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Il concetto impossibile di comunismo

di Costanzo Preve - 19/03/2009

Fonte: comunitarismo


Dedicato a Georges Labica (1930-2009)

Per una ridefinizione di comunismo.
1. In una corrispondenza epistolare in rete con Attilio Mangano, pubblicata sul suo blog
(cfr. ripensaremarx.splinder.com), Gianfranco La Grassa (d’ora in poi GLG) ammette
apertamente di non potersi più dire “comunista”, di essere anticapitalista senza comunismo, e
sostanzialmente di non avere più un concetto di comunismo.
Si tratta di una confessione che gli fa onore. Dal momento che GLG è un vero studioso di
Marx, e non un confusionario chiacchierone, è chiaro che non può accontentarsi di
diseducative affermazioni di tipo narcisistico-esistenzialistiche alla Pietro Ingrao, per cui
comunista è chi “si sente comunista” oppure si “dichiara comunista”. Su questa base, anche il
pazzo da manicomio che si dichiara Napoleone, dovrebbe essere veramente Napoleone.
Se ci fosse in Italia una discussione marxista seria, anziché solo dei blog autoreferenziali in
settaria lotta reciproca, l’ammissione di GLG farebbe discutere. Questo, ovviamente, non può
accadere.
Non importa, lo discuterò io.
2. Secondo il Dizionario Critico del Marxismo (in lingua francese) di Labica e Bensussan,
alla voce Comunismo si possono leggere alcune interessanti concettualizzazioni:
(a) Fino all’Ideologia Tedesca del 1845, Marx non usa mai il termine comunismo, ma il
termine socialismo. In quel contesto storico, il “comunismo” era solo la ripartizione egualitaria
dei beni, e Marx la critica nei Manoscritti del 1844 con il curioso termine di “proprietà privata
generale”.
(b) Nei Manoscritti del 1844 Marx pensa ancora il socialismo nei termini “conviviali” e
comunitari di un’assemblea riunita intorno ad un pasto comune fraterno (da cui “compagno”,
cum-pane, colui che spezza il pane insieme a me). Le origini comunitario-conviviali del
termine comunismo nel 1844 sono filologicamente documentate, e chi vuole separare
comunismo e comunitarismo deve distruggere tutta la documentazione filologica esistente.
(c) Nei Manoscritti del 1844 vi è una centralità del concetto di alienazione. Come è noto, vi
sono scuole marxiste (fra cui l’althusserismo di GLG) che vorrebbero disfarsi di questo
concetto “giovanile”. Altre scuole, come la mia, hanno in proposito un’opinione opposta, e ne
sostengono la permanenza e la centralità per tutta la vita di Marx. Una delle ragioni (non la
sola) per cui la ritengo centrale, è che in Marx la critica al concetto astratto di alienazione è
inscindibile dal concetto concreto di divisione del lavoro. Ed un comunismo che lascia la
divisione sociale del lavoro così come è oggi mi sembra proprio poco “comunismo”, e molto
ingegneria sociale di tipo positivistico.
(d) Nella Ideologia Tedesca del 1845 abbiamo la non casuale compresenza di due concetti
nuovi. Da un lato, il concetto di modo di produzione capitalistico, di cui fino al 1845 mancava
sia il concetto che la parola. Dall’altro, il concetto di comunismo non come ideale da
realizzare, ma come movimento reale che abolisce lo stato delle cose presenti. Il vero e proprio
“materialismo storico” nasce così soltanto nel 1845 attraverso la connessione dialettica
organica di modo di produzione capitalistico, di contraddizioni di questo modo di produzione
(borghesia e proletariato, forze produttive e rapporti di produzione, eccetera) ed il comunismo
come movimento reale.
