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Il monaco dagli occhi azzurri e l'abate di Bec

di Cesare Catà - 11/03/2009

Il monaco dagli occhi azzurri e l'abate di Bec.
Piccolo studio sulla valenza del concetto di "verità" in Anselmo d'Aosta e in alcuni scritti chan

 

Con grande impegno, cercava di cogliere con il proprio
intelletto, in accordo con la fede, quanto sentiva celato
nelle scritture, avvolto da fitta oscurità
”.
EADMERO DI CANTERBURY, Vita sancti Anselmi

“Da lontano Bodhidharma vide che questo paese (la Cina)
aveva uomini capaci del Grande Veicolo. Così venne per
mare, dedito alla sua missione, puramente per  trasmettere
il Sigillo della Mente, per risvegliare e istruire quelli che
erano impantanati nell’illusione”.

YUAN WU, Pi-yen lu 

 

 

 

Si legge, nel kung an che apre il Pi-yen lu1, la vicenda che vede il mitico fondatore del buddhismo chan Bodhidharma incontrare l’imperatore Wu del Liang. “Qual è il significato delle quattro nobili verità?”, chiese l’imperatore a Bodhidharma. “Inutili, senza nobiltà”, rispose Bodhidharma. “Chi è che mi risponde così?”, chiese l’imperatore. Bodhidharma rispose: “Non lo so”2.

L’episodio narrato si svolge verosimilmente nel VI sec. d. C., e circa quattrocento anni dopo avrebbe costituito l’incipit di uno dei più venerati testi della letteratura chan: “La Raccolta della roccia blu”, il Pi-yen lu. Una tradizione dalle fragili basi storiche3 addita in Bodhidharma il primo patriarca cinese e il fondatore del buddhismo chan.

Monaco forse persiano che lasciò l’India per la Cina introducendovi il Buddhismo, Bodhidharma appare negli scritti chan quale figura di saggio ideale, i cui connotati sono per noi ravvisabili nei testi che ne narrano le vicende. In questo senso, un documento prezioso è il kung an sopra citato. Quest’ultimo parrebbe esprimere – posto com’è al principio del Pi-yen lu, e avente come oggetto della narrazione l’arrivo del primo patriarca in Cina – il fondamento essenziale del Chan.

Di primo acchito, e considerato che la tradizione scorge in Bodhidharma colui che introdusse il buddhismo dall’India nella Cina, la risposta che “il monaco dagli azzurri”, come egli talvolta è chiamato, rifila all’imperatore Wu è sconcertante: le “quattro nobili verità” predicate da Sakya Muni non sono, in realtà, nobili: non hanno alcun senso né utilità.

Tentare di chiarire questa risposta di Bodhidharma può significare, in primo luogo: addentrarci subitaneamente nel cuore della dottrina chan, quel ramo del buddhismo cinese che diede vita, fra il VI e l’ XI secolo d. C., a un connubio culturale quanto mai interessante fra il nucleo dottrinale del buddismo indiano e il retroterra taoista cinese; inoltre: possiamo compiere da qui il primo passo verso lo scopo di questo studio, ossia scorgere lo iato fra il concetto di “verità” quale può essere letto in Anselmo d’Aosta – fulgido esempio della cultura dell’Europa cristiana medievale – e la visione propria del Chan, la quale, come tenteremo di chiarire, non ammette, in senso stretto, una concezione di “verità” nella valenza che tale termine ha sviluppato nella storia della filosofia occidentale. È tale concezione che la filosofia anselmiana sviluppa invece finemente, e tematizza esplicitamente nel De veritate.

 

 

 

A partire o a prescindere dalla “verità”: al bivio del pensare umano

 

La questione della verità si mostra come un punto nodale: non solo per la speculazione dell’Abate di Bec, ma, volendo generalizzare, per lo stesso generarsi del pensiero filosofico quale si manifestò nella parola aurorale degli Elleni. È l’annuncio della “verità” che il balbettio dei frammenti presocratici ci tramanda; αληθεια è altresì l’oggetto, differentemente, sia del corpus platonico che di quello aristotelico. Con una formula a un tempo apodittica quanto problematica, diremo che la filosofia occidentale è la storia stessa del concetto di verità.

In quanto punto nevralgico e nodale, in quanto fondamento, la questione de veritate può mostrarci con forza la divaricazione post-assiale, per usare la felice immagine di Jaspers4, fra il nostro filosofare occidentale e un pensare altro che si costituisce senza questo fondamento.

Solo nell’altro, come ha detto Lacan, si può riconoscere se stessi5. In qualcosa che noi non siamo. Il concetto di verità che nell’XI secolo risuonava nel cuore dell’Abate di Bec, ed egli annotò, è l’espressione di una cultura il cui senso e valore, e la cui relatività e valenza, saranno messi in luce a partire da una comparatio con un aspetto essenziale del buddhismo chan: la ricerca della liberazione buddhica dalla sofferenza a partire dalla consapevolezza taoista della “vuotezza” della realtà insegnata da Chuang-zi e nel Dao De Ching. È infatti in questa visione peculiare del Chan che noi possiamo meglio comprendere l’assenza del concetto di verità costituente invece il fondamento del filosofare della “terra del tramonto”.

