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La lunga ombra delle lobby israeliane minaccia la politica estera USA

di Michele Paris - 18/03/2009

 


Il colpevole silenzio dell’amministrazione Obama ha accompagnato il recente ritiro della candidatura a guidare il Consiglio Nazionale di Intelligence da parte dell’ex ambasciatore americano in Arabia Saudita, Charles W. “Chas” Freeman. Un’inerzia aggravata dal fatto che a far naufragare la candidatura dello stimato diplomatico sono state le reazioni stizzite di influenti lobby pro-Israele e di parlamentari di entrambi gli schieramenti, inquietati dalle posizioni anti-israeliane espresse dallo stesso Freeman. Se il nuovo inquilino della Casa Bianca non è stato in grado di fronteggiare i falchi di Washington per difendere una voce critica della politica statunitense in Medio Oriente, sembrano più che legittimi i dubbi sollevati da più parti circa le effettive possibilità del presidente di imporre il proprio punto di vista nei confronti del nascente governo israeliano di Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman.

Personaggio controverso ma di indubbie capacità e indipendenza, Freeman era stato scelto dal coordinatore dell’intelligence USA – Dennis C. Blair – per presiedere il comitato incaricato di supervisionare i rapporti prodotti dalle sedici agenzie di spionaggio americane e destinati all’attenzione del presidente. A scatenare le ire di quelle che egli stesso ha definito “le lobby dei poteri forti pro-Israele”, sono state soprattutto le sue ben note opinioni espresse verso il principale alleato mediorientale degli Stati Uniti, nonché l’attività svolta per l’organizzazione no-profit “Middle East Policy Council”. Quest’ultima, fondata nel 1981 con il nome di “American Arab Affairs Council” con lo scopo di “espandere il dibattito pubblico e la comprensione delle questioni mediorientali che interessano la politica americana”, ha infatti ricevuto negli ultimi anni sostanziosi finanziamenti, secondo quanto confermato dallo stesso Freeman, dalla famiglia reale saudita.

Oltre al presunto conflitto d’interesse di Freeman, legato all’organizzazione che ha diretto a partire dal 1997 succedendo al candidato democratico alla presidenza nel 1972 George McGovern, nelle ultime settimane la campagna volta a screditarlo si è concentrata in particolare proprio sulle sue esternazioni, spesso molto critiche nei confronti di Israele. Gli attacchi hanno avuto inizio all’interno di alcuni blog americani, per diffondersi poi agli esponenti delle principali organizzazioni filo-israeliane e a numerosi membri del Congresso. Tanto che i sette repubblicani che fanno parte della commissione del Senato per i servizi segreti, nonostante la posizione di direttore del “National Intelligence Council” non sia sottoposta a voto di conferma, hanno indirizzato una protesta ufficiale a Dennis Blair in merito alla sua scelta, minacciando inoltre di sottoporre a revisione il lavoro dello stesso consiglio, se guidato da Freeman.

“La campagna di diffamazione nei miei confronti e il percorso facilmente ricostruibile di una serie di e-mail rese pubbliche per screditarmi, dimostra in maniera evidente come esista una potente lobby, decisa ad evitare che qualsiasi opinione diversa dalla propria trovi spazio”, ha spiegato Freeman riferendosi esplicitamente agli ambienti americani vicini ad Israele. “L’obiettivo di questa lobby è il controllo del processo politico, esercitato tramite un potere di veto nei confronti di candidati ad incarichi pubblici che possano mettere in discussione il proprio giudizio”, con il risultato di impedire ai cittadini americani di “valutare, o al governo di prendere in considerazione, qualsiasi opzione circa la politica americana in Medio Oriente che sia contraria a quelle sostenute da Israele”.

Lo sfogo di Charles Freeman solleva inquietanti interrogativi riguardo l’influenza esercitata sulla nuova amministrazione – e in genere sulla classe dirigente statunitense – da questi gruppi di interesse e, inoltre, risulta perfettamente coerente con quanto da lui già sostenuto in passato, anche se talvolta ben al di sopra delle righe. Nel 2005, ad esempio, criticò la “politica arrogante ed autodistruttiva” di Israele in relazione agli “insediamenti e all’occupazione dei territori palestinesi”, definita “intrinsecamente violenta”. Figura capace di sfoghi e prese di posizione raramente sostenute pubblicamente da politici e diplomatici americani, Freeman aveva poi messo in guardia da un establishment israeliano che, se “guidato esclusivamente dalle proprie strategie, finirebbe per produrre decisioni dannose per se stesso, minaccerebbe i propri alleati e scatenerebbe la reazione dei propri nemici”. Per Freeman insomma, sulla base delle scelte che il governo americano dovrebbe prendere per il bene dei propri cittadini, sarebbe “irresponsabile non criticare la politica di Israele”.

