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Quello che non sappiamo dell’Iraq

di Philip Bennett - 18/03/2009





Che nome danno gli iracheni alla guerra che adesso sta entrando nel settimo anno?

Se non sapete rispondere a questa domanda, non è perché non ve ne siete interessati abbastanza. In questo Paese, la guerra in Iraq è stata una storia americana. E’ nata all’interno di Washington. I suoi costi in termini di sofferenza per noi sono stati visibili per lo più ai lati delle tombe da un capo all’altro degli Stati Uniti, o nei reparti del Walter Reed [il più importante ospedale militare degli Stati Uniti NdT]. Una biblioteca di storie della guerra che continua ad aumentare racconta in ordine cronologico battaglie aspre, una dopo l’altra, tra fazioni della Washington ufficiale, che bisticciano riguardo a idee e strategia su come ci siamo entrati e come uscirne.

Mentre la guerra è andata avanti, le storie degli iracheni sono state oscurate dalla vicenda drammatica della nostra stessa esperienza nella sua intensità. Lo squilibrio mi ha colpito mentre di recente leggevo e riguardavo alcuni dei migliori libri prodotti dal giornalismo americano sull’Iraq dall’inizio dell’invasione, il 19 marzo 2003. Sono ricchi di dispacci schietti, privi di emozioni visibili, prodotti a fianco delle truppe Usa, e scavano a fondo in modo investigativo nelle opinioni dei leader statunitensi – complessivamente, una testimonianza notevole di un conflitto che continua. Tuttavia essi riflettono anche il modo in cui la frustrazione e l’isolamento, incluso l’isolamento dei giornalisti, hanno ridotto gli iracheni a un cast ristretto di ruoli secondari: partner ingrati, postulanti inaffidabili, nemici invisibili, e vittime indecifrabili.

Con le forze Usa pronte a ritirarsi dall’Iraq nell’arco dei prossimi 18 mesi, ha importanza il fatto che sappiamo così poco del modo in cui gli iracheni hanno capito e vissuto durante tutta la guerra? Il legame invisibile fra le esperienze sovrapposte degli americani e degli iracheni – e il biasimo, il disamoramento, e l’odio che hanno reso soffocante l’aria tra di loro – compromette la nostra capacità di vedere quello che accadrà dopo. Inoltre, significa che, mentre i funzionari Usa applicano le lezioni della guerra in Iraq alla strategia in Afghanistan, essi rischiano di perdere una parte centrale della storia.

Il nuovo libro di Tom Ricks,
"The Gamble," mostra quanto sia difficile allineare le opinioni che iracheni e americani hanno del conflitto, nonché quelle che hanno gli uni degli altri. In un seguito del suo best-seller "Fiasco", Ricks, ex corrispondente capo del Washington Post dal Pentagono, fornisce un resoconto visto dall’interno del modo in cui il generale David H. Petraeus ha risuscitato la guerra in Iraq da quella che sembrava una causa persa nel 2006, e l’ha resa la situazione più stabile da un punto di vista militare che è oggi. Al centro del successo di Petraeus contro gli insorti, scrive Ricks, c’è la determinazione del generale, con l’aiuto di altri 30.000 soldati Usa, a conquistare la popolazione irachena, per dimostrare che "il premio sono le persone".

Come tesi è forte. Tuttavia iracheni quasi non ce ne sono al centro del mondo di Petraeus (oppure in "The Gamble", il cui "cast di personaggi" ne elenca solo due: il Primo Ministro Nuri al-Maliki e l’esponente religioso sciita  Muqtada al-Sadr). Nell’"eclettico" gruppo di esperti del generale ci sono una pacifista britannica e un asso in controinsurrezione australiano – ma nessun iracheno. (Il suo traduttore e contatto personale con il governo iracheno è Sadi Othman, un palestinese nato in Brasile e cresciuto in Giordania). I leader tribali che si sono convertiti da nemici in alleati – e prestano i loro 100.000 combattenti alla causa della lotta contro al-Qaeda – vengono presentati come archetipi inconoscibili. I comandanti e i soldati Usa parlano di uno “scaldarsi” dei cuori e delle menti degli iracheni e attribuiscono il merito del cambiamento all’approccio statunitense, ma dobbiamo prendere per buono quello che dicono quanto alla profondità di questa trasformazione. Non sappiamo di prima mano che opinione gli iracheni abbiano in definitiva della surge, e se la stabilità che essa ha portato contribuirà a costruire una nuova nazione o solo una corsia preferenziale per l’uscita degli americani.