Francois Jullien ha stigmatizzato chiaramente la distanza tra la filosofia occidentale, che egli vede come una sorta di “fissazione su di una verità”, e un pensiero altro, quello cinese, nel quale l’essere umano “non concepisce, ma realizza6: il pensare cinese è privo sia di un oggetto (la verità) che di un soggetto (l’uomo nell’attività del concepire: la mente), ma è bensì una sorta di processo, volto a realizzare, nel senso inglese di realize, “prendere coscienza”, ciò che, semplicemente, naturalmente è. Scrive Jullien: “Del fatto che l’oggetto, nel suo rapporto col soggetto, si è visto progressivamente ‘determinato’ e ‘riflesso’, deriva la possibilità di una storia, quella della ‘verità’, in altre parole della filosofia. Ma ciò vale se visto dall’interno stesso della filosofia. Dall’esterno, ossia sforzandoci di trovare un esterno a questa storia, si è portati a chiedersi se, così facendo, la filosofia non abbia dapprincipio perso qualcosa”7.

Il costituirsi a partire dal concetto di verità può significare, secondo Jullien, una perdita per la filosofia. Cosa perde un essere-uomini che scorge il pensare come un tentativo di adeguazione di qualcosa (la mente) a qualcos’altro (la verità), formalizzando tale tentativo nell’attività concettuale? Cercare di rispondere a questa domanda significa indagare la dottrina della saggezza, ossia di quel pensare che non si costituisce sul fondamento della verità quale corrispondenza-adeguazione del soggetto a un oggetto.

Questa corrispondenza-adeguazione avviene in ultima analisi concependo il principio del reale (αρχή), che Anselmo chiama: Dio. La verità è coincidente con Dio. Il principio ultimo della realtà è la verità. In ciò che possiamo leggere negli scritti chan, il rapporto umano con il principio non ha nulla a che vedere, invece, con un pensiero che concettualizzi un determinato oggetto ultimo. Il principio e la verità, cioè, non sono pensati coincidenti. Ciò può risultare chiaro dalla risposte fulminanti di Bodhidharma all’imperatore Wu, da cui siamo partiti.

“Sono inutili, senza nobiltà”, è la prima risposta di Bodhidharma. Ma a quale domanda Bodhidharma rispondeva? L’imperatore Wu aveva chiesto quale fosse il significato essenziale delle quattro nobili verità del Buddhismo. Forse l’imperatore si aspettava un commento da un monaco venuto dall’India che conosceva a fondo il Canone pali, o forse era in cerca di un chiarimento sulle modalità della quarta verità. In ogni caso, l’imperatore Wu, come personaggio, ha, in questo kung an, un ruolo ben preciso: egli impersona il non-risvegliato. Tale sua condizione consiste nel credere che il risveglio (dao, scr. bodhi), risieda in una conoscenza intellettuale; consiste nel credere che le dottrine scritte liberino dal dolore: egli confonde la luna con il dito che la indica; sostanzialmente, diremo che la sua condizione di non-risvegliato consiste nel credere: il saggio, invece, è senza idee. L’imperatore chiede a Bodhidharma il significato essenziale, ultimo delle dottrine. In ultima analisi, le dottrine sono inutili: da rigettarsi. Esattamente come la scala wittgensteiniana.

Qui vediamo l’accoglienza profondamente sinica, avvenuta nella cultura chan, di una visione propria del Grande Veicolo, che ha la sua scaturigine nel pensiero di Nagarjuna8: la visione per cui vi è un piano della “verità relativa” (scr: samvrti) e uno della “verità assoluta” (paramārtha); il primo è propedeutico al secondo, nel senso che esso deve mostrare la vanità della logica concettuale con i suoi stessi mezzi, per giungere a un livello più alto di consapevolezza, nel quale si è “liberi dalle opinioni”, come aveva insegnato Sakya Muni: e dunque dalla sofferenza che esse, nient’altro che forma del “desiderio” (scr: trishnā), producono. Di qui l’ “eretica” affermazione di Nagarjuna, per cui al livello della “verità assoluta” il nirvana e il samsara non hanno alcuna differenza. Solo un non-risvegliato – attaccandosi a quella forma di sofferenza che è un’opinione – può distinguere il nirvana dal samara.

Lo spirito cinese, assai meno propenso di quello indiano alle grandi formulazioni logiche, accolse l’insegnamento di Nagarjuna con il “pragmatismo del non-agire” proprio del Taoismo: quando infatti l’imperatore chiede il significato ultimo delle quattro verità, Bodhidharma risponde direttamente a partire dal livello del paramārtha: egli toglie, per così dire, la scala dai piedi dell’imperatore perché egli comprenda cadendo. Metodi fatti di violenza logica non sono affatto insoliti nel Chan.

A partire dal livello della verità assoluta, le nobili verità sono del tutto inessenziali. Se il dolore della vita scaturisce dall’attaccamento a essa, è a partire dalla comprensione del non-senso di tale attaccamento, che la liberazione avviene. Nulla vi è cioè di sostanziale, di reale. Ciò che è da distruggersi, vediamo, è la verità intesa quale comprensione concettuale fondativa. Il monaco dagli azzurri mostra come il principio del reale sia vuoto: in questa consapevolezza, consistente nel vedere la non-verità di alcunché, risiede la liberazione dal dolore.

 

 

 

O la saggezza o la verità. Gli aspetti di un pensiero “senza idee”

 

La modalità espressiva di ciò, peculiare del chan e quintessenzialmente sinica, è, abbiamo detto, un’accoglienza violenta dell’insegnamento di Nagarjuna. Possiamo meglio comprendere la “funzione Nagarjuna” all’interno del Buddhismo chan, richiamando il sesto kung an del Wu-men kuan di Mu-mon9:  vediamo il Buddha sulla montagna Grdhrakuta porsi in silenzio di fronte a un’assemblea, girando semplicemente un fiore tra le dita. Fra la folla vi era Maha-Kashapa, che fu immediatamente risvegliato da quel muto gesto di Gautama. La comunicazione fra il Buddha e il suo discepolo è avvenuta a quel livello della verità assoluta nel quale la logica e il linguaggio collassano.