(e) Nel Capitale, capitolo sul feticismo della merce, Marx pensa il capitalismo per
differenza ed in modo contrastivo dal robinsonismo, dal “tenebroso” mondo feudale e dalla
azienda agraria famigliare, attraverso la “rappresentazione di uomini liberi che lavorano con
mezzi di produzione comuni e che spendono, sulla base di un piano da loro concertato, le loro
numerose forze individuali come una sola ed unica forza lavoro sociale… i rapporti sociali
degli uomini nei loro lavori e con i loro oggetti utili che ne risultano restano qui semplici e
trasparenti nella produzione così come nella produzione”
Riassumiamo: se le parole hanno un senso, il comunismo risulta dai tre concetti di
comunità (comunità di lavoro, comunità di produzione, comunità di distribuzione), di piano (e
cioè di prevalenza del piano sul mercato), ed infine di trasparenza (i rapporti sociali comunisti
sono “trasparenti”, e non sono invece resi oscuri dal feticismo della merce, a sua volta dovuto
alla alienazione dei prodotti del lavoro, e come si vede, rifiuto radicalmente la lettura di
Althusser ed alla GLG della separazione fra il concetto di alienazione ed il concetto di
feticismo della merce, che considero invece concetti logicamente e storicamente interconnessi).
(f) Negli scritti intorno al 1870 ed alla Comune di Parigi Marx mostra che per lui il
comunismo è “l’associazione dei produttori”. Questa associazione dei produttori ha due basi, la
riappropriazione del plusprodotto sociale appropriato dalle classi sfruttatrici e la democrazia
diretta dei produttori stessi. Marx vede collegate la democrazia diretta e l’estinzione dello stato,
perché per lui la democrazia diretta è incompatibile con la permanenza dello stato, sia pure
democratizzato quanto più si può.
(g) Nella Critica al programma di Gotha del 1875 Marx distingue due fasi del passaggio al
comunismo, la prima fase (da ciascuno secondo le sue capacità, e a ciascuno secondo il suo
lavoro) e la seconda fase (da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi
bisogni). Si tratta di una distinzione notissima, in generale conosciuta anche dai principianti
dello studio del marxismo.
Nella interpretazione marxista classica, la prima fase è stata chiamata “socialismo” e la
seconda “comunismo”. Grazie agli studi della tendenza maoista occidentale (Althusser,
Bettelheim, Natoli, eccetera) si è accertato che questa dizione è inesatta. Il socialismo, infatti,
non è per Marx un modo di produzione autonomo, ma è la semplice transizione dal capitalismo
al comunismo, in cui permane la lotta di classe fra borghesia e proletariato all’interno delle due
“linee” del partito (teoria della rivoluzione culturale di Mao Tse Tung e del maoismo europeo).
Il discorso sarebbe molto più lungo ed articolato, ma accontentiamoci per ora di queste
sette punti introduttivi. E soprattutto, commentiamoli in modo libero e spregiudicato.
3. Per chi conosce la filosofia di Hegel e non ne parla solo “per sentito dire” come un
ubriacone in un’osteria, è evidente che il comunismo di Marx non si “sovrappone” alla storia
come una progettualità razionale astratta ma emerge dallo sviluppo di determinazioni
dialettiche (nel senso di determinazioni del finito che rimanda oltre a se stesso), ed è quindi
contenuto nel capitalismo come sua possibilità ontologica oggettiva. Chi conosce la
Fenomenologia dello Spirito, e non ci sputa sopra senza conoscerla solo per “sentito dire”, vi
riconoscerà la teoria del Sapere Assoluto di Hegel, per cui “la forza dello spirito è piuttosto
quella di restare eguale a se stesso nella sua esteriorizzazione”. Se cerchiamo di dedurre il
comunismo non solo da una possibilità oggettiva non necessitata da nulla di vincolante (il
dynamei on aristotelico), ma da una necessità storica che prende la (folle) forma di una legge
naturale positivistica, finiamo ovviamente in un vicolo cieco.
La “scienza” comunque intesa, non potrà mai dedurre scientificamente il passaggio dal
capitalismo al comunismo.
4. Il fallimento di tutti gli “scientismi”, da Lucio Colletti a Gianfranco La Grassa, è quindi
iscritto fin dal principio nella erroneità dei loro presupposti. E come non mi stupisce affatto che
Colletti, gonfio del suo stupido livore verso Hegel, tanto migliore di lui, sia infine passato da
Marx a Popper, nello stesso modo non mi stupisce che GLG, sulla base del fatto che il
comunismo è tanto aleatorio come la caduta di una meteorite, affermi nella sua corrispondenza
con Mangano che “credere al comunismo è come credere in Dio”, e che la credenza nel
comunismo è un semplice modo di dare un senso alla propria vita, analogo anche in questo
caso alla credenza cristiana.
