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A Dharamsala i ragazzi pronti a immolarsi

di Valeria Fraschetti - 10/03/2009

 

«Riusciremo a far trionfare la nostra verità, l`India ha impiegato due secoli per dimostrare la sua verità e cacciare i britannici, il Tibet è stata un nazione libera per oltre 2000 anni e tornerà ad esserlo, ma quella tibetana è una battaglia ancora giovane». A Lhakpa Tsering 50 anni sembrano pochi. Non era nemmeno nato quando i tibetani insorsero contro l`occupazione dell`esercito della repubblica popolare cinese. La protesta venne soffocata a colpi di cannoni, costringendo il giovane Dalai Lama a fuggire in India e continuare da qui a dare voce alle aspirazioni di autonomia del popolo tibetano. Nonostante il dialogo tra le autorità tibetane in esilio e Pechino sia impantanato da mesi, sulla terrazza assolata del Youth Congress Party che affaccia sulle casupole di Dharamsala Lhakpa parlando al R f )r mista si dimostra fiducioso. E convinto che oggi, anche grazie alle proteste avvenute a Lhasa esattamente un anno fa, l`attenzione internazionale verso la causa tibetana sia cresciuta e che la crisi economica globale indebolirà la Cina a vantaggio delle loro istanze. «Le tensioni sociali cresceranno e anche le performance economiche del gigante asiatico non saranno più tanto smaglianti, così Pechino sarà costretta a tenere più in considerazione la voce delle altre potenze internazionali che appoggiano la nostra causa». Sarà, ma nonostante le sue ottimistiche  convinzioni, questo 27enne che dirige l`ala culturale del partito dei giovani tibetani i segni della sua frustrazione li porta ancora addosso. Alza l`orlo dei suoi pantaloni fino alle ginocchia per mostrarceli: sulla pelle vesciche vecchie tre anni. «Perla mia patria non ucciderei nessuno, ma sono pronto ad uccidermi», spiega Lhakpa. Ed è esattamente quello che tentò di fare quando nel 2006 il premier cinese Wen Jabao arrivò a Mumbai perla sua prima visita ufficiale in India. Lhakpa raggiunse la città da Bangalore, dove studiava, e si cosparse di cherosene dalla testa ai piedi. Per sua fortuna la polizia indiana fu lesta e riuscì a mandare in fumo il suo tentativo di immolazione. Poche settimane fa piazza Tienammen è stata teatro dello stesso gesto. Era Losar, il capodanno tibetano. Una ricorrenza che quest`anno è stata celebrata senza gioia. Per le vie di Dharamsala sono ancora appesi manifesti giganti che su sfondo nero invitavano a non festeggiare. Un segno di lutto per la repressione avvenuta lo scorso anno quando i loro compatrioti a Lhasa sono scesi per strada per alzare la voce contro le autorità cinesi. Decine di tibetani sono stati uccisi, di centinaia si sono perse le tracce. Secondo un rapporto fresco di stampa dell`International Campaign for Tibet, sarebbero almeno 1.200 le persone che dalle proteste dello scorso marzo mancherebbero all`appello. Vessazioni da cui qualcuno riesce a fuggire, nonostante in queste ultime settimane il governo di Pechino, che teme insurrezioni simili a quelle del 2008, abbia rafforzato la presenza della polizia nella regione. Anche Rinchen Sangpo a quest`ora sarebbe potuto essere in prigione, invece sorride mentre seduto a gamba incrociate su uno dei letti della camerata del Centro per rifugiati di  Dharamsala lo sorprendiamo radersi la testa. E arrivato 20 giorni fa, insieme ad un altro monaco come lui. Racconta al Riformista di come l`anno scorso ha denunciato su Radio Free Asia i soprusi cui ha assistito nel suo monastero nel Tibet orientale: «La polizia era entrata all`improvviso, distruggendo dipinti sacri e portando via i soldi di tutti». Da allora ha continuato a raccogliere testimonianze di angherie e torture, finche il suo attivismo politico è stato scoperto: un mese fa è arrivata la lettera che lo invitava a presentarsi in commissariato, la notte stessa si è incamminato verso l`esilio portando con sè solo una coperta e qualche provvista. «È solo perché i miei amici hanno pregato per me che sono riuscito ad arrivare qui sano e salvo», ci dice Tenzin Tsering, seduto anche lui su una branda del centro per rifugiati. Mentre il Dalai Lama sorride in una foto appesa alle sue spalle, Tenzin non smette di agitare i suoi piedi che calzano Nike contraffatte. Dopo due giorni nascosto in un veicolo che lo portava via da Lhasa, ne ha trascorsi quattro camminando con altri due coetanei nelle foreste verso il Nepal. Notte e giorno, solo soste di tre ore per tentare di schiacciare un pisolino nel freddo. «Non ne potevo più racconta -- le discriminazioni erano all`ordine del giorno, persino nei negozi mi costringevano a pagare il doppio solo perchè sono tibetano». Non sa bene cosa aspettarsi dal-
 la sua nuova vita: Il mio unico desiderio al momento è incontrare il Dalai Lama e poter un giorno tornare con lui  in un Tibet libero». Quando tentiamo di dire che da 50 anni la situazione non accenna a migliorare, è perentorio: «Riusciremo ad avere la nostra autonomia». Non è un caso, insomma, se la pazienza tibetana sia diventata proverbiale nel mondo.