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Nel conflitto tra diversi codici etici i primi a rimetterci sono gli individui più esposti

di Francesco Lamendola - 17/03/2009

 


L'altro giorno una signora a noi cara ha vissuto una brutta avventura.
All'uscita dalla bottega, ella (che ha ottantadue anni) è stata avvicinata da un individuo sorridente che le ha fatto grandi feste, si è detto lieto di rivederla dopo tanto tempo, la ha assicurata che, pur con il passare del tempo, lei è rimasta sempre uguale.
Lei gli ha risposto, timida e imbarazzata, che non lo conosceva; ma quello ha mostrato di conoscere benissimo le cose della sua famiglia, le ha nominato il figlio e ha affermato di essere un amico di lui. Anzi, ha aggiunto - mostrando un pacchetto che teneva in mano - proprio quel figlio aveva appena effettuato un acquisto, che doveva finir di pagare; e lo aveva indirizzato da lei, per ottenere il versamento della somma residua.
La signora ha replicato che, in tal caso, potevano andare insieme dal figlio, al suo posto di lavoro; ma l'uomo ha risposto che si era trattato di una transazione riservata e che non era opportuno andare da lui, facendosi vedere dai suoi colleghi, per una questione di «privacy». Meglio risolvere la cosa tra loro: l'uomo aveva l'automobile parcheggiata lì accanto, poteva accompagnarla a casa sua e farsi consegnare il denaro, dopo di che le avrebbe rilasciato una ricevuta.
E così è stato. La signora si è fatta accompagnare a casa propria e ha versato allo sconosciuto una somma di alcune migliaia di euro: i risparmi della pensione. Poi ha atteso invano il ritorno dell'uomo, che era uscito dicendo di aver dimenticato la ricevuta in macchina. In mano le è rimasto un pacchetto senza valore.
Questo, il fatto.
Soltanto sul giornale di ieri, erano riportati altri due casi quasi identici; e un quarto è accaduto a pochi metri da casa nostra, con modalità simili. Un finto inviato dell'istituto per le case popolari si è presentato in un appartamento per un sopralluogo alle macchie di umidità, poi ha chiesto a una anziana pensionata cinquanta euro per fare la necessaria domanda di intervento per i lavori di  restauro; e infine, con destrezza, è riuscito a far scomparire un somma ben maggiore dal portafoglio della donna.
In uno dei due casi riportati dalla stampa, due individui - un uomo e una donna - hanno atteso che la figlia di un anziano si recasse al lavoro, poi si sono presentati, cordiali e sorridenti, al genitore di lei e, a nome dei colleghi della figlia stessa, hanno affermato di voler consegnare un regalo di trecento euro; avevano però solo una banconota da cinquecento, per cui chiedevano la consegna del resto. Inutile aggiungere che hanno approfittato del maneggio del denaro per ripulire tutti i risparmi dell'anziano.
Non crediamo che qualcuno vorrà accusarci di razzismo se affermiamo che, se è vero che la disonestà è presente in tutte le culture umane, perché fa parte del mistero stesso della natura umana, nondimeno vi sono culture presso le quali i parametri etici sono profondamente diversi dai nostri, e presso le quali imbrogliare il prossimo, approfittando specialmente delle persone più fiduciose e indifese (come gli anziani e i bambini) non è considerato particolarmente disdicevole; anzi, è perfettamente lecito e naturale. E sappiamo tutti molto bene a quali culture ci stiamo riferendo, con buona pace degli antirazzisti i quali ci vedono con un occhio solo.
Non vogliamo affatto sostenere che, nella nostra cultura, la disonestà non esista. Vogliamo dire che la sua evoluzione storica ci ha portati ad elaborare alcuni principi etici fondamentali, che possono - ovviamente - essere violati, ma sui quali siamo tutti d'accordo. Siamo d'accordo, vogliamo dire, sul fatto che certe azioni siano da ritenersi buone, ed altre cattive;  anche se poi, magari, la pratica si differenzia molto dalla teoria.
