A partecipare saranno diversi monasteri, compreso quello buddista di Pomaia, in provincia di Pisa, tra i più importanti d`Europa, recentemente devastato da un incendio. L`appuntamento è alle 15.00 davanti al Parlamento italiano, per un sit in con tanto di palco per interventi di politici e altri rappresentati autorevoli, come Pietro Marcenaro (Pd), Marco Marsilio (Pdl), Matteo Mecacci (Radicali), Alessandro Pagano (Pdl) e tanti altri. Poi, alle 18.30 raduno a piazza Madonna di Loreto per partire con una fiaccolata piena di torce e bandiere tibetane alla volta del Colosseo, che per tutta la notte sarà illuminato a giorno dal Comune dì Roma. «Ringraziamo, commossi, il sindaco Gianni Alemanno che ancora una volta ci ha voluto dimostrare il sostegno della città alla nostra causa, dopo tutto il dolore e le ingiustizie subite», precisa Toni Brandi, presidente della Laogai research foundation Italia onlus (www.laogai.it). Il massiccio afflusso di immigrati cinesi sta minacciando la sopravvivenza dell`identità tibetana e ha ridotto la popolazione autoctona a una minoranza all`interno del proprio paese, mentre prosegue la pratica della sterilizzazione e degli aborti forzati delle donne tibetane. Per Zinzina Pincelli, della Fondazione Laogai, «l`attuale politica del governo cinese del figlio unico è orribile, perché col pretesto del controllo demografico costringe, per legge, le donne, se non collegabili alla nomenclatura, ad abortire dopo la prima gravidanza anche all`ottavo o al nono mese, con iniezioni intrauterine che provocano la morte del feto. Questo è assassinio». Un caso per tutti: quello della giovane Li Juan di 23 anni. Gli operatori sanitari l`hanno legata ad un letto per infilarle un ago nell`addome fino a raggiungere l`embrione di nove mesi. Come risulta da alcune testimonianze, il feto si è dapprima mosso, scalciando, poi si è fermato per sempre. Poche ore dopo la madre ha partorito una bimba senza vita. Si sarebbe dovuta chiamare Shuang, ossia "piena di luce": è morta prima di nascere. Subito dopo il corpicino è stato immerso in un secchio d`acqua per accertare l`avvenuto decesso. Durante la stessa campagna, almeno. 160 giovani donne sono state costrette ad abortire all`ottavo o al nono mese di gravidanza.

Tutte le donne che hanno già avuto un figlio, ogni tre mesi devono sottoporsi a un "test" di gravidanza. Chi risulta incinta viene convinta ad abortire dalla "pianificatrice familiare". Oggi le ragazze non vengono più trascinate in ospedale con la forza, ma sono sottoposte a un lavaggio del cervello. «Queste atrocità sono all`ordine del giorno», testimonia una esule dell`associazione "Donne Tibetane in Italia" che preferisce mantenere l`anonimato. «Nella nostra terra le donne incinte continuano a subire torture, sterilizzazioni e aborti forzati, contro la loro volontà. Condotte in ospedale, sono sottoposte a punture velenose per far morire feti persino all`ottavo mese. Oppure vengono operate in modo che non possano più procreare». Per la legge cinese non si può avere più di un figlio. Fatta eccezione peri più potenti e raccomandati, la nascita del secondogenito viene contrastata con ogni mezzo, dal licenziamento del capofamiglia alla condanna in carcere. «Certo, la legge che ci hanno imposto vale anche per loro», commentala donna tibetana, «ma in questo modo, noi, perseguitati da oltre mezzo secolo e con ogni mezzo, siamo scomparendo, e siamo già minoranza nella nostra terra. In Tibet, infatti, siamo scesi a sei milioni di autoctoni, contro i sette milioni e mezzo di cinesi invasori. Solo più di 100 mila sono riusciti a fuggire col Dalai Lama nel 1959. E di questi molti sono morti per il cambio del clima». Altro caso Ama Adhi, una signora anziana che è stata in prigione per 28 anni, grazie ad Amnesty International è uscita, e ha testimoniano le atrocità subite, come le violenze continue da parte dei poliziotti cinesi. Ora la donna vive in India. «Stiamo scomparendo, non ce la facciamo più», denuncia l`esule tibetana in Italia, «io non ho mai visto il Tibet. Sono rimasta orfana da quando avevo 6 anni, entrambi i miei genitori sono  morti dopo l`esodo per il caldo, non hanno superato il cambio di temperatura dal Tibet all`India. Tantissimi tibetani sono morti così, molti si sono ammalati di malaria. Ho un fratello monaco tibetano in India, e uria sorella scomparsa di recente che ha lasciato cinque figli. Qualcuno ci aiuti, così non può continuare».