Tra i messaggi riproposti dai suoi detrattori e che hanno riportato alla luce alcune opinioni discutibili, ve n’è anche uno riguardante l’ipotetico sostegno fornito da quest’ultimo al governo cinese poco dopo la soppressione della rivolta di piazza Tienanmen del 1989. In quell’occasione, Freeman scrisse che “per qualsiasi paese non era accettabile che il cuore di una capitale fosse occupato da dissidenti con l’intento di sconvolgere il normale funzionamento del governo, per quanto seducente potesse risultare la loro propaganda per i paesi stranieri”. Queste dichiarazioni, si è difeso Freeman, sono state in realtà tolte dal loro contesto ed erano riferite piuttosto all’opinione diffusa in Cina nei confronti della strage di Tienanmen. I suoi rapporti di natura commerciale con la Cina tuttavia sono riemersi, dal momento che dal 2004 al 2008 ha fatto parte anche della “China National Offshore Oil Corporation”, compagnia petrolifera di Pechino che si occupa dello sfruttamento di risorse naturali al di fuori dei confini nazionali.

Gli attacchi pubblici, circolati prevalentemente in rete, alla candidatura di Freeman sembrano essere stati solo la punta dell’iceberg di una trama che si è svolta dietro le quinte dei palazzi del potere di Washington e che ha costretto l’ammiraglio Blair ad accettare la rinuncia del suo candidato senza battere ciglio. Prima ancora dell’annuncio della candidatura, Steve Rosen – ex lobbista per l’“American Israel Public Affairs Committee” (AIPAC) e con un processo in corso per aver passato documenti segreti a Israele – aveva definito Freeman dal suo blog come un perfetto esempio di “arabismo di vecchio stampo”, le cui opinioni circa il Medio Oriente “avrebbero potuto essere espresse tranquillamente dal ministro degli esteri saudita”.

Successivamente, la “Zionist Organization of American” – organismo che si era distinto per la netta opposizione al ritiro israeliano da Gaza nel 2005 – ha espresso i suoi dubbi circa il possibile conflitto di interesse di Charles Freeman a causa delle sue precedenti relazioni con l’Arabia Saudita, appoggiando una richiesta di indagini sul suo conto avanzata dai parlamentari repubblicani John Boehner e Mark Steven Kirk, quest’ultimo schieratosi apertamente per una “discriminazione” nei confronti di giovani cittadini di paesi arabi alla ricerca di un visto d’ingresso negli USA. A gioire dell’abbandono della candidatura per la guida del Consiglio Nazionale di Intelligence è stato, tra gli altri, anche il “Jewish Institute for National Security Affairs” (JINSA), organizzazione che ha annoverato tra le proprie file autorevoli esponenti dell’amministrazione Bush, come l’ex vice-presidente Dick Cheney, l’ex ambasciatore americano all’ONU John Bolton e l’ex sottosegretario alla Difesa Douglas Feith.

La schiera di oppositori alla candidatura di Freeman comprende poi molti politici, sia di parte democratica, come l’ex candidato alla vice-presidenza con Al Gore – ora senatore indipendente del Connecticut – Joe Lieberman e i senatori di New York Charles Schumer – il quale avrebbe addirittura fatto pressione direttamente sul capo di gabinetto Rahm Emanuel – e Steve Israel, che di parte repubblicana, primo fra tutti il deputato del Michigan Peter Hoekstra, il quale aveva definitito qualche tempo fa la Società Islamica Nordamericana un gruppo di “jihadisti radicali”. Gli attacchi incrociati, ai quali si è unita anche la speaker della Camera di Rappresentanti Nancy Pelosi, hanno finito per screditare preventivamente la figura di Freeman, che si è visto così costretto a rinunciare all’incarico, senza che nemmeno Obama muovesse un dito in sua difesa.

Molti di questi gruppi filo-israeliani avevano peraltro sostenuto con entusiasmo le precedenti nomine di Hillary Rodham Clinton al Dipartimento di Stato e di Dennis Ross come consigliere speciale per l’Iran e il Golfo Persico. Analogamente a quanto accaduto con Freeman, si erano invece dimostrati molto freddi nei confronti di altri membri dell’amministrazione Obama o di consiglieri tradizionalmente critici verso Israele. Queste valutazioni negative lo scorso anno avevano già influenzato pesantemente anche l’allora candidato democratico alla presidenza, il quale aveva finito col prendere le distanze dal consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski.

Le vicende che hanno coinvolto Freeman rappresentano indubbiamente un imbarazzo per il nuovo presidente, il cui silenzio non ha finora chiarito se la sua amministrazione sia da considerarsi troppo debole per opporsi alla macchinazione orchestrata nei confronti del direttore designato dell’NIC o se condivida invece le preoccupazioni di quanti ritengono intollerabile la presenza di voci critiche del sostegno incondizionato a Israele nell’intelligence americana. Quel che è evidente purtroppo è che l’intera questione ha mostrato ancora una volta l’estrema difficoltà da parte di Obama di resistere all’influenza di lobby e gruppi di interesse, venendo inevitabilmente meno così all’impegno preso all’indomani della sua elezione di governare in maniera differente rispetto al passato e che aveva contribuito non poco ad alimentare la promessa di cambiamento dopo i due mandati del suo predecessore.