Collassano in quanto il principio del reale è indeterminato, vuoto: nulla ha senso, di per sé. La verità è non altro che la manifestazione di un attaccamento generante il dolore che costituisce la materia dell’esserci. Per questo attingere al risveglio vuol dire liberarsi dalle opinioni, dalla verità. È ciò che Bodhidharma esprime con la prima delle sue risposte all’imperatore. Scrive a questo proposito nel suo commento Yuan Wu: “Senza le contaminazioni mentali del giudizio e del confronto, tutto è tagliato fuori, e siete liberi, e a vostro agio. Che bisogno c’è di continuare a distinguere il giusto e lo sbagliato, o a discriminare tra il guadagno e la perdita? Ma quanti sono capaci di far questo?”10.

Riguardo questo punto, sarebbero molti i passi del corpus chan che potremmo chiamare in causa. Ne scegliamo, dati i confini assai modesti di questo piccolo studio, solamente uno, ma a nostro avviso assai significativo, e anche molto bello da un punto di vista letterario. È il secondo kung an della Raccolta della Roccia blu, immediatamente successivo a quello dell’incontro fra Bodhidharma e l’imperatore Wu. Citiamo interamene il Caso: “Chao Chou, insegnando all’assemblea, disse: ‘Il Sentiero Finale [il supremo dao] è privo di difficoltà, evita solo di scegliere e distinguere. Non appena vengono pronunciate le parole ‘questo è scegliere e distinguere, questa è la chiarezza’, questo vecchio monaco non dimora nella chiarezza?. Conservate ancora qualcosa o no?   In quel momento  un monaco disse: ‘Poiché non dimorate nella chiarezza, cosa conservate? Chao Chou rispose: ‘Non conosco nessuna delle due cose’. Il monaco replicò: ‘Se non le conoscete, maestro, perché dite lo stesso di non dimorare nella chiarezza?’ Chaou Chaou disse ‘E’ sufficiente fare domande sulla cosa; inchinati e ritirati”11.

Con la solita paradossalità chan scaturente dal parlare direttamente dal nagarjuniano livello della verità-assoluta, questo kung an ci mostra il grande maestro Chao Chou (giapp. Joshu) esporre, con quel taglio didattico “radicale” che gli era proprio12, il medesimo principio espresso da Bodhidharma con la prima delle sue risposte all’imperatore: la distruzione delle opinioni. Il principio è vuoto e indeterminato: per cui ogni determinazione, ogni discriminazione, ogni analisi nel senso anche etimologico del termine, separano da esso. Chao Chou cita, nel suo discorso, un verso tratto dal Sigillo della fede del Terzo patriarca; il passo intero recita:

 

Il sentiero finale è privo di difficoltà;

Evita solo di scegliere e distinguere.

Non amare e non odiare

E sarai sereno come l’acqua13.

 

Il principio è l’assolutamente neutro, vuotezza designificante ogni determinazione. Svuotata così di senso ogni cosa, il dolore stesso, avente la sua radice nel desiderio di un dato illusivo, dilegua. Wittgenstein disse qualcosa di assai simile scrivendo che “la risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso”14. Poiché nulla, in ultima analisi, ha senso, ma è bensì l’attaccamento desiderativo umano – radice del dolore – a conferire significato a un darsi del reale in sé assolutamente vuoto (cioè privo di senso), l’ “evitare di scegliere e distinguere” citato da Chao Chou, il “non amare e non odiare”, ha la valenza di affermare la vanità del pensiero. In questa consapevolezza che disvela la fragilità del concetto di verità e la genesi di quest’ultima dal desiderio dell’uomo, consiste ciò che Jullien chiama “saggezza”, contrapponendola alla “filosofia”, ossia alla “storia della verità”.

Ma il saggio è, quanto più possibile, “senza idee”, in quanto scorge il  nonsense del reale, il principio essendo l’assolutamente neutro. Per questo il Sentiero Finale è privo di difficoltà: privo di quelle difficoltà che la mente incontra finché è all’opera nell’attività analitica del suo distinguere il bene dal male, ricercando con dolore irrimediabile il primo per evitare il secondo. In conclusione: il concetto di verità viene qui disintegrato alla luce di una  visione del reale quale indifferente processo: essendo il principio indeterminata vuotezza, i contrari giudicati tali dalla mente risultano in ultima analisi identici: il Sentiero Finale è e non è, simultaneamente, ogni cosa.

Il Chan sembra dunque fare propria la dottrina buddhica della soppressione del desiderio attraverso l’annullamento delle illusioni desiderative mentali, alla luce della dottrina taoista che pensa il mondo quale indifferente processo privo di senso. È di questo profondo messaggio che sembra carico il secondo kung an del Pi-yen lu. Ed è qui che vediamo il valore dell’assenza del concetto di verità come fondamento.