Coloro che volevano fondare il comunismo sulla scienza scientifica depurata dalla orribile
triade irrazionalistica filosofia-idealismo-umanesimo, triade sulla quale io invece fondo
razionalmente il mio comunismo, lo rivendico e me ne vanto, arrivano necessariamente alla
scomunica di Pascal, cioè alla fede comunista assimilata alla fede in Dio.
Mi stupisco? Ma nemmeno per sogno! Da parecchi decenni sono arrivato alla pacata e
cauta conclusione (fallibile e provvisoria come tutte le conclusioni) che il peggiore
irrazionalismo, quello incurabile (ed incurabile perché non sa socraticamente di non sapere) è
l’arroganza scientista, quella che si scarica nell’odio verso la filosofia, l’umanesimo,
l’idealismo, il comunitarismo, la decrescita, eccetera. Alla fine, il suo delirio scientistico le si
scioglie fra le mani come un gelato al sole, e deve parlare prima di un comunismo aleatorio
come la caduta di un meteorite, e poi della fede nel comunismo come qualcosa di simile, ed
anzi di eguale, alla fede in Dio.
Tutto ciò merita altri e brevi commenti.
5. Detto in modo sintetico, il paradigma teorico di GlG può essere compendiato così:
l’analisi del modo di produzione capitalistico è una scienza, mentre il comunismo è una
religione.
Questo modello teorico non ha nulla a che fare con quello di Marx. Si noti bene: non ho
detto che è una interpretazione discutibile del pensiero di Marx. Di interpretazioni di Marx ce
ne sono a centinaia. Ad esempio, la mia interpretazione di Marx (Costanzo Preve) è una
interpretazione discutibile: Marx è il terzo grande pensatore idealista dopo Fichte ed Hegel; in
Marx il materialismo ha soltanto uno statuto metaforico complementare, ma non fondante: arte,
religione e filosofia non sono sovrastrutture; lo stato non si estinguerà neppure nel comunismo;
l’umanesimo è una parte integrante del pensiero di Marx; l’alienazione sta alla base del
feticismo della merce; il comunitarismo sta alla base del concetto di comunismo; eccetera. E’ il
caso di dire: più discutibile di così!
Eppure, per discutibile che sia, la mia interpretazione è del tutto conforme al progetto di
Marx, fondato sul tenere insieme capitalismo e comunismo, e nel pensare il comunismo a
partire dalle contraddizioni del capitalismo, non come suo esito necessario (per usare l’errato
linguaggio positivistico di Marx ed Engels: come “un processo di storia naturale”), ma come
suo esito ontologico possibile (il dynamei on aristotelico, l’experimentum mundi blochiano,
l’ontologia dell’essere sociale lucacciana, eccetera).
Se invece si arriva al dualismo totale separato, dell’analisi del modo di produzione
capitalistico come scienza, e del comunismo come religione, allora si è fuori completamente da
Marx.
Si noti bene. Per me questa affermazione non comporta assolutamente una condanna
moralistica sdegnata ed una scomunica da gruppettari pazzi e settari. Semplicemente, constato
dove deve necessariamente arrivare il lungo grido d’odio e di disprezzo verso la filosofia,
verso l’idealismo e l’umanesimo.
La confessione di GLG (il comunismo è come la fede in Dio) non mi scandalizza affatto.
Semplicemente, mi fa piacere vederla scritta nero su bianco, perché rappresenta una conferma
clamorosa di quello che penso da almeno venti anni di tutti i paradigmi anti-filosofici ed antiumanistici
del comunismo. I gravi cadono gravitazionalmente. I marxismi scientistici ed antifilosofici
cadono anch’essi gravitazionalmente.
