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Il drago babilonese del Libro di Daniele è soltanto un racconto simbolico?

di Francesco Lamendola - 12/03/2009


Erodoto, il «padre della storia», narra (III, 55, 58) che nell'antica Babilonia esistevano le porte Cissie e le porte Belidi, attraverso le quali i Persiani di Dario furono fatti entrare nel 519 a. C., con il tradimento. Era la seconda e definitiva caduta della città: la prima  aveva avuto luogo nel 538, per opera di Ciro il Grande, e aveva visto la fine dell'impero neobabilonese.
Erodoto narra anche come una parte degli abitanti della capitale, quando si resero conto di essere stati traditi, avevano cercato scampo abbandonando la difesa delle mura e rifugiandosi nel santuario di Zeus Belo.
Le porte Belidi, e il santuario di Belo, rinviano il lettore al culto del dio Marduk, protettore di Babilonia e custode delle porte della città. Ai suoi piedi era raffigurato il mitico dragone Mus-Hus, che compare anche nel biblico Libro di Daniele. In quel testo, il drago è chiamato Bel ed è esso stesso equiparato a un dio, un dio che veniva adorato da una apposita classe sacerdotale; Bel era anche il nome dell'idolo che lo raffigurava.
Sappiamo inoltre che i re assiri, come Assurbanipal, si consultavano, prima di prendere le decisioni più importanti,  con i loro consiglieri divini, vale a dire  gli dei Bel (o Marduk) e Nabu. Su un sigillo cilindrico, esposto al Louvre di Parigi, rappresenta il dio Nabu vicino a Marduk. (cfr. Erich von Däniken, «Il giorno del giudizio è già cominciato»; titolo originale: «Der jüngste Tag hat längst begonnen», 1995; traduzione italiana Milano, Corbaccio, 1998, p.131).

Bel, dunque, non è altro che uno dei nomi con i quali era noto Marduk, patrono divino di Babilonia, conosciuto con quel nome dagli autori biblici, tra i quali l'autore della seconda parte del Libro di Isaia, ove si legge (46, 1-2):

«A terra è Bel,
rovesciato è Nebo;
i loro idoli sono per gli animali e le bestie,
caricato come loro fardelli,
come peso sfibrante.
Sono rovesciati, sono a terra insieme,
non hanno potuto
salvare chi li portava
ed essi stessi se ne vanno in schiavitù.»

Il medesimo concetto è espresso anche dall'autore del Libro di Geremia, che, fra l'altro, esplicita l'equivalenza fra Bel e Marduk (50, 2):

«Proclamate fra i popoli e fatelo sapere,
non nascondetelo, dite:
Babilonia è presa,
Bel è coperto di confusione,
è infranto Marduch;
sono confusi i suoi idoli,
sono sgomenti i suoi feticci.»

E ancora, sempre nel medesimo libro, risuona la maledizione di JHWH contro il dio babilonese che, essendo una delle principali divinità del pantheon di quel Paese, sembra assommare in sé tutto ciò che gli esuli ebrei maggiormente detestano in campo religioso: il politeismo, il teriomorfismo e l'idolatria (51, 44):

«Io punirò Bel in Babilonia,
gli estrarrò dalla gola quanto ha inghiottito.
Non andranno più a lui le nazioni.»

In realtà, il racconto biblico è contenuto in un duplice racconto che forma una aggiunta al Libro di Daniele (il capitolo quattordicesimo), composta in greco verso la metà del II secolo a. C. da un anonimo autore ebreo, forse sulla base di un prototesto ebraico il quale, però - se pure esisteva - è andato ormai perduto.
Rispetto alla versione ebraica del testo masoretico, rappresenta una aggiunta della versione dei Settanta, conservata poi nella Vulgata e nella tradizione cattolica. Il racconto, infatti, benché tardivo, è considerato tuttora canonico sia dalla Chiesa cattolica, sia da quella ortodossa; mentre non è accettato dalle Chiese protestanti, per le quali esso costituisce un testo apocrifo.
Come dicevamo, si tratta, in effetti, di due racconti distinti: nel primo (14, 1-22) Daniele dimostra al re Dario la falsità del culto tributato all'idolo Bel; nel secondo (14, 23-42), autonomo rispetto al precedente, Daniele provoca la morte del drago che era venerato come un dio, azione per la quale viene fatto gettare nella fossa dei leoni - una replica del più famoso racconto del capitolo sesto -, ma viene poi liberato e ne esce illeso, grazie alla protezione divina, dopo una intera settimana. Segue l'immancabile punizione dei suoi accusatori.
Ora, per avere tutti gli elementi necessari a svolgere una riflessione sul significato del racconto biblico, riteniamo sia cosa utile riproporne il testo integrale, secondo la traduzione della «Bibbia di Gerusalemme».