La risposta finale di Chao Chou sembra assurdamente disarmante, ma è in realtà affilatamente rigorosa. Nel rispondere al monaco obbiettante che il non-distinguere proprio della chiarezza, del dao (bodhi), non permette di distinguere neanche la chiarezza dal suo opposto (il non-risveglio: samsara), Chao Chou si trova in una situazione simile a quella incontrata da Nagarjuna nel discutere l’obiezione secondo la quale il dover abbandonare ogni opinione è un’opinione essa stessa. Ma se là erano le stringenti logiche di una tradizione indiana, che Nagarjuna portava a compimento, a evadere l’obiezione, qui vediamo Chao Chou trovare una soluzione icastica, violenta, estrema, vitale: lascia aperta la domanda postagli, come se essa dovesse necessariamente cadere, simile a un sasso lanciato in aria. Ogni successiva parola di Chao Chou, infatti, avrebbe significato una progressiva analisi concettuale che sempre maggior significato avrebbe attribuito a ciò che egli diceva: ed è proprio ciò che il maestro sta tentando di annientare, ossia l’attribuzione di senso al reale. “E’ sufficiente fare domande sulla cosa; inchinati e ritirati”: la risposta consiste nell’arrestare le argomentazioni, privandole di sostanzialità a tal punto da rendere assurda la domanda stessa, più che la risposta.

 

 

 

 

“Non lo so”. Gli aspetti di un pensiero senza pensante

 

Può ora apparire piuttosto disvelato il significato della prima risposta di Bodhidharma all’imperatore: il perché egli disse che, essenzialmente, i quattro pilastri del buddhismo sono futili e senza nobiltà. In maniera ancor più tremendamente fulminante, un maestro, nel ventunesimo kung an del Wu-men kuan, risponde alla domanda “Che cos’è il Buddha?”, dicendo: “Merda secca”15. Occorre sottolineare come questa posizione chan non sia una semplice iconoclastia nei confronti del Canone e delle dottrine. Ben più profondamente, è qui raffigurata una visione del mondo nel quale l’attività concettuale umana non si costituisce a partire dal fondamento della verità: e ciò in quanto il principio è l’assolutamente indifferente, vuoto. Per cui “il mondo” è un processo neutro, nel quale le distinzioni della mente operante per indicazione di contrari sono l’ostacolo alla saggezza che scorge i contrari come non-contraddittori, in quanto coincidenti nel principio indeterminato.

La verità, dunque, posta come adeguazione comprensiva di un oggetto da parte di un soggetto, non è fondante, bensì accidentale: ed è inoltre l’accidente costituente l’ostacolo per il risveglio. Quest’ultimo essendo la visione del semplicemente “è così”, il naufragare di ogni opinione, l’intuizione che nulla è sostanziale. Qui il pensiero umano si costituisce a partire da una visione fondamentalmente opposta alla dicotomia di platonica memoria fra αληθεια e δοξα. Tutto, potremmo dire impropriamente, è δοξα: in quanto non vi è nessuna αληθεια che fondi ontologicamente la sostanzialità delle cose: bensì tutto è parte di un processo neutro insignificante; di un “gioco”, potremmo dire usando il termine nella sua accezione più squisitamente psicanalitica.

Chiarito il guadagno che abbiamo potuto scorgere a partire dalla prima risposta di Bodhidharma, possiamo tentare ora un passo ancora oltre, scorgendo come anche il secondo polo della dialettica oggetto-soggetto costituente la concettualizzazione della verità come fondamento si disintegri, nella cultura chan. Questo secondo passo, consistente dunque nel chiarire i connotati della disintegrazione del soggetto ora accennata, possiamo compierlo con Bodhidharma: partendo dalla seconda risposta che il monaco dagli azzurri dà all’imperatore Wu.

Quando Wu chiede chi è che risponde a lui in tal modo riguardo le quattro nobili verità, il monaco dagli azzurri risponde “Non lo so”. “L’imperatore non capì”, narra il kung an. E non avrebbe potuto. In quanto Bodhidharma, a differenza di Nagarjuna, non usa la “verità relativa” per mostrare la “verità assoluta”: parla piuttosto a partire da quest’ultima, vanificando la prima. Così, in questa sua risposta, il personaggio di Bodhidharma esprime, con la modalità espressiva del Chan, quella che chiameremmo la non-sostanzialità della mente. Come abbiamo detto, nella cultura chan la nozione di verità e il principio ultimo sono divaricati. Dunque non vi  è un fondamento ontologico dell’esserci del singolo, il quale nella corrispondenza fra una verità fondativa e la sua attività concettuale si costituisca come sostanza. Al contrario, l’attività della mente deve essere trascesa intuendone l’essenziale illusività, l’inconsistenza: il principio essendo il vuoto senza-senso. Bodhidharma “non sa” chi sia a rispondere, mentre risponde, in quanto non può esservi corrispondenza fra mente e principio, ossia verità.

“Non lo so”, disse Bodhidharma, e abbandonò l’imperatore, che non capì. Ma quando Wu seppe che quel monaco dagli occhi chiari, vestito di pezze e con i denti spezzati, era Bodhidharma, tentò di farlo tornare alla sua corte – invano. Bodhidharma non tornò mai dall’imperatore Wu: tornando avrebbe contraddetto le sue risposte. Il Chan infatti insegna che, se a un adepto dovesse capitare di incontrare il Buddha per la strada, farebbe bene a ucciderlo.