6. Dopo cinquanta anni di studi seri e originali su Marx ed il marxismo il nostro GLG è
arrivato a due conclusioni sul comunismo. Primo, il comunismo è una fede religiosa ed
esistenziale paragonabile alla fede in Dio. C’è chi ha avuto la fortuna di averla, e chi purtroppo
(o per fortuna, perché è weberiamente più disincantato) non ce l’ha. Secondo, l’avvento del
comunismo nella storia umana è un fenomeno puramente aleatorio, paragonabile alla caduta di
un metorite.
Vediamo come si rappresentava il comunismo il maestro di GLG, Louis Althusser, in una
conferenza a Terni (cfr. “Repubblica” e “Manifesto”, 5-4-1980), poco prima della sua nota
catastrofe. Davanti ad una platea di babbioni sbigottiti di “sinistra” il maestro franco-taoista
sostenne nell’ordine le seguenti tesi (mi limito purtroppo alle sole tesi riportate dai mediocri
giornalisti presenti):
(a) Bisogna suonare gettando via tutti gli spartiti.
(b) Il socialismo storico fino allora costruito è “merda” (sic!)
(c) Dopo questa merda, però, grazie alla resistenza operaia costituente, verrà l’anarchismo
sociale.
(d) Quanto al comunismo, per ora vive nei ragazzini che stanno giocando felici e sfrenati
nel cortile.
(e) Il comunismo, inoltre, non significa affatto “socializzazione”, perché socializzare è una
cosa terribile, un “portato del capitalismo”, e bisogna semmai “desocializzare”.
In una intervista concessa da Lucio Colletti, quest’ultimo ricorda di avere cenato con
Althusser in un “ristorantino vietnamita”, di avere discusso di marxismo, e che Althusser gli
avrebbe detto che il marxista che gli sembrava più promettente e pertinente era l’italiano
Antonio Negri, detto Toni Negri, divenuto poi internazionalmente famoso con le due opere
scritte con Michael Hardt Impero e Moltitudini, delle quali per pudore ora non parlerò, ma che
ritengo essere state il peggio in senso assoluto pubblicato nella (transeunte) congiuntura storica
dell’ultimo decennio.
Un breve commento. La simpatia di Althusser per Negri (considero attendibile la
testimonianza di Colletti) non è casuale, perché entrambi concordano nel declinare
teoricamente il comunismo in termini di anarchismo, e cioè di estinzione dello stato. Non
potendo però “dimostrare” questa tesi (l’estinzione dello stato, appunto), tesi effettivamente
indimostrabile (e si veda, oltre a Preve, Danilo Zolo, Domenico Losurdo, e moltissimi altri),
essi devono ripiegare su metafore del tutto letterarie, come i bambini felici che giocano sfrenati
nel cortile, oppure delle fantomatiche “moltitudini costituenti”. Lo stesso Negri, dopo la morte
di Althusser, ha ripetutamente confermato la sua adesione al cosiddetto “materialismo
aleatorio”, e cioè alla teoria del comunismo pensato come la caduta di un meteorite. Si
configura così una vera e propria scuola veneto-marxista, che va da Padova (Toni Negri) a
Conegliano Veneto (Gianfranco La grassa).
Sono invece d’accordo con Althusser sui punti (a) e (e). Bisogna effettivamente ora fare del
marxismo buttando via tutti gli spartiti. Il mio defunto amico Jean-Marie Vincent lo ha detto in
modo ancora più preciso in un fondamentale saggio, sostenendo (sic!) che “bisogna sbarazzarsi
del marxismo”, inteso come secolare tradizione 1890-1990. Molto ben detto. Personalmente,
sono almeno vent’anni che cerco di farlo. Inoltre, è perfettamente vero che senza desocializzare
la socializzazione capitalistica (in particolare la peggiore di queste socializzazioni culturali, la
socializzazione della cosiddetta “cultura di sinistra”), non ha senso parlare di comunismo.