Non c’è nulla di insolito nel fatto che i giornalisti americani si concentrino sugli americani in guerra, in particolare sui leader civili e militari che valutano le verità e le conseguenze per milioni di vite. Bisogna leggere un bel po’ delle 1.700 pagine di
"Reporting Vietnam", l’antologia della Library of America, prima che civili o insorti vietnamiti escano fuori dal coro e diventino soggetti individuali. In Iraq, divari di lingua e cultura hanno influito su coloro che facevano la cronaca della guerra quanto su quelli che la stavano combattendo. Nello stesso tempo, ci sono stati forti incentivi a portare alla luce i fatti relativi a come la guerra veniva vissuta a Washington. Non meno importante è stata la motivazione da parte di alcuni giornalisti e direttori di giornali a tornare indietro e fare il lavoro di chiamare il governo a render conto, in modi che erano mancati, e avrebbero potuto contare, prima che la guerra iniziasse.

La profondità e il carattere drammatico dei libri di parecchi giornalisti su Washington in guerra hanno dato a queste opere un impatto maggiore, che va al di là dei buoni articoli sui giornali e sulle riviste che li avevano preceduti. La trilogia di Bob Woodward sulla Casa Bianca di Bush, seguita lo scorso anno da un quarto libro,
"The War Within", ha tirato fuori dall’Amministrazione reticente una scena dopo l'altra di una corsa verso il disastro da parte del governo. Copie di "Fiasco" e di "Cobra II", di Michael Gordon e Bernard Trainor, sembravano essere una presenza regolare negli alloggi degli ufficiali in tutto l’Iraq. In "Imperial Life in the Emerald City", il suo devastante ritratto della Green Zone pubblicato nel 2006, Rajiv Chandrasekaran del Washington Post ha scritto il resoconto definitivo della prima fase dell’occupazione, corrotta dall’ideologia, dall’incompetenza, e dall’arroganza.

Fin dai primi giorni dell’invasione, tuttavia, i corrispondenti hanno fatto fatica a mettere insieme una narrazione comune agli iracheni e agli americani. "Le lotte più importanti erano quelle che andavano avanti sia nelle menti degli iracheni che in quelle degli americani", ha scritto George Packer del New Yorker in
"The Assassins' Gate", pubblicato nel 2005. "Il significato della guerra sarebbe la somma di tutti i modi che tutti loro avevano vicendevolmente capito e degli eventi che li avevano spinti insieme". Il libro di Packer, i cui materiali sono stati raccolti per la maggior parte nel 2003 e nel 2004, mostra quale aspetto avrebbe potuto avere la storia. Le sue descrizioni degli iracheni rivelano il loro bagaglio, compresa la loro "demolizione psicologica" sotto la tirannia di Saddam Hussein e il loro disorientamento dopo l’invasione. Lui si è avvicinato ad alcuni iracheni che professavano un "modo di pensare che sta nel mezzo" – uno spazio moderato fra le certezze religiose e laiche – che sembrava promettere una identità nazionale alternativa. Ma non era una speranza, o una argomentazione, che avrebbe retto.

Adesso è chiaro che dobbiamo un enorme gap nella nostra comprensione dell’Iraq alla violenza che si è scatenata agli inizi del 2004, quando sequestri e decapitazioni, centinaia di attentati suicidi, e combattimenti di strada hanno costretto i giornalisti occidentali a porre fine al contatto quotidiano con gli iracheni in modi casuali e fortunati che aveva prodotto le storie più efficaci. Nella mia veste di caposervizio esteri del Washington Post all'epoca, ho iniziato a fare meno domande sul modo in cui seguivamo la vicenda e domande costanti sull’incolumità dei nostri giornalisti. I media si sono ritirati all’interno di convogli armati, e nascosti dietro mura anti-esplosione, o hanno abbandonato del tutto il Paese. (Il Washington Post e altri sono rimasti). Come ha scritto Dexter Filkins del New York Times, che in quegli anni è emerso come il migliore giornalista di guerra della sua generazione: "Per noi, l’Iraq è scomparso allora, e non è più ritornato".

Nel suo libro del 2008,
"The Forever War", Filkins scrive che "in Iraq sono sempre esistite due conversazioni: quella che gli iracheni avevano con gli americani, e quella che avevano tra di loro". In quasi tutti i libri, le eccezioni sono le conversazioni -- complesse, tese, intime  – fra i corrispondenti e i loro traduttori, autisti, e guardie iracheni. Questi rapporti non sono semplici: sono stratificati di sospetti, lealtà contraddittorie, e della tensione che viene dal mettere la tua vita nelle mani di qualcuno che non capisci completamente. Tuttavia, portano anche il debito reciproco dell’esperienza condivisa. E, per la maggior parte, funzionano.