PRIMO RACCONTO.
«Il re Astiage si riunì ai suoi padri e gli succedete nel regno Ciro il Persiano. Ora Daniele viveva accanto al re, ed era il più onorato di tutti gli amici del re. I Babilonesi avevano un idolo chiamato Bel, al quale offrivano ogni giorno dodici sacchi di fior di farina, quaranta pecore e sei barili di vino.. Anche il re venerava questo idolo e andava ogni giorno ad adorarlo. Daniele però adorava il suo Dio e perciò il re gli disse: "Perché non adori bel?. "Daniele gli rispose: "Io non adoro idoli fatti da mani d'uomo., ma soltanto il Duo vivo che ha fatto il cielo e la terra  e che è signore di ogni essere vivente." "Non credi tu - aggiunse il re - che Bel sia un dio vivo? Non vedi quanto beve e mangia ogni giorno?" Rispose Daniele ridendo: "Non t'ingannare, o re: quell'idolo di dentro è d'argilla e di fuori è di bronzo e non ha mai mangiato né bevuto". Il re s'indignò e convocati i sacerdoti di Bel, disse loro: "Se voi non mi dite chi è che mangia tutto questo cibo, morirete; se invece mi proverete che è bel che lo mangia, morirà Daniele, perché ha insultato Bel". Daniele disse al re: "Sia fatto come tu hai detto". I sacerdoti di bel erano settanta, senza contare le mogli e i figli. Il re si recò insieme con Daniele al tempio di Bel e i sacerdoti di bel gli dissero: "Ecco, noi usciamo di qui e tu, o re, disponi le vivande e mesci il vino temperato; poi chiudi la porta e sigillala con il tuo anello. Se domani mattina, venendo, tu riscontrerai  che tutto non è stato mangiato da Bel, moriremo noi, altrimenti morirà Daniele che ci ha calunniati." Essi però non se ne preoccuparono perché avevano praticato un passaggio segreto sotto la tavola per il quale passavano abitualmente e consumavano tutto.
Dopo che essi se ne furono andati, il re fece porre i cibi davanti a Bel: Daniele ordinò ai servi del re di portare un po' di cenere e la sparsero su tutto il pavimento del tempio alla presenza soltanto del re; e se ne andarono. I sacerdoti vennero di notte, secondo il loro consueto, con le mogli, i figli, e mangiarono e bevvero tutto. Di buon mattino il re si alzò, come anche Daniele. Il re domando: "Sono intatti i sigilli, Daniele?" "Intatti, o re", rispose. Aperta la porta, il re guardò la tavola ed esclamò: "Tu sei grande, Bel, e nessun inganno è in te!". Daniele sorrise e, trattenendo il re perché non entrasse, disse: "Guarda il pavimento ed esamina di chi sono quelle orme." Il re disse: "Vedo orme d'uomini, di donne e di ragazzi!" Acceso d'ira, fece arrestare i sacerdoti con le mogli e i figli; gli furono mostrate le porte segrete per le quali entravano a consumare quanto si trovava sulla tavola. Quindi il re li fece mettere a morte, consegnò Bel in potere di Daniele, che lo distrusse insieme con il tempio.

SECONDO RACCONTO.
Vi era un gran drago e i babilonesi lo veneravano. Il re disse a Daniele: "Non potrai dire che questo non è un duo vivente; adoralo, dunque." Daniele rispose: "Io adoro il Signore mio Dio, perché egli è il Dio vivente; se tu me lo permetti, o re, io, senza spada e senza bastone, ucciderò il drago." Soggiunse il re: "Te lo permetto." Daniele prese allora pece, grasso e peli e li fece cuocere insieme, poi ne preparò focacce e le gettò in bocca al drago che le inghiottì e scoppiò; quindi soggiunse: "Ecco che cosa adoravate!".
Quando i babilonesi lo seppero, ne furono molto indignati e insorsero contro il re, dicendo: "Il re è divenuto Giudeo: ha distrutto bel, ha ucciso il drago, ha messo a morte i sacerdoti." Andarono da lui dicendo: "Consegnaci Daniele, altrimenti uccideremo te e la tua famiglia!". Quando il re vide che lo assalivano con violenza, costretto dalla necessità consegnò loro Daniele.
Ed essi lo gettarono nella fossa dei leoni, dove rimase sei giorni. Nella fossa vi erano sette leoni, ai quali venivano dati ogni giorno due cadaveri e due pecore: ma quella volta non fu dato loro niente perché divorassero Daniele.
Si trovava allora in Giudea il profeta Abacuc il quale aveva fatto una minestra e spezzettato il pane in un recipiente e andava a portarlo nel campo ai mietitori. L'angelo del Signore gli disse: "Porta questo cibo a Daniele in babilonia nella fossa dei leoni": Ma Abacuc rispose: "Signore, Babilonia non l'ho mai vista e la fossa non la conosco". Allora l'angelo lo prese per i capelli e con la velocità del vento lo trasportò in babilonia e lo posò sull'orlo della fossa dei leoni.  Gridò Abacuc: "Daniele, Daniele, prendi il cibo che Dio ti ha mandato." Daniele esclamò: "Dio, ti sei ricordato di me e non hai abbandonato coloro che ti amano." Alzatosi, Daniele si mise a mangiare, mentre l'angelo di Dio riportava subito Abacuc nel luogo di prima.
Il settimo giorno il re andò per piangere Daniele e giunto alla fossa guardò e vide Daniele seduto. Allora esclamò ad alta voce: "Grande tu sei, Signore Dio di Daniele, e non c'è altro dio all'infuori di te!". Poi fece uscire Daniele dalla fossa e vi fece gettare coloro che volevano la sua rovina ed essi furono subito divorati sotto i suoi occhi.»

La prima impressione è che si tratti, semplicemente, di una «fabula», di un racconto mitico concepito a fini didattici ed edificanti.
Si vuol mostrare l'efficacia della fede nel Dio unico degli Ebrei e l'impotenza degli dei pagani, rappresentati da Bel, a proteggere il proprio culto ed i propri sacerdoti; episodi analoghi si trovano anche in altri luoghi dell'Antico Testamento, ad esempio nella drammatica sfida tra il profeta Elia ed i profeti di Baal, che ebbe luogo sul Monte Carmelo ed è narrata nel Primo Libro delle Cronache, capitolo 18, versetti 20-40.
Anche il fatto che non si sia a conoscenza di un culto, nell'antica Babilonia, relativo a un serpente divinizzato, tenderebbe ad avvalorare l'interpretazione del racconto del capitolo quattordici di Daniele in chiave prettamente simbolica.
Senonché, una lettura più attenta tende a far sorgere dei dubbi su questa interpretazione, che è poi quella tradizionalmente accettata da tutti i commentatori.
Se si tratta solamente di una favola, di un apologo morale ed edificante, non sarebbe stato sufficiente il primo racconto del capitolo quattordicesimo?
Inoltre, nel secondo racconto, compaiono particolari di tipo realistico, come quella focaccia confezionata con grasso, peli e pece: i primi due ingredienti per simulare un cibo simile a quello che veniva fornito abitualmente al drago, ossia cadaveri di uomini o animali; il terzo, per provocare la morte della fiera.
Anche la sommossa degli abitanti di Babilonia contro il re, per vendicare l'uccisione del drago,  sembra riflettere un episodio reale; benché, poi, venga introdotto il profeta Abacuc in maniera piuttosto incongrua.
Il volo di quest'ultimo dalla Giudea a Babilonia ricorda un episodio del Libro di Tobia, e precisamente il volo dell'angelo Raffaele da Rages di Media, ove si trova la casa di Sara, fino all'Alto Egitto, ove egli incatena il demone Asmodeo.
Infine, l'episodio della fossa dei leoni è ripreso pari pari dal capitolo sesto dello stesso Libro di Daniele, compresa la raccapricciante punizione di coloro che avevano tramato contro la vita del profeta ebreo.
Il racconto del drago, o serpente, soffocato dal cibo preparatogli da Daniele, è noto anche ad antichi autori ebrei, che lo riferiscono commentando il passo già citato del Libro di Geremia.
Viene dunque spontaneo domandarsi se il racconto del drago Bel si debba considerare in tutto e per tutto una invenzione dell'aggiunta al Libro di Daniele e, al massimo, un abbellimento e un ampliamento della iconografia tradizionale babilonese, la quale era solita raffigurare - come si è detto - il mitico dragone Mus-Hus accucciato ai piedi del dio Bel; per cui si sarebbe creata una sovrapposizione tra la figura del dio e quella del suo animale-simbolo.
Ci si domanda: questo racconto non potrebbe contenere qualche elemento di verità? Non è possibile che, in un locale o in una caverna o sotterraneo adiacente ad un tempio di Bel-Marduk, i sacerdoti di quest'ultimo allevassero realmente un animale mostruoso, presentandolo come una divinità o come l'emanazione di una divinità?
Se è così, doveva trattarsi di un animale assolutamente eccezionale, sia per la mole, sia per le caratteristiche fisiche; un animale diverso da tutti quelli allora conosciuti, come potrebbe esserlo il rappresentante di una specie altrimenti scomparsa.
Si deve ritenere possibile una cosa del genere, oppure bisogna confinarla senz'altro nel regno della pura immaginazione?
Che qualche raro esemplare di animali ritenuti estinti sia sopravvissuto ai propri congeneri, e, magari, sia stato addomesticato o, comunque, catturato e «allevato» dall'uomo, non è cosa di per sé impossibile.
Sappiamo, ad esempio, che il Milodonte dell'America Meridionale sopravvisse fino in epoca storica e che, quasi certamente, gli indigeni erano riusciti ad allevarlo o a imprigionarlo in alcune caverne alle pendici delle Ande, come è testimoniato inequivocabilmente da reperti fossili (cfr. il nostro precedente articolo «Il Milodonte della Patagonia e il mistero della sua scomparsa», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice.
In quel caso, però, parliamo di un mammifero gigante che visse, con certezza, almeno fino a qualche migliaio di anni fa. Ma il drago di cui parla il Libro di Daniele rimanda per forza a un animale di tipo sauriano, a un rettile di grandi dimensioni: forse un serpente, forse un varano gigante o qualche cosa di simile.
Ora, il Varano di Komodo è un rettile gigantesco che vive ancor oggi nelle Piccole Isole della Sonda (Indonesia) e, con i suoi tre metri e mezzo di lunghezza, si ciba abitualmente anche di grossa selvaggina, come i cervi; naturalmente, può essere pericoloso anche per l'uomo.
Se, poi, parliamo di serpenti, sappiamo che l'Anaconda dell'America tropicale può avvicinarsi ai dieci metri di lunghezza, mentre alcuni viaggiatori (come il famoso colonnello Fawcett) sostengono di averne avvistati degli esemplari moto più imponenti, lunghi fino a 18 metri; la stessa cosa affermano alcuni esploratori dell'Africa centrale.
Non solo.
Le fonti antiche, greche e romane, ci tramandano il racconto di serpenti giganteschi in epoca storica, come quel mostro che, insediato presso le rive del fiume Bagradha (nella odierna Tunisia), menava strage fra i legionari di Attilio Regolo, durante la prima guerra punica; e che solo con l'intervento di una catapulta poté essere, alfine, ucciso.
Non ci soffermiamo ora su quell'episodio, circa il quale siamo relativamente ben documentati, grazie agli autori classici (Aulo Gellio, Paolo Orosio), perché ne abbiamo parlato dettagliatamente nel nostro saggio «Mostri, fantasmi, vampiri nel mondo antico» (pubblicato negli «Atti» della Società Dante Alighieri di Treviso, vol. 4, 2006, e consultabile anche sul sito di Arianna Editrice; mentre il nostro articolo «Gli  enigmi  della  criptozoologia: il  serpente  gigantesco  del fiume  Bagradha», è consultabile sul sito di Edicolaweb).
Non potrebbe darsi che i sacerdoti di Bel-Marduk adorassero realmente un rettile gigantesco, presentandolo come una personificazione del loro dio?
Se un'ipotesi del genere può sembrare fantastica, sla si confronti con la tavoletta dei cosmetici del re Narmer, conservata presso il Museo Egizio del Cairo. Vi si possono vedere raffigurati  due omini che tengono al laccio due creature gigantesche dal corpo simile a quello di una pantera, ma dai colli lunghissimi, come quelli dei dinosauri acquatici; l'impressione d'assieme è proprio quella che si tratti di due draghi.
Ci sono poi le cosiddette pietre di Ica, rinvenute in una località peruviana, raffiguranti, tra le altre cose, uomini e dinosauri come se fossero stati contemporanei; e, sebbene l'autenticità di tali manufatti sia da quasi tutti gli studiosi revocata in dubbio, bisognerebbe in realtà sospendere il giudizio almeno per una parte di essi, dato che non è stato ancora possibile spiegare come sarebbe stato possibile incidere le pietre e contraffarne l'antichità in maniera così efficace.
Meglio evitare, quindi, di pronunciare dei «no» troppo categorici i quali, un domani - alla luce di nuove acquisizioni scientifiche - potrebbero mettere seriamente in imbarazzo gli odierni custodi di una ortodossia storiografica preconcetta e un tantino ottusa.