Bodhidharma non tornò dall’imperatore. Attraversò lo Yang-zi. Entrò a Wei. Andò nel monastero Shao Lin, dove sedette nove anni ininterrottamente fissando un muro, tanto che le sue gambe marcirono. Qui accadde il celebre episodio che segna l’inizio del Chan, narrato nel quarantunesimo kung an del Wu men kuan: “Bodhidharma sta seduto con la faccia verso il muro. Il suo futuro successore [Hui Ko] sta in piedi sulla neve innanzi a lui, e gli porge il proprio braccio troncato. Grida: ‘ La mia mente non è tranquilla; maestro, vi prego di tranquillizzare la mia mente’. Bodhidharma disse: ‘Porta la tua mente qui, di fronte a me, a io la tranquillizzerò’. ‘Ma quando cerco la mia mente – fece Hui Ko – non riesco a trovarla. Bodhidharma disse: ‘Allora hai già tranquillizzato la tua mente”16.

Per interrompere l’infinita meditazione di Bodhidharma e attirarne l’attenzione, Hui Ko si amputò un braccio e si erse nella neve innanzi a lui. Leonardo Arena commenta il kung an dicendo che “in quest’occasione Bodhidharma utilizza risposte paradossali, che colpiscono nel segno: se Hui Ko non è riuscito a prendere la mente, ciò significa che non c’è nulla da addomesticare o tranquillizzare[…]. Anche in questo caso Bodhidharma parla dal piano della verità assoluta: se tutto è vuoto dove mai si potrebbe trovare una mente da pacificare?”17.

L’assenza della verità come fondamento ontologico dell’esserci costituisce una visione del mondo nel quale l’uomo stesso è privo di sostanzialità: è tale non-essere-sostanza, tale nientevolezza,  che relativizza il dolore costituente l’umano, estinguendolo una volta svelata la natura illusiva della sua origine.

È utile fin d’ora notare come nell’opera di Anselmo il medesimo aspetto si ripresenterà in forma rovesciata: costituito a partire dal fondamento della verità, l’essere umano trova sostanzialità ontologica e, di qui, evade dal dolore dell’apparire per scomparire: trova rifugio nell’eternità eternizzante di Dio. Nella cultura chan, esattamente al contrario, il principio non essendo un soggetto eterno personale, ma bensì non altro che l’indeterminato neutro del vuoto, verità e principio sono sfalsati: il che significa che è precisamente la propria coscienza, la coscienza di sé come io, ciò che dilegua a partire dalla saggezza: se la mente umana è solo un’illusiva proiezione, ogni dolore è non più che il riflesso di un’ombra.

Su questa dottrina della mente, che risuona nel “non lo so” di Bodhidharma, gli scritti chan insistono vastamente. Basti qui accennare, toccando un tema che meriterebbe uno studio a parte ben più ampio di queste fugaci righe, a due opere: il Hsin-hsin ming (“Iscrizioni per perfezionare la mente”) di Seng Tsan, allievo di Hui Ko e dunque terzo patriarca, e il Liu tsu tan-ching (“Sutra dell’altare del sesto patriarca”), narrante le vicende di Hui-Neng, sesto patriarca nella linea del Chan del Sud18.

Le “Iscrizioni per perfezionare la mente” (trattato scritto forse dal successore di Seng Tsan, Tao-hsin) hanno come nucleo ciò che stiamo sottolineando a partire dalla seconda risposta di Bodhidharma: perfezionare la mente significa evadere dalla rete di attrazione/repulsione in cui ci inibisce il pensiero discriminante. In altre parole: occorre cessare l’attribuzione di significato alle cose in sé, scorgendo l’intima natura non-sensical del reale, principio essendo il vuoto indeterminato. Detto con una metafora usata dall’autore del Hsin-hsin ming: l’uomo è simile a un dormiente che non scorge la natura onirica della sua esperienza. Designificare il reale, togliendovi la sostanzialità che il fondamento ontologico della verità gli attribuirebbe, vuol dire attingere al risveglio (dao), scorgendo la realtà nel suo essere semplicemente priva di senso.

Appare potente, in questo scritto chan, l’influsso della scuola indiana Yogacara, nucleo portante, assieme all’insegnamento di Nagarjuna, del buddhismo Mahayana. Così come abbiamo visto Nagarjuna quale “funzione” nella cultura chan in grado di esplicitare il senso della prima risposta di Bodhidharma all’imperatore, la seconda risposta, il cui spirito lo scritto di Seng-tsan richiama, potrà utilmente essere letta alla luce dei capisaldi della scuola Yogacara19.

È precisamente il Lankavatara Sutra, l’opera che il Chan maggiormente fa propria. Qui compare la teoria dell’ alayaviñana, della mente come una sorta di “contenitore-deposito” che produce illusivamente le cose, generando dolore. È la mente, citta in sanscrito (cin. hsin), che, con la sua sete di attaccamento, conferisce senso al reale, deformandolo in mostro ansiogeno. Il Chan accoglie  questa teoria della mente espressa dal Lankavatara Sutra.

Con Seng-Tsan ci troviamo ancora nel periodo germinale del Chan, e la nascente scuola risente con forza ancora preponderante dell’influsso indiano, tanto che il Hsin-nsin ming si distacca sostanzialmente poco dal Lankavatara Sutra. Occorrerà attendere Hui-Neng per poter scorgere chiaramente la sinizzazione della visione indiana del concetto di citta. L’episodio che narra “l’investitura” di Hui-Neng come sesto patriarca, che leggiamo nel Liu-tsu tan ching20, è assai rivelativo. Hung-jen era in cerca del suo successore. Così chiese di comporre dei versi sul senso del dao a quanti ne fossero in grado. Il suo primo allievo, Shen-hsiu, scrisse una poesia che diceva:

 

Il corpo è l’albero del risveglio,

la mente è come uno specchio lucido;

continuamente ci sforziamo di pulirlo,

evitando che la polvere vi attecchisca.