Nella nostra cultura, ingannare deliberatamente il prossimo è considerata una cosa molto brutta, perché noi siamo giunti alla convinzione che la fiducia è l'elemento base della convivenza umana e che, se nessuno potesse più fidarsi di nessuno, la società di disintegrerebbe. Non siamo più bravi di altri, perché siamo arrivati a capire questo: ci abbiamo messo migliaia di anni; la religione, la politica, la cultura, attraverso un lunghissimo processo di gestazione, e non senza cadute e passi indietro, ci hanno condotti ad un tale risultato.
Non solo.
Nella nostra cultura, ingannare deliberatamente una persona che si fida, è ritenuto molto più grave che non ingannare qualcuno che sta in guardia (vedi il trattamento dei dannati nell'ultimo cerchio dell'Inferno dantesco); e, inoltre, ingannare una persona debole e indifesa, è ritenuto molto più grave che ingannare una persona forte e sana.
In altre culture, per tutta una serie di vicende storiche che hanno, certamente, le loro ragioni, questi principi etici non sono stati acquisiti o, al contrario, ne sono stati elaborati degli altri, totalmente differenti. In altre culture, rapire un bambino per farne uno schiavetto che procura il denaro  chiedendo l'elemosina, o truffare un anziano, rubandogli tutti i suoi risparmi, non sono considerate azioni disdicevoli, ma, semmai, astute.
Ricordiamo che presso gli antichi Spartiati mentire, rubare e perfino uccidere (beninteso, un Ilota e non un altro Spartiato) non erano considerate azioni cattive; lo divenivano solo nel caso che ci si fosse fatti scoprire. Allora, la punizione era inevitabile: ma non perché quelle azioni fossero giudicate malvagie, bensì per la mancanza di abilità dimostrata nel commetterle.
Ed ecco il punto.
L'aver spalancato le porte dell'Italia, si può dire da un giorno all'altro, a un flusso migratorio di milioni di individui provenienti dalle culture più disparate, ha creato una serie di situazioni insostenibili, non solo dal punto di vista economico e culturale, ma anche dal punto di vista sociale, per ragioni che nulla hanno a che fare con il preteso razzismo della nostra gente, ma molto, invece, con il divario abissale di valori etici che esiste fra alcune di quelle culture  e la nostra.
Attenzione: non stiamo sostenendo che alcune culture sono «cattive», mentre la nostra sarebbe l'unica veramente «buona»; non è così semplice. Il problema è che i valori etici di culture diverse sono, né più né meno, incommensurabili.
Un missionario cattolico francese, André Dupeyrat (autore di un bellissimo libro di ricordi, «Nel Paese degli uccelli paradiso», da noi citato più volte in precedenti lavori), non finiva mai di stupirsi di come quegli stessi indigeni della Nuova Guinea che egli aveva visto, con i propri occhi,  uccidersi e divorarsi gli uni gli altri, non risparmiando nemmeno i bambini piccoli, fossero capaci, in altre circostanze, di mostrarsi leali, sensibili, affettuosi, disinteressati, insomma capaci di elevati sentimenti. Quando egli partì da una tribù di antropofagi, presso i quali si era trattenuto per molto tempo, il capo di essa, un temibile guerriero che aveva compiuto innumerevoli uccisioni e consumato chissà quanti banchetti a base di carne umana, lo abbracciò con le lacrime agli occhi, ripetendo come una triste melodia: «Mitsinari, ritorna…».
Che cosa ci proponiamo di dimostrare, citando questo episodio? Semplicemente questo: che noi non siamo in grado di comprendere, fino in fondo, né il mistero del cuore umano, né quello del diverso grado di evoluzione delle culture umane, di cui il sistema dei valori etici è parte rilevantissima. E, non essendo in grado di capire, dovremmo essere anche molto cauti nel giudicare.
Da ciò, tuttavia, non discende che delle culture, le quali hanno elaborato diversi sistemi etici, possano convivere fra loro tranquillamente, dall'oggi al domani, come se in ciò non vi fosse alcun pericolo. Al contrario, è cosa certissima che, in una situazione del genere, si creerà un conflitto, nel quale gli individui più deboli fisicamente e più esposti moralmente, perché appartenenti alla cultura più mite (almeno, lo ripetiamo, al livello dei valori comunemente accettati) saranno i primi a fare le spese.
