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Le religioni di Abramo non erano “buoniste”

di Luca Leonello Rimbotti - 17/03/2009

C’è un vecchio detto pellerossa che dice: «Quando arrivarono, i missionari avevano la Bibbia e noi la terra; ora noi abbiamo la Bibbia e loro la terra». Questa, più che un proverbio, è una constatazione. Sono un paio di millenni che dove arriva il messaggio d’amore i popoli hanno buoni motivi di preoccuparsi, perché insieme alla buona novella di solito arrivano anche l’amorevole sterminio e la schiavitù umanitaria.

Ma la storia è molto più vecchia. Il tarlo è all’opera sin dall’inizio. La religione proveniente da quel singolare spicchio di deserto che va dal Golan a Medina, notoriamente suddivisa in ebraismo, cristianesimo e islam, ha un marchio di fabbrica che si chiama violenza. I “fratelli in Abramo“, come li chiama il buon Franco Cardini, vedono circolare nel loro sangue comune una pronunziata vocazione all’uso della forza bruta. A fin di bene, si capisce. Sempre a fin di bene. Ma forza bruta rimane.

All’inizio dei tempi, all’alba di ogni rivelazione, nella santità del Libro dei Libri, cioè nella Bibbia, noi troviamo tonnellate di brutale violenza, quasi ad ogni pagina: maledizioni sanguinose, scongiuri di morte, nere profezie di sventura, salmi di vendetta, istigazioni al massacro, incitamenti a smettere ogni pietà, a utilizzare ogni più subdola astuzia, e a considerare il nemico unicamente dopo averlo ucciso. La sbalorditiva dose di violenza che percorre in lungo e in largo la Bibbia è a tutti nota, eppure di solito i più sembrano dimenticarsene. Il Dio stesso degli ebrei è soprattutto un Dio di violenza: il “tirannico e invidioso Dio di Israele“, come lo chiamava Marx, che, essendo ebreo, lo conosceva molto bene.

Ma, ad esempio nel Genesi e nell’Esodo, c’è di più, molto di più: c’è l’aperta istigazione al cherem, lo sterminio votivo. I popoli che Israele avrebbe incontrato nel suo cammino per impadronirsi della terra promessa, non dovevano soltanto essere sconfitti in battaglia, grazie alla premurosa intercessione di Jahvè; dovevano essere semplicemente sottoposti a sterminio totale, così che quello che veniva chiamato il “diritto del Dio universale” si compisse in tutto il suo significato e una volta per tutte. E non era un modo di dire. Gli studiosi hanno rimarcato che lo sterminio votivo era e appariva come un vero comandamento, sottrarsi al quale era segno sacrilego. E, paradossalmente, tale massacro del nemico talvolta era fonte di grave rinuncia per il popolo ebraico: esso infatti, operando lo sterminio, doveva talvolta rinunziare al bottino di guerra, poiché nell’ecatombe sacrale comandata da Jahvè si comprendevano tutti gli uomini, tutte le donne, tutti i bambini nemici, ma anche tutti i loro animali, tutti i loro beni, e finanche tutte le piante, tutte le coltivazioni, insomma tutto quanto occorre alla sopravvivenza e che avrebbe fatto comodo agli stessi vincitori.

Altre volte invece, come nel Deuteronomio, si raccomanda «il completo annientamento di tutto ciò che respira» ma anche di risparmiare il bottino, che va invece incamerato. Nelle due versioni, questa pratica di olocausto totale costituisce l’acme dell’idea stessa di guerra presso gli ebrei: «Allo stesso modo di un dominatore terreno, il Dio di questa teologia può imporre il diritto da lui voluto solo per mezzo della violenza e della distruzione», scrive il biblista Norbert Lohfink. Egli cita Es.23,23, in cui si parla «dell’annientamento e non della cacciata» del nemico, presentandolo come un radicale «comandamento dell’annientamento totale della popolazione» che comprende «l’intera popolazione come oggetto dell’annientamento». Altrove, si dice di come la Bibbia prenda in considerazione per lo sterminio le sole élites dirigenti dei popoli sottomessi, e a questo si riferirebbe il famoso elenco dei popoli stranieri che compare nel Deuteronomio: si direbbe una sorta di soluzione “alla polacca” ante-litteram: decapitazione delle classi dirigenti nemiche. Programmata non da un qualunque “boia di Cracovia”, ma da Jahvè. In ogni caso, il tono generale nella Bibbia è dato «dai tratti violenti di una guerra-cherem, tratti che avevano contraddistinto l’originaria conquista da parte di Mosè e di Giosuè». Olocausto, sterminio, annientamento totale: oggi, associata a che cosa noi sentiamo ogni giorno risuonare questa antica terminologia biblica?

