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Tibet in rivolta, scontri e arresti

di Federico Rampini - 10/03/2009

 

 

Bombe contro la polizia e manifestazioni nei monasteri "bucano" la cortina del silenzio che la Cina impone attorno al Tibet. Malgrado lo stato d´assedio che stringe la regione ieri è stata una escalation di tensione: un centinaio di monaci deportati dal monastero di Lutsang, espulsioni a raffica di stranieri e testimoni scomodi. Come temeva il governo cinese, il cinquantesimo anniversario dell´esilio del Dalai Lama ha riaperto ferite antiche e recenti. Non si spegne la resistenza contro quella che molti tibetani considerano un´occupazione straniera e un "genocidio culturale" (così lo definì il Dalai Lama) della loro identità nazionale. I cinquant´anni della fuga in India del loro leader spirituale precedono il primo anniversario delle tragiche giornate di Lhasa: il 14 e 15 marzo 2008 la capitale del Tibet fu il teatro di violenze contro gli immigrati cinesi e poi di una brutale reazione poliziesca.
Ieri delle bombe artigianali sono state lanciate contro la polizia nella vicina provincia del Qinghai, dopo gli scontri fra la popolazione tibetana e pattuglie militari che bloccavano le strade per controlli d´identità. I militari hanno circondato anche il monastero di Rebkong, uno dei tanti da cui giungono notizie di proteste. La settimana scorsa un monaco si era dato fuoco; un centinaio di religiosi avevano sfidato i divieti manifestando per la libertà di culto e per la liberazione dei prigionieri politici.
Secondo le stime degli esuli 1.200 persone sarebbero scomparse dopo la rivolta di un anno fa. Da settimane il governo cinese allarga il dispositivo di sicurezza ben oltre i confini amministrativi del Tibet ufficiale, dà la caccia i giornalisti, sigilla militarmente le enclave etniche tibetane nelle tre provincie limitrofe del Qinghai, Sichuan e Gansu. Colonne di camion dell´Esercito Popolare di Liberazione sono avvistate sui valichi di montagna, accampamenti fortificati appaiono vicino alle comunità tibetane più importanti. Si dilata così la "terapia di Lhasa", quell´imponente schieramento di forze da combattimento che ha piegato la capitale.
In molte aree si segnalano blackout di Internet, gli stranieri sono stati espulsi anche da alcune zone del Sichuan, nei locali notturni è vietato perfino il "rock tibetano" considerato come un veicolo di protesta. Pechino conferma di avere rafforzato i controlli a tutte le frontiere del Tibet, «in previsione di atti di sabotaggio organizzati dai secessionisti». Il presidente Hu Jintao chiama a «costruire una grande muraglia contro il separatismo». E aggiunge un duro avvertimento ai governi stranieri: «Nessuno ospiti il Dalai Lama».
Oggi la Repubblica Popolare vorrebbe celebrare 50 anni di «riforme democratiche e abolizione della servitù feudale in Tibet». In realtà l´invasione cinese è ancora più antica, compie quasi sei decenni. Poco dopo il trionfo della rivoluzione comunista a Pechino (1949), Mao Zedong già il 1° gennaio 1950 annuncia per il Tibet l´imminente "liberazione dal giogo dell´imperialismo britannico" (la limitata influenza britannica in realtà era finita con la seconda guerra mondiale). Il 7 ottobre 1950 quarantamila soldati dell´Esercito di liberazione popolare attraversano il fiume Yangze e dilagano in tutto il Tibet occidentale uccidendo ottomila guardie del Dalai Lama.
Il primo decennio dell´occupazione cinese però è quasi "soft". Inizialmente Mao ha istruito le truppe per accattivarsi la popolazione locale, evitare la violenza, rispettare il clero buddista. E´ a metà degli anni Cinquanta che le milizie comuniste cominciano a svuotare i monasteri, nelle provincie di Amdo e Kham. Parte nel 1955 la prima insurrezione armata con armi fornite dalla Cia. Nel 1956 Pechino scatena una delle sue offensive più sanguinose: 150.000 soldati e bombardamenti a tappeto. Fallita la rivolta, nel 1959 il Dalai Lama in pericolo di vita fugge in esilio in India. A quel punto la repressione cinese ha fatto 65.000 vittime, altri 70.000 tibetani sono deportati nei campi di lavoro, 80.000 hanno traversato il confine indiano o nepalese per finire negli accampamenti di profughi.
Da quel momento in poi è un escalation di sofferenze per i tibetani, fino agli esperimenti estremi della Rivoluzione culturale, quando le Guardie rosse di Mao devastano uno dei più ricchi patrimoni artistici e archeologici dell´umanità. Su seimila templi e monasteri censiti prima del 1959 pochi restano intatti nel 1976, dopo dieci anni di Rivoluzione culturale. Stremati anche dalle carestie, i tibetani non perdono però la volontà di resistenza. Spesso sono le ricorrenze come quella di oggi a riaccendere la loro protesta. Vent´anni fa una rivolta massiccia dilaga due giorni prima dell´anniversario della fuga del Dalai Lama. In quel periodo il Tibet è governato da un giovane burocrate in ascesa, un commissario politico venuto da Pechino: è Hu Jintao, l´attuale presidente della Repubblica e segretario generale del partito comunista. Quell´8 marzo 1989 Hu Jintao non ha esitazioni, dichiara la legge marziale e chiama l´esercito a schiacciare la ribellione. A posteriori molti vedranno in quella normalizzazione "periferica" la prova generale per il massacro di Piazza Tienanmen. Cioè l´altro anniversario che il regime cinese attende con nervosismo quest´anno.