Sono invece in disaccordo con le proposizioni (b), (c) e (d). Concordo sul fatto che i
ragazzini trafelati che giocano al pallone sono l’immagine della felicità, ma questo tipo di
“estasi” (uscire da se stessi, ek-stasis) non deve essere assimilato alla associazione dei
produttori, che per Marx è il concetto di comunismo. L’associazione dei produttori può
rivelarsi pedante, noiosa e difficile. La felicità, a mio avviso, si cerca e si trova altrove. La
felicità è una dimensione privata. Solo la giustizia è una dimensione pubblica. Un po’ di
filosofia greca non farebbe male.
7. Chi vuole continuare sulla strada delle moltitudini costituenti all’interno di un impero
deterritorializzato senza più stato nazionale, dell’anarchismo sociale magicamente evocato
senza il minimo onere della dimostrazione razionale su base storica, della fede nel comunismo
pensata secondo il modello della fede in Dio, del comunismo pensato in modo aleatorio come
una caduta di un meteorite, del comunismo estetico come felicità presente di bambini eccitati
che giocano al pallone in un cortile, delle ormai insopportabili dichiarazioni di odio verso la
filosofia, l’idealismo e l’umanesimo, eccetera, è consigliato di interrompere fin da subito qui la
lettura. Contra negantes principia - diceva Hegel – non est disputandum.
Chi vuole invece girare pagina, è pregato di leggere con estrema attenzione i paragrafi che
verranno.
8. Non è vero che le cose sono “complesse”. La cosiddetta “complessità” è un mito della
casta universitaria, la stessa che ha ridotto la filosofia a citatologia. La citatologia è il solo
parametro accademico per i concorsi universitari, dal momento che alla filosofia è stato tolto
ogni ruolo fondativo nella comprensione della società e della storia. Platone, Aristotele,
Spinoza, Kant, Hegel e Marx sarebbero stati inesorabilmente bocciati ad un concorso
universitario, perché hanno scritto senza citare nessuno. La citazione a volte può essere utile,
ma è come l’aceto balsamico. Ne basta una goccia.
Si dirà che questo valeva solo per i grandi, ma ora non vale più. Ora, senza citatologia, si è
espulsi dalla repubblica dei dotti. Idiozie. Scrive Lukács (cfr. Pensiero Vissuto, Editori Riuniti,
Roma 1983, p.44): “Su di me ebbe enorme influenza Bloch. Lui infatti mi convinse con il suo
esempio che era possibile filosofare alla maniera tradizionale. Fino a quel momento io mi ero
immerso nel neokantismo del mio tempo, ed adesso incontravo in Bloch il fenomeno di
qualcuno che filosofava come se l’intera filosofia moderna non esistesse, e che era possibile
filosofare al modo di Aristotele e di Hegel”.
Qui Lukács tocca il punto essenziale. Non si tratta di illudersi, in modo megalomane, di
poter arrivare al livello di Aristotele e di Hegel. Si tratta di filosofare al modo di Aristotele e di
Hegel, senza stupida retorica della complessità, senza credere di poter “dimostrare” qualcosa in
modo erudito o citatologico. Si tratta non certo di odiare il circo universitario ed i suoi riti
citato logici, ma di comprendere che questo circo è del tutto irrilevante per la discussione
filosofica dei contenuti.
9. Ostile al citazionismo inutile e pleonastico, alibi per androidi accademici privi di idee
originali, comincerò questa volta con una citazione, e cioè con una citazione di una parte della
prima Tesi su Feuerbach di Marx, scritta da Marx nella primavera del 1845 a Bruxelles e
pubblicata postuma da Engels nel 1888. Essa dice:
“Il difetto principale di tutti i materialismi che si sono susseguiti fino ad ora (compreso
quello di Feuerbach) è che ciò che ci sta di fronte (Gegenstand), la realtà, la sensibilità, viene
concepito soltanto sotto la forma di oggetto (Object) o di intuizione, ma non come attività
sensibile, umana, come prassi, non soggettivamente”.
Tralascio il resto, secondario e non essenziale. Il mio defunto amico Georges Labica,
maestro amato e amico fraterno, ha dedicato un commento analitico alla Tesi su Feuerbach che
varrebbe la pena di riprendere, ma che qui non posso fare per ragioni di spazio. Se lo facessi,
emergerebbe la nota interpretazione del marxismo come “filosofia della prassi”, inaugurata in
Italia dal libro di Giovanni Gentile del 1899 sulla Filosofia di Marx (libro che a suo tempo
Lenin apprezzò nella traduzione francese, fino al punto di consigliare alla sorella di tradurlo in
russo), il cui modello fu poi sostanzialmente ripreso da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del
carcere, ottimamente commentati in lingua francese da André Tosel.
E tuttavia, io ne darò subito una mia interpretazione, teoretica e non citatologica.
10. Prima di tutto, un doveroso atto brechtiano di straniamento. La prima tesi su Feuerbach
di Marx si basa su due pittoreschi equivoci di Marx. Non bisogna infatti pensare che Marx
fosse un figlio di Dio che non sbagliasse mai. Marx commise alcuni sbagli, ad esempio,
nell’interpetare Hegel, e solo recentemente la caduta della Santa Inquisizione del comunismo
statale e partitico ha permesso di cominciare cautamente a dirlo (cfr. Roberto Fineschi. Marx e
Hegel, Carrocci, Roma 2006).
E’ evidente che qui Marx cerca di fondare una filosofia della prassi, che espliciterà
nell’ultima, l’undicesima delle tesi su Feuerbach, e cioè: “I filosofi hanno soltanto interpretato
il mondo in modi diversi. Si tratta di trasformarlo”. È interessante che Engels nel 1888 ci abbia
interpolato, inventandoselo, un aber inesistente nel testo originale, per cui la frase suona così:
“I filosofi hanno finora interpretato il mondo in modi diversi. Si tratta invece di trasformarlo”.
Engels ha messo la pargoletta “invece” (aber) in perfetta buona fede. Ma per un secolo gli
idioti incurabili travestiti “da veri marxisti” hanno portato avanti la demenziale concezione
attivistica che contrapponeva l’interpretazione alla trasformazione, come se si potesse
trasformare qualcosa senza averlo prima correttamente interpretato. Si tratta di una patologia
chiamata “dromomania”, tipica di coloro che non riescono mai a stare fermi, e si agitano in
continuazione. Gran parte della storia del marxismo è una storia di dromomania isterica. Ma
passiamo al commento della prima delle Tesi su Feuerbach.
In proposito, c’è da dire che vi sono subito due veri e propri errori da rilevare.
In primo luogo, non è affatto vero che il materialismo di Feuerbach sia inscrivibile nei
materialismi contemplativi, che considerano la realtà in termini astratti di oggetto (Object), e
non di ostacolo che sta davanti alla nostra prassi (Gegenstand). Non è affatto vero che
Feuerbach non concepisca la realtà come attività umana, sensibile e come prassi soggettiva. È
esattamente il contrario. Feuerbach concepisce la prassi umana come vettore umanistico
fondamentale della disalienazione dell’uomo, il solo modo di rimettere sui piedi la teologia,
che non è altro che antropologia poggiante sulla testa. L’ingenerosità di Marx rispetto a
Feuerbach è clamorosa, anche se comprensibile per un non ancora trentenne che deve
effettuare la freudiana uccisione del padre (anzi, dei due padri: Hegel e Feuerbach).
In secondo luogo (e qui siamo ai vertici di un teatro filosofico dell’assurdo), Marx rileva
che “il lato attivo è stato quindi trattato astrattamente dall’idealismo, che naturalmente non
conosce l’attività reale, sensibile come tale”.
Che l’idealismo, inaugurato nel 1794 da Fichte (cfr. La Dottrina della Scienza) tratti
astrattamente il lato attivo, e naturalmente non conosca l’attività reale e sensibile come tale, è
una pura invenzione polemica del giovane Marx. L’Io di Fiche, che è una metafora filosofica
unificata in modo concettuale unitario trascendentale-riflessivo dell’intera umanità, pensata
come vettore dinamico trasformativo del Non-Io, e cioè dei continui ostacoli che l’umanità si
trova davanti come ostacolo (Gegenstand) alla sua incessante attività migliorativa, è
esattamente quello che Marx considera necessario per passare dall’interpretazione del mondo
alla sua trasformazione. E ne risulta un simpatico paradosso, per cui il materialismo che Marx
ricerca esisteva già da mezzo secolo (1794-1844), ed era appunto l’idealismo di Fiche.
11. Bertold Brecht, in Dialoghi di Profughi, sostiene che chi è privo di senso
dell’umorismo non deve occuparsi di filosofia. Brecht interpreta infatti la dialettica hegeliana
come la manifestazione filosofica del senso dell’umorismo, nella forma dell’identità degli
opposti e della continua trasformazione di un opposto nell’altro e viceversa.
Nell’essenziale, Brecht ha ragione. Ed è infatti un punto altissimo della storia del teatro
dell’assurdo il fatto che Marx creda di aver scoperto nel 1845 una cosa già ampiamente
scoperta da Fiche nel 1794, e chiami “materialismo” niente meno che il modello classico
dell’idealismo, credendo evidentemente che il “materialismo” consistesse nel non credere in
Dio oppure nel primato della struttura sulla sovrastruttura. In questo modo, sotto il nome di
“materialismo”, usato in senso puramente metaforico, vengono semplicemente interpolati
l’ateismo e lo strutturalismo sotto altro nome.
Ma qui non solo non si finisce, ma si comincia soltanto.
12. Semplificando brutalmente, ma nello stesso tempo non scusandomi affatto di questa
semplificazione, ma anzi rivendicandola con il legittimo orgoglio dell’innovatore, penso che la
storia logica del marxismo (la storia logica, non l’effettiva storia “storica”) può essere
compendiata in modo dialettico in tre momenti. Dicendo “dialettica” intendo la sola dialettica
moderna che esiste, la dialettica triadica di Hegel, perché non ne esistono altre. Per farla breve,
la cosiddetta “dialettica negativa” di Adorno non è a mio avviso una vera dialettica, ma
semplicemente una russoviana “furia del dileguare”, che non si determina mai sostanzialmente
e temporalmente, e pertanto, non determinandosi mai spazialmente e temporalmente, non è una
vera dialettica, perché la dialettica deve sempre determinarsi in un finito spazio-temporale, che
essendo una determinazione finita, come tutte le determinazioni rimanda oltre se stessa, e per
questo è propriamente “dialettica” (cfr. Ferdinando Vidoni, Dialettiche nel pensiero
contemporaneo, Canova, Treviso 1996).
Ci fu una dialettica antica (Platone). Ma la dialettica moderna, costruita su base storica e
non geometrico-pitagorica da Hegel, è triadica, del resto lo è la Trinità Cristiana, che
filosoficamente rappresenta la fine del pensiero antico e la nascita del pensiero “moderno”, in
senso ovviamente figurato e traslato.
Per farla corta, si può interpretare la dialettica triadica di Hegel nel modo che si vuole,
come tesi-antitesi-sintesi, oppure come momento astratto-dialettico-speculativo, oppure ancora
come logica dell’essere-dell’essenza-del concetto.
Fate come più vi piace, purchè capiate la logica dialettica di questa esposizione dialettica
triadica della storia logico-trascendentale del pensiero di Marx.
13. Ho affermato nel precedente paragrafo che l’unica dialettica moderna è triadica, e solo
triadica, intesa come secolarizzazione razionale idealistica della precedente Trinità Cristiana, il
che presuppone la comprensione, difficile ma necessaria, del fatto che a differenza degli ebrei e
dei musulmani, che credono in Dio, i cristiani non credono propriamente in Dio (come ripetono
in coro gli sciocchi e i disinformati) ma nella Trinità, che è cosa ben diversa. Da ciò dipende il
riconoscimento del carattere conoscitivo della religione nella forma della rappresentazione
(Vorstellung), negata da tutti i confusionari positivisti, empiristi, laicisti, atei di vario tipo. Ma
passiamo oltre, o come disse il patriota risorgimentale condannato alla fucilazione, tiremm
innanz. Fedele al metodo triadico, esporrò la storia logica del progetto di Marx in tre momenti,
A, B e C.
(A) Nel suo primo momento, il pensiero di Marx si manifesta nella forma di una