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«I tibetani hanno letteralmente sperimentato l`inferno in terra»

di Marco Del Corona - 11/03/2009

 

Divisi su tutto, la Cina e il Dalai Lama. Un po` meno, sulle metafore. Se Pechino si affanna a sostenere, dati alla mano, che il Tibet non è mai stato il lieto Shangri-La, il paradiso spirituale vagheggiato «da certi occidentali», ma anzi una terra di schiavitù e arretratezza medievale, il leader buddista ieri ha usato un`immagine affine: «I tibetani hanno letteralmente sperimentato l`inferno in terra». Ha parlato da Dharamsala, in India, dove vive da mezzo secolo. Ricorreva l`anniversario della sommossa che nel 1959 portò alla fuga oltreconfine del giovane Dalai Lama, e lui ieri aveva davanti il nocciolo dei suoi seguaci, che sognano un improbabile ritorno in una terra idealizzata ma che al contempo seguono il loro capo sulla linea della «via di mezzo»: né cruda annessione alla Cina né indipendenza, ma «una legittima e significativa autonomia». Il Dalai Lama ha rinunciato dal 1979 a reclamare la piena sovranità del territorio. Gli storici non concordano sul grado di indipendenza anticamente goduto dal Tibet, in una contesa che non riesce a essere semplicemente accademica ma diventa subito politica. Tuttavia ieri era il giorno deputato a rimarcare «gli abissi di sofferenza e miseria» derivati dall`occupazione cinese del 1950 e dallo smantellamento della formale semiautonomia prevista dagli accordi dei 1951. La portata simbolica dell`anniversario ha caricato le parole del Dalai Lama di toni duri. Settantaquattro anni a luglio, il premio Nobel per la pace ha parlato di «centinaia di migliaia di tibetani morti» sotto una «brutale repressione», di «un popolo di criminali degni solo di morire», di una vita di «paura costante». Il fiorire di infrastrutture, poi, «serve solo a sinizzare il territorio» (la stampa cinese ironizza: il Dalai Lama dice ai suoi di non abitare nelle case nuove perché portano sfortuna). Dunque, quasi evocando i cupi affreschi di demoni e fiamme dei templi lamaisti, ecco l`«inferno in terra». Oltre che a Dharamsala, iniziative a sostegno della causa tibetana si sono registrate anche a Delhi e in altre capitali. In Nepal, dove il governo maoista ha risposto alle sollecitazioni cinesi perché non fossero permesse manifestazioni, tensioni con la polizia. In Tibet e nelle zone tibetane delle province circostanti ieri la tensione è rimasta alta. La massiccia presenza militare, i controlli 24 ore su 24, il reticolo di posti di blocco, la stretta sui monasteri sembrano siano riusciti a scoraggiare proteste clamorose. E non è finita, perché sabato 14 è l`anniversario degli scontri (con vittime) dell`anno scorso e il 28 si celebra la nuova festa governativa per celebrare «la fine della schiavitù in Tibet». La macchina politica di Pechino ha fatto il resto, con il portavoce Ma Zhaoxu pronto a dichiarare che «la cricca del Dalai Lama non distingue il vero dal falso e propaga dicerie». Il governo cinese ha anche avvertito il Congresso americano perché eviti risoluzioni sul tema ma ieri sera la Casa Bianca si è detta «inquieta» per la situazione dei diritti umani in Tibet e ha esortato le autorità cinesi a perseguire il dialogo con i rappresentanti del Dalai Lama. Pechino si prepara a sabotaggi, il Dalai Lama, altrettanto esplicitamente, sostiene che «occorre prepararsi al peggio» anche se «non rinuncio alla speranza». Ha aggiunto: «In Tibet la giustizia prevarrà». Pechino è convinta d`aver già provveduto.