 

     Ascoltate queste parole, sagge a suo avviso ma non risvegliate, l’analfabeta Hui-Neng pronunciò i seguenti versi:

 

La mente è l’albero del risveglio,

il corpo è lo specchio lucido;

lo specchio è, da sempre, chiaro e puro;

come potrebbe la polvere intaccarlo e attecchirvi?

 

Quale successore fu scelto Hui-Neng. La tradizione chan ci dice che Shen-hsiu arrivò fino all’uscio, ma Hui-Neng varcò la soglia.  Se Shen-hsiu comprende che nulla di ciò che la mente produce ha valore reale, Hui-Neng si spinge oltre, scorgendo come neanche la mente abbia sostanzialità. Dunque, non può esservi alcuna polvere sullo specchio: non vi è nulla da perfezionare, nulla da guarire.

Così Hui-Neng accoglieva l’insegnamento del Lankavatara Sutra, coniugandolo con alcuni messaggi essenziali del Chuang-zi, in primo luogo riguardo il non-attaccamento a un io quale principio di significazione delle cose, le quali, infatti, altro non sono che neutro dato di un processo privo di senso. È la mente che, distinguendo per attrazione/repulsione, attribuisce senso, valore e disvalore alle cose: generando dunque angoscia, dolore.

È, questa concezione, uno dei guadagni peculiari e fondamentali della cultura chan: è la visione cinese della nozione buddhica di anātman (pali anattā). È la concezione che Bodhidharma esprime nel primo kung an del Pi-yen lu dicendo “non lo so”.

 

 

 

In Europa, in epoca Sung, un monaco pensava l’eternità della verità

 

È narrato nel Ching-te chan-teng lu (“Raccolta della trasmissione della lampada21), che Bodhidharma, prendendo commiato dai suoi discepoli,  ne indicasse le rispettive capacità. Paragonato il suo insegnamento al proprio corpo, Bodhidharma prese a dire quale parte ogni discepolo ne avesse ottenuta, e perché: Toa-fu disse di aver compreso come la verità non dipenda dalle parole e dalle scritture, ma non ne sia nemmeno indipendente: il maestro gli disse di aver ottenuto la pelle del corpo. La monaca Tsung-chih ne ottenne la carne, per aver capito che la verità si vede una volta sola. Tao-yu ne ha ottenuto le ossa, avendo compreso che  nulla si può mai cogliere. È tuttavia Hui Ko ad averne raggiunto il midollo: infatti, quando giunse il suo turno, per esprimere quale insegnamento avrebbe tratto con sé dal maestro, il discepolo non dice nulla.

Con la trasmissione da Bodhidharma a Hui Ko ha inizio la storia del Buddhismo chan, uno dei contributi culturali più raffinati e preziosi dell’umanità. Una storia, quella del Chan, che sarebbe durata oltre quattrocento anni, fino in epoca Sung. Ed è in epoca Sung che, in Europa, un monaco altrettanto devoto e altrettanto geniale di quelli chan sta scrivendo le sue riflessioni speculative, segnando una tappa essenziale nella filosofia d’Occidente: Anselmo d’Aosta, la cui opera può essere vista quale fulgido exemplum del valore fondativo del concetto di verità.

Per tentare un affresco decente della complessa posizione anselmiana, può essere utile partire proprio dalla definizione di “verità” che troviamo nel De veritate22. Come nel capitolo 18 del Monologion, la verità è anzitutto definita eterna; vere, tuttavia, sono anche le cose create. Il punto fondamentale consiste nel palesare come solo apparente il paradosso ora enunciato per cui la verità eterna si predica del transeunte. Tale paradosso si scioglie in quanto il fondamento ultimo delle cose – la loro sostanzialità ontologica, per così dire –  è Dio stesso, l’eterno. La verità è la modalità delle cose di corrispondere al proprio fondamento ontologico che è Dio.

Anzitutto, nel De veritate, si chiarisce che la verità è un carattere non intrinseco dell’enunciazione, del pensiero. Quest’ultimo è vero quando ciò che è affermato è e quando ciò che è negato non è. Dunque la verità non è un predicato necessario del pensiero,  in quanto è ben distinta dalla significazione: se ogni enunciazione è tale in quanto dotata di significato, essa può tuttavia affermare ciò che non è o negare ciò che è, divenendo falsa. La verità del pensiero è determinata dalla sua rectitudo, dice Anselmo, ossia dalla sua rispondenza a un dover-essere consistente nel come stanno le cose. Quando il pensiero umano corrisponde a come stanno le cose è nella verità. Ma come stanno le cose? Le cose stanno nel modo della illimitata volontà divina, sua intentio, perciò è essa ciò cui il pensiero in ultima analisi corrisponde, trovandosi nel vero. Di qui il carattere eterno della verità predicabile delle cose create.

È bene a questo punto precisare, come ha cura di precisare l’Abate stesso nel De veritate, che egli non ritiene che le cose siano nel pensiero identicamente che in se stesse. Se in se stesse sono infatti per il loro essere, il pensiero umano non è che similitudine di esse. Similmente, le cose in se stesse sono differenti, a loro volta, rispetto al loro essere nel Verbo, nell’intelligenza divina: le cose create sono solo similitudine del vero essere.

