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Cinquant'anni dopo, Lhasa città chiusa

di Alessandro Ursic - 10/03/2009

   
L'anniversario dell'insurrezione popolare in Tibet dà alla Cina l'occasione di chiudere ancora di più la morsa sull'altipiano

 

Nel cinquantesimo anniversario dell'insurrezione popolare contro la presenza cinese in Tibet, Lhasa è una città chiusa. Le autorità di Pechino, l'anno scorso colte di sorpresa dalle rivolte contro la comunità Han, stavolta si sono premunite per tempo: le strade dell'altipiano e delle regioni circostanti sono presidiate da soldati, l'accesso alla regione è proibito agli stranieri per tutto il mese di marzo. Finora non si registrano disordini - e anche se ci fossero, mancherebbe qualcuno che li racconti. La propaganda statale si sforza di dare un'immagine di normalità, sostenendo che questo è il periodo migliore nella storia del Tibet. Ma dal suo rifugio di Dharamshala, in India, il Dalai Lama denuncia intanto la "brutale repressione" ancora in atto.

La cultura e l'identità tibetane, ha detto il leader spirituale in un discorso pronunciato oggi, sono "vicine all'estinzione. I tibetani sono visti come criminali, meritevoli di una condanna a morte". Il Dalai Lama, alla cui "cricca separatista" la Cina attribuisce qualsiasi segnale di insubordinazione contro Pechino, ha ribadito la sua richiesta di maggiore autonomia ma senza arrivare all'indipendenza, esortando i tibetani a "continuare a lavorare per l'amicizia con i cinesi". Ma senza professare troppo ottimismo: Dobbiamo sperare per il meglio, ma prepararci al peggio", ha aggiunto.

Il Dalai LamaA Lhasa e nel resto dell'altipiano, nel frattempo, la situazione pare calma. Ma anche perché l'esercito cinese ha stroncato sul nascere qualsiasi protesta o rivendicazione, seguendo l'ordine di "mobilitarsi e usare tutte le proprie forze". Almeno 20mila militari hanno raggiunto la regione, le strade delle città sono pattugliate costantemente. Nei giorni scorsi, in alcune zone sono state anche disattivate le reti dei telefoni cellulari, l'anno scorso fondamentali nel passaparola che ha diffuso la protesta contro gli Han. Fino al primo aprile, la principale compagnia telefonica ha fatto sapere ai suoi abbonati, la rete andrà incontro a una "manutenzione". Il clero tibetano, in particolare, è sotto una sorveglianza speciale. Ieri, 109 monaci sono stati prelevati dal monastero di Lutsang, nella provincia di Qinghai, per essere sottoposti a "rieducazione": sono accusati di aver partecipato a una veglia di mezz'ora il 25 febbraio, per commemorare le vittime delle rivolte di un anno fa. In quell'occasione, secondo Pechino ci furono 21 vittime, tutte della comunità cinese; per il governo tibetano in esilio, nella successiva repressione furono invece uccisi fino a 200 tibetani.

Ufficialmente, per le autorità di Pechino il Tibet rimane aperto ai turisti. Ma da settimane le agenzie di viaggio hanno cancellato qualsiasi tour fino ad almeno l'inizio di aprile. La centralinista di un famoso albergo di Lhasa, contattato telefonicamente da PeaceReporter, alla richiesta di una prenotazione per la prossima settimana ha preso nota di tutti i dettagli possibili dell'ipotetico turista - spostamenti previsti in Cina, provenienza, numero di telefono - promettendo di far sapere entro pochi minuti via mail; la risposta non è mai arrivata. I giornalisti che hanno cercato di avvicinarsi all'altipiano sono stati respinti già nelle regioni circostanti, in teoria non coinvolte nelle misure repressive. I telefoni di Lhasa sono intercettati, o almeno così credono tutti gli abitanti contattati dai giornali stranieri.

L'intento di dare una parvenza di normalità alla situazione è evidente. Nelle ultime settimane, i media cinesi hanno diffuso un'inusuale quantità di notizie positive sul Tibet, a partire dalla pubblicazione di un rapporto su come la regione sia "nel periodo migliore del suo sviluppo, 50 anni dopo le riforme democratiche", o su quanto sia migliorata l'alfabetizzazione dei tibetani. Il 28 marzo, anniversario della fuga del Dalai Lama in India, è stato proclamato "Giornata dell'emancipazione dei servi". Tuttavia, Pechino sembra pensare che non sia ancora il momento di abbassare la guardia: proprio ieri, il presidente Hu Jintao ha esortato alla costruzione di una "Grande Muraglia" contro il separatismo nella regione. Forse si rende conto anche lui che le aspirazioni tibetane, anche se soffocate in coincidenza dell'anniversario che Pechino teme, avranno altre occasioni di uscire allo scoperto.