Secondo Filkins, la maggior parte degli iracheni viveva "nel mondo che noi non abbiamo mai visto". Quello che lui ha visto più da vicino di altri giornalisti è stata la parte dura della missione. Era presente a Falluja durante l’assalto del 2004 [il testo originale dice, erroneamente, 2005 NdT] da parte di 6.000 soldati e Marines, e la sua scrittura brutale di questa e di altre battaglie irrompe attraverso le barriere della lingua che ci proteggono dalla verità del combattimento – che nulla è più insensato, o più significativo. Filkins non riferisce solo di combattimenti. Tuttavia il suo libro è un esempio di quanta parte dell’Iraq ci arrivi attraverso i soldati americani. Il punto di vista che essi offrono è emotivamente debilitante e provocatorio, entusiasmante, banale, buffo, eroico, e tragico allo stesso tempo. Nel suo libro del 2007,
"The Long Road Home", Martha Raddatz di ABC News ricostruisce quasi minuto per minuto la battaglia per Sadr City del 2004 che segnò il battesimo delle forze Usa nella melma della controinsurrezione. In "Big Boy Rules", pubblicato lo scorso anno, Steve Fainaru del Washington Post svela gli abusi commessi dai e contro i combattenti americani dimenticati, i contractor della sicurezza privata che hanno fatto il lavoro di un esercito insufficiente dal punto di vista numerico, vivendo al di là anche dell’orizzonte legale e morale della guerra.

Ma in queste storie di sacrificio di grande effetto, più ci avviciniamo agli americani, più lontani siamo dagli iracheni. I soldati Usa sotto il fuoco a Sadr City fanno fatica a distinguere gli "iracheni buoni" da quelli "cattivi" prima di sparare a raffica contro tutti per salvare le loro vite. Se la seduzione era stato un tema della tragedia del Vietnam, in Iraq essa sembra essere stata sostituita dalla ripugnanza, con un'avversione acre che si infiltra negli incontri fra americani e iracheni. Per gli iracheni, gli abusi sui prigionieri ad Abu Ghraib sembrano essere stati parte di una umiliazione nazionale; Petraeus vide lo scandalo come una significativa battuta d'arresto strategica che era necessario rovesciare. Più di una volta, gli americani hanno pensato che stavano pagando col sangue per dare agli iracheni "una possibilità di fare la cosa giusta", come ha detto un colonnello a Filkins. Più di una volta, gli iracheni deludono. Come riferisce Ricks, secondo il punto di vista di molti soldati, "la più grande minaccia alle aspirazioni americane" in Iraq sono "gli iracheni stessi".

Oggi, gli iracheni sono gli autori anonimi della loro stessa storia. Mentre gli Stati Uniti si ritirano, il corso della "irachizzazione" dipenderà in parte dal modo in cui gli iracheni renderanno visibili e risolveranno le versioni che loro stessi hanno dato degli ultimi sei anni. I giornalisti americani dovrebbero nuovamente riprendere la missione di raccontarne le storie, dato che la sempre maggiore sicurezza lo rende possibile. Può darsi che l’interesse del pubblico per queste storie sia scomparso, ma lo stesso non si può dire della loro importanza. Le lezioni della guerra in Iraq, compresa quella di far sì che "il premio siano le persone", adesso si stanno spostando, sotto il comando di Petraeus, in Afghanistan, un altro Paese di estranei.

Anthony Shadid, il corrispondente da Baghdad del Washington Post, mi dice che gli iracheni hanno definito la guerra con nomi diversi negli ultimi sei anni: ghazu ovvero "invasione"; a volte "gli eventi"; di tanto in tanto "guerra confessionale"; e il più delle volte, e in modo più ossessionante, suqut – semplicemente "il tracollo".

Il libro di Shadid pubblicato nel 2005,
"Night Draws Near", resta il tentativo più ricco che io abbia letto di seguire i percorsi degli iracheni, sciiti e sunniti, contadini e medici, insorti e agnostici, attraverso il terreno ambiguo dei loro conflitti interni e della guerra all’esterno. (E’ anche l’unico libro nella mia pila che abbia in copertina la foto di un iracheno). Shadid è tornato in Iraq dopo esserne stato lontano diversi anni; spero che vada a trovare di nuovo queste persone.

La citazione più significativa della guerra in Iraq -- "Ditemi come andrà a finire" – venne
posta da David Petraeus a Rick Atkinson del Washington Post sulla via per Baghdad durante l’invasione. Anni dopo, ha acquisito una connotazione che Petraeus forse non intendeva darle: ditemi come finirà per noi, per gli americani. Rileggendo il libro di Shadid, mi sono imbattuto nella conclusione irachena, scritta quasi lo stesso giorno, nel diario di una ragazza di 14 anni di nome Amal Salman: "Quale sarà il futuro dell’Iraq? Potrà essere buono? Nessuno lo sa".

La domanda di Petraeus e quella di Amal sono legate, proprio come gli eventi degli ultimi sei anni legheranno reciprocamente per sempre i loro Paesi.

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)
The Washington Post