Dunque la conoscenza umana ripercorre, in senso inverso, il cammino dell’essere: dall’attività della mente alle cose e, da queste, al significato-fondamento ultimo del Verbo divino. La direzione di tale cammino è segnata dalla verità: ossia dalla rectitudo rispetto al come stanno le cose: le cose stanno come similitudine di Dio. Egli è “ la via, la verità, la vita” in questo preciso senso.

Vediamo qui pienamente la concezione essenzialmente sacrale che la tradizione monastica occidentale attribuisce alla parola: pensare rettamente le cose è il modo umano di ripercorrere, attraverso la conoscenza (per  veritatem), il processo creativo del Verbo. Perciò, diremo, essere nel vero vuol dire approssimarsi a Dio.

Agisce qui potentemente, così come negli scritti chan le concezioni dello Yogacara espresse nel Lankavatara Sutra e le dottrine di Nagarjuna, la teoria della conoscenza agostiniana. Osserveremo fra breve come questi due differenti retroterra gnoseologici sottintendano due opposte visoni del mondo.

Ora si sottolinei la profonda analogia espressa da Anselmo tra il dare l’essere alle cose da parte di Dio (il creare) e il dare l’essere alle proposizioni da pare dell’uomo (il pensare). Nel loro esistere, ritiene Anselmo tenendo ben ferma la lezione di Agostino, le cose sono rette in quanto rispondono all’intenzione divina: sono vere in quanto a esse conferisce significato, per così dire, Dio.

Il male, secondo l’ispirazione agostiniana, non ha realtà in sé, dunque nulla può esistere di falso. Garantito in questo modo il rimando alla verità da parte delle cose esistenti, si comprende il perché Anselmo ritenga l’adeguazione del pensiero alla realtà delle cose un dovere metafisico-morale: conformarsi alle cose, essere nel vero, vuol dire essere nella suprema verità del Verbo; è dunque quest’ultimo il fondamento del pensiero, della comunicazione e dell’essere umani.

La gnoseologia anselmiana non è intelligibile se non con il rimando alla teoria agostiniana dell’analogia tra anima umana e Dio. Pensare le cose rettamente vuol dire connettersi all’intentio creatrice divina: laddove Dio ha creato, infatti, l’uomo pensa. Nel dover-essere della rectitudo conformantesi allo status delle cose, Dio è, in quanto verità, il fondamento dell’essere-umano.

 

 

 

La “verità” come cuore della filosofia di Anselmo e della filosofia europea

 

Senza la teoria della verità, risulta fragile la stessa idea fondamentale della filosofia anselmiana, espressa nel Proslogion. Un’analisi fosse anche vagamente esauriente dell’ “argomento” anselmiano esorbiterebbe dai confini di questo breve studio. Qui vorrei solo sottolineare l’importanza e il senso dell’identificazione fra Dio e verità all’interno dell’opera dell’Abate di Bec, al fine di scorgerne la profonda differenza rispetto agli scritti chan.

Si ripensi al celeberrimo argomento anselmiano, divenuto un terreno di speculazione frequentato dai più grandi pensatori occidentali nel corso dei secoli: Dio è l’essere del quale non può pensarsi nulla di più grande, quo maius cogitari non potest. Lo stolto del salmo afferma “Dio non c’è”, persuaso che l’essere del quale non si può pensare il maggiore sia solo nell’intelletto. Anselmo risponde allo stolto affermando che tutto ciò che esiste può essere di due specie: esistente solo nell’intelletto, o esistente anche nella realtà. Ma se si ammette, come ammette lo stolto pronunciando (per negarlo) il nome di Dio, che nell’intelletto vi sia l’idea di un essere di cui nessun altro può pensarsi maggiore, negandone la realtà de facto ne nega lo statuto di essere di cui nessun altro può pensarsi maggiore: giacché di quell’essere, presente nell’intelletto ma negato nella realtà cui lo stolto pensa, può esisterne uno più grande: quello che, oltre ad esistere nell’intelletto, esiste anche nella realtà. Quello dello stolto, dunque, è un pensiero sine rectitudo: è falso, è flatus vocis.

Nel rispondere all’obiezione di Gaunilone, nonché in numerosi passi dello stesso Proslogion, Anselmo insisterà fortemente sul punto più delicato della sua argomentazione: il passaggio dalla realtà mentale a quella extramentale. La giustificazione di tale passaggio fondante accoglie come pacifici due punti problematici, su cui la storia della filosofia occidentale rifletterà per vasta eco: 1) l’idea che l’esistenza reale rappresenti una perfezione maggiore della semplice esistenza mentale; 2) il rapporto necessario che esiste fra formazione del concetto, parola e significato. Ora, queste problematiche che il Proslogion parrebbe lasciare così aperte possono chiarificarsi alla luce della dottrina anselmiana della verità.

È significativo che il De veritate costituisca, nel disegno anselmiano, la prima parte di una trilogia costituita inoltre dal De libertate arbitri e dal De casu diaboli. I livelli metafisico, morale e gnoseologico in Anselmo sono tutt’uno. Per cui l’insipiens non è un uomo di Dio non semplicemente perché, diremo, non pensa correttamente le parole che pronuncia, privando l’enunciaizone della rectitudo che la distingua dal flatus vocis. Lo stolto non comprende che ciò di cui non può pensarsi il maggiore non può essere nel solo intelletto e non nella realtà, in quanto non scorge come l’essenza di Dio ne implichi l’esistenza (sarà questo il punto fondamentale che Anselmo opporrà all’obbiezione dell’ “isola” di Gaunilone). “Maius”, per Anselmo, non ha valore quantitativo-estensivo: fa bensì cenno alla “perfezione”, ossia alla mancanza di accidentalità, di potenzialità, di Dio: l’essere, di cui nulla può pensarsi maggiore, è l’essere di cui non può pensarsene uno con meno accidentalità. La potenzialità del non-essere, costituendo un accidente, non è dunque predicabile dell’essere massimamente perfetto.