Non si possono far convivere, di colpo, culture profondamente diverse, portatrici di sistemi di valori diversi, e illudersi che tutto filerà liscio, sulla base del rispetto delle regole: perché quelle regole non sono riconosciute intimamente da una parte dei nuovi arrivati; e non lo sono sul piano etico, prima ancora che sul piano pratico, dei comportamenti quotidiani.
Non è strano che sia così; sarebbe strano il contrario. Come abbiamo detto, la nostra società ha impiegato migliaia di anni per elaborare un certo sistema etico.
Per gli antichi Romani, nostri progenitori, l'esecuzione delle sentenze capitali era uno spettacolo altamente gradito e una occasione di inesauribile divertimento. Le belve feroci, il fuoco, la ruota, la croce, lo sterminio reciproco dei gladiatori, erano alcune delle forme che assumevano tali spettacoli, i quali potevano durare giorni e giorni e offrire la contemplazione sadica delle sofferenze e della morte di migliaia di esseri umani. Non era affatto disdicevole divertirsi assistendo a tali manifestazioni, nemmeno per le donne e  ragazzi: si trattava di un piacere estetico e, perché negarlo, anche sessuale (come ha ben mostrato Lewis Mumford).
Prima che tali spettacoli venissero banditi e si affermasse il principio della dignità della persona  umana, ci sarebbero voluti parecchi secoli; si dice anzi che il santo monaco che, per primo, riuscì a persuadere l'imperatore Onorio a proibire i ludi gladiatori (al principio del V secolo), venne linciato dalla folla inferocita, cui era stata sottratta una tale fonte di divertimento. La reazione, insomma, fu,  più o meno, quella che potremmo aspettarci se, al giorno d'oggi, un decreto statale ordinasse la chiusura di tutti gli stadi di calcio.
Allora, tornando a quella anziana signora a noi cara, e alle migliaia di persone che hanno vissuto esperienze analoghe o che le stanno vivendo - e per le quali il trauma psicologico e affettivo non è certo meno grave del pur gravissimo danno economico-, noi dovremmo avere l'onestà intellettuale di riconoscere che le vuote chiacchiere sull'integrazione facile hanno reso un po' tutti, a cominciare dalle pubbliche autorità, ciechi e sordi davanti all'evidenza dei problemi connessi con una immigrazione selvaggia, che ha assunto, negli ultimi anni, l'aspetto di una vera e propria invasione, e sia pure pacifica (almeno per ora).
In altre culture, diverse dalla nostra, tirare fuori il coltello per una banale lite da osteria può essere considerato come una cosa normale, se non addirittura doverosa (per la difesa dell'onore, e cose simili). Ma da noi non lo è, e ciò crea dei problemi.
In altre culture, diverse dalla nostra, vivere di truffe ai danni del prossimo, può essere considerato normale; ma da noi non lo è.
In altre culture, ridurre i bambini in schiavitù e costringerli, a suon di botte, a chiedere l'elemosina per le strade, può essere considerato normale; ma da noi non lo è.
In altre culture, se moglie e marito non vanno più d'accordo, può essere considerato normale che l'uomo si prenda i figli e li porti via con sé, sottraendoli alla madre, senza rivolgersi ad alcun tribunale; da noi non lo è.
In altre culture, se la figlia disobbedisce ai genitori, ad esempio vestendosi in un modo che essi disapprovano, o fidanzandosi con un ragazzo che essi non accettano, può essere normale che ella venga punita in maniere assai severe, che possono arrivare fino all'uccisione; ma da noi non lo è.
In altre culture, simulare malattie e deformità ripugnanti, per impietosire i passanti e sbarcare il lunario senza andare a lavorare, pur godendo di buona salute, può essere considerato normale; ma da noi non lo è.