L’epopea di Israele, così come viene descritta dal Libro dei Libri, pare proprio che sia essenzialmente una serie di crudeli fatti di sangue. Lohfink sottolinea come ovunque, tra i sacri passi biblici, ci si imbatta nel dam, che significa “sangue, fatto di sangue, colpa di sangue” e nel già visto cherem, che significa appunto “sterminio votivo, annientamento“: tale letteratura dell’efferatezza viene definita come “particolarmente ricca“. La teoria che gli ebrei sarebbero stati pastori nomadi infiltratisi pacificamente nelle terre altrui viene “demolita” da quanti notano il continuo succedersi di “attività bellica di bande armate“, l’ordine divino di procedere alla “cacciata delle stesse élites cananee“, oppure di operare “l’espugnazione con l’astuzia delle loro città fortificate” o infine di passare direttamente all’utilizzo della guerra di annientamento: “L’Antico Testamento è percorso dal sangue più di molte altre opere della letteratura religiosa di tutto il mondo“.

La violenza nell’accaparramento della terra altrui risalta dunque - a detta di studiosi altamente accreditati - come principio alla base di un diritto di conquista straordinariamente brutale anche per quei tempi arcaicissimi: “L’insediamento violento ci appare come principio ovvio nel credo veterotestamentario“, qualcosa che mena diritto alla “concezione della conquista militare della terra“. Se “il campo di battaglia è la culla di Israele“, ciò che più sembra risaltare è che al fondamento di queste concezioni esiste un patto metafisico stretto tra il popolo di Israele e Jahvè: in Es.34, 10-26, si parla di formule «che ancoravano al particolare rapporto di Israele con Jahvè la conquista del paese, la proibizione di stipulare alleanze con gli altri popoli e la promessa della loro cacciata». Ora si comanda la cacciata del nemico, ora invece il suo sterminio: si sa che spesso la Bibbia - frutto di numerosi rifacimenti - è contraddittoria: ma nondimeno, essa è parola di Dio.

Difatti in essa vige la divina ingiunzione ad usare “la crudeltà, la radicalità totale e la stretta relazione con la presa di possesso della terra assegnata a Israele“, qualcosa che si accompagna alla più recisa “teologia deuteronomica della separazione dagli altri popoli“.

Ci sono eruditi che hanno passato la vita a studiare questa materia della “guerra come fede“, del “terrore divino“, delle “leggi sullo sterminio” che popolano la Bibbia. Si tratta di un universo che non è in qualche modo solo un libro di storia, in cui si narrano efferatezze effettivamente avvenute, ma in cui si rivela una volontà divina tesa alla violenza di per sé, per principio, come sacrale legge di comportamento del “popolo di Dio”. Qui, non qualche suo troppo zelante seguace, ma Dio in persona ordina il massacro. Una lunga sequela di sangue che fa apparire gli eccidi compiuti dai crociati cristiani, o le torture dell’Inquisizione, dei semplici eccessi soltanto umani, episodi, dettagli storici. La diversità - enorme - è quella che corre tra una teologia sacra tutta innestata sull’uso prescrittivo della violenza e una deplorevole serie di fatti storici contingenti.

Tutto questo ha fatto sì che qualcuno, ad esempio lo storico Pierre Crépon, si chiedesse: «Come è possibile ammettere che il dio degli Ebrei, che diverrà il dio unico del giudaismo, del cristianesimo e dell’Islam, sia al tempo stesso il Creatore dell’universo, il Padre di tutti gli esseri viventi, e quel dio sanguinario che incita il suo popolo alla guerra e nel cui nome sono stati commessi tanti spietati massacri?».

Come sia possibile non lo sappiamo proprio. Sappiamo solo che la legittimazione dell’uso radicale della violenza non potrebbe trovare più indiscutibile sanzione di un testo vergato, a quanto si dice, sotto diretta dettatura di Dio. Questo è dunque ciò che accomuna i “fratelli in Abramo“: vogliamo ancora meravigliarci degli eccessi di brutalità dell’epoca in cui viviamo? Oppure preferiamo coprire il tutto con il pudico telone di un “buonismo” di facciata comune alle tre religioni del Libro? Esse sanno molto bene di quali terribili scheletri sia popolato il proprio bagaglio teologico, lo dicono sacro, impongono di venerarlo, ma amano sorvolare sul suo nocciolo duro.


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