Vediamo come l’emendazione del pensiero dell’insipiens in direzione di un’adeguazione concettuale che rettifichi il pensare abbia il valore, per Anselmo d’Aosta, di rapportarsi al principio del reale, il quale è perciò verità assoluta concepibile. Detto altrimenti: tanto maggiore e perfetta sarà l’attività intellettiva, tanto più l’uomo si fa prossimo a Dio. È, questo, un punto nel quale è cristallinamente visibile la distanza frontale dagli scritti chan, che fra breve prenderemo in esame.

Il secondo nodo problematico dell’argomento anselmiano da noi sopra richiamato, ossia il rapporto necessario esistente fra formazione del concetto, parola e significato, può anch’esso essere chiarificato alla luce della dottrina anselmiana de veritate.  Precisamente: poiché Anselmo di Bec ritiene che il concetto dipenda dalla verità, e non viceversa, formare un corretto concetto vuol dire rispondere alla verità, in quanto la parola umana è non altro che il segno di un’attività (il pensiero) il cui dover-essere è un corrispondere (rectitudo) alle cose quali Dio, verità ultima, le ha create nella sua intentio.

Spingendoci più profondamente nell’analisi, diremo che, per Anselmo, il principio del mondo è determinato, e dunque a esso può conformarsi l’attività intellettiva. Anselmo parte da un’alternativa: che Dio sia o non sia. Negli scritti chan, al contrario, il principio è e non è: è indeterminata forza neutra che struttura il mondo senza alcuna intentio: senza alcun significato.  Poiché, per l’Abate, il principio si dà come determinato: esso è ciò che è, e non può non essere: l’attività intellettiva umana, strutturata attraverso il principio di non contraddizione, può corrispondere a Dio.

È in questo senso che potremmo vedere il sistema di Anselmo come una sorta di teologia negativa mancata: pur posto l’assoluto quale massimo assoluto privo di accidentalità, esso è, tuttavia, ciò che è, e non è ciò che non è. Per questo motivo l’attività intellettiva individuale – ossia il rimando alla verità – diviene fondante: non vi è nessun annegamento della mente nel silenzio infinito.

Su questo punto, se Bodhidharma, nel crepuscolo del chan, avesse proseguito fantasticamente il suo cammino fino a giungere a incontrare Anselmo d’Aosta, il monaco dagli azzurri e l’Abate di Bec non si sarebbero compresi.

 

 

 

Con o senza verità: l’alternativa comparativa fondante

 

Anselmo, ripetiamolo, prende le mosse da un’alternativa: che il principio sia o non sia. Nel Chan, conformemente alla visione taoista, il principio è invece ciò in cui i contrari non sono contradditori, ciò che, contemporaneamente, è e non è.  Si evince qui con forza perché, nel pensiero chan, il concetto di verità non può essere fondante.

In primo luogo, l’attività umana del comprendere e il principio risultano sfalsati, qualora il principio sia intuito come indeterminato.

Secondariamente, se per l’Abate di Bec le cose sono vere in quanto rispondono all’intentio creatrice divina (per cui la rectitudo del pensiero vuol dire la connessione metafisico-morale dell’uomo a Dio), nel Chan, invece, la realtà è un dato privo, in sé, di senso: neutro processo cui l’uomo conferisce significato con modalità di tipo onirico e ansiogeno: per cui, esattamente all’opposto che nella visione dell’Abate, fissare il pensiero su di una realtà sostanziale delle cose vuol dire volgere le spalle al dao, non attingere al risveglio, rimanendo impantanati nella rete illusiva della mente conferente sostanza alle cose, mentre invece principio è il vuoto.

In terzo luogo, mentre Anselmo ritiene che il principio abbia caratteristiche personali, per cui le cose che Dio crea posseggono bontà in sé, il chan vede l’assoluta neutralità delle cose nel loro sorgere processualmente: buono e cattivo sono manifestazioni dell’attaccamento onirico umano alla vita, da cui si genera il dolore: per cui se per Anselmo Dio è salvezza in quanto conferisce senso all’esserci umano e alle cose, il risveglio consiste invece nell’intuizione del principio designificante ogni cosa, conferente vuotezza e liberatorio non-senso alla vita umana.

Quarto: se l’Abate, come scrive Vanni Rovighi, “ha cercato di dimostrare che qualcosa di esistente è quello che l’umanità intende quando pronuncia il nome di Dio”, e perciò ha senso l’essere al mondo,  gli scritti chan sostengono la sostanziale inesistenza di alcunché, a partire dalla visione del principio quale vuotezza.

Infine, un ruolo essenziale è giocato dal concetto di individualità e dalla nozione di persona.  La verità come fondamento, ossia la validità euristica dell’attività intellettiva individuale nella sua funzione trascendentiva, pone il concetto di persona come dato irrinunciabile per il rapporto umano con Dio. La nozione agostiniana della “confessione”, del viaggio nell’interiorità personale quale modalità di incontro con il divino, quella che mi piace definire  una “enteronausi della salvezza”, rivela qui un suo aspetto fondamentale: la nozione di io è necessaria nell’incontro con Dio.  Quest’ultimo è un principio personale, cui deve corrispondere un io individu