In certe culture, crescere i bambini sulla strada, non preoccuparsi del loro benessere, ma, anzi, costringerli a ingegnarsi in mille modi, tutti poco onesti e talvolta violenti, per far sì che siano essi a mantenere i genitori, è forse una cosa normale; ma da noi, no.
Ogni cultura impiega tempi lunghissimi per elaborare i propri codici di comportamento e i propri concetti di ciò che è buono e di ciò che è cattivo. È semplicemente assurdo pensare che esse possano pervenire a una condivisione di valori e di comportamenti così, da un momento all'altro, sulla base di una legge formale che è sentita come estranea e arbitraria.
Vogliamo dire che anche sui flussi migratori sarebbe stato giusto e doveroso operare una selezione,  in base anche a criteri di tipo geografico, culturale, religioso, cioè favorendo l'ingresso di quelle persone che provengono da culture non troppo dissimili dalla nostra, per una norma elementare di buon senso e di lungimiranza.
Invece non è stato fatto, perché ciò sarebbe parso un criterio intollerabilmente  razzisista; col risultato che si è creato un vero e proprio razzismo alla rovescia.
Ora bisognerebbe avere l'onestà intellettuale di riconoscere che si è battuta una strada sbagliata, per pura demagogia o per ingenua fiducia nel «progresso» (ma quale?); e, di conseguenza, incominciare a modificare la rotta.
E, se qualcuno non è ancora persuaso di questo, vuol dire che non conosce una anziana signora alla quale vuol bene, e alla quale sia stata fatta una così traumatica, doppia violenza: materiale e spirituale. Per non parlare di tutte quelle anziane signore che, scippate perla strada o rapinate con furia selvaggia fin dentro le mura di casa propria, sono morte di crepacuore, o per aver battuto il capo in terra.

Certo, è pur vero che le modalità in cui si è svolto, e si sta svolgendo tuttora, il fenomeno della migrazione di milioni d'individui dal Sud verso il Nord della Terra, comporta che le culture di origine dei migranti tendano ad andare esse stesse in frantumi, col risultato che anche i loro codici etici crollano o si indeboliscono paurosamente.
Un amico romeno, immigrato in Italia parecchi anni fa (come clandestino, ma animato da un grande amore per il nostro Paese; e, subito dopo, regolarizzatosi e divenuto un onesto lavoratore) ci diceva con franchezza che una parte dei suoi connazionali, e specialmente delle sue connazionali, che vengono qui da noi, sono gli elementi meno raccomandabili di quella società. Bisogna tener conto di questo, quando si valutano i comportamenti criminali di determinati gruppi etnici di recente immigrazione (e i romeni occupano, percentualmente, il vertice di questa triste graduatoria).
La nostra società, poi (italiana, europea, e, in genere, occidentale) è essa stessa in fase di avanzata disgregazione, morale e materiale; per cui non sembra in grado né di imporre ad altri il rispetto delle regole del vivere civile, né di persuadere o di integrare gli stranieri di recente immigrazione con la forza del proprio codice etico.
Questa, però, è una ragione in più per porre un freno all'immigrazione indiscriminata, non una di meno. Un corpo sano può anche permettersi di sfidare virus e batteri; un corpo malato, no. E quanto al fatto che molti stranieri immigrati vivono gli effetti di una disgregazione sociale che sarebbe imputabile, secondo alcuni, alla nostra stessa disgregazione, ciò non toglie che «integrazione» è una parola grossa. Non bastano più e più generazioni per «integrare» una cospicua minoranza; tanto meno una cospicua serie di minoranze, completamente eterogenee tra loro. E meno che mai delle minoranze che a tutto pensano, tranne che a lasciarsi integrare: il che, dal loro punto di vista, è un sacrosanto diritto.
Ma dal nostro, ciò non significa forse creare le premesse per una ulteriore disgregazione del nostro tessuto sociale, senza alcuna prospettiva di soluzione? E i  membri più deboli della nostra società, non rischiano di pagare un prezzo troppo alto, in attesa di questa ipotetica e improbabile integrazione, che dovrebbe essere la panacea di ogni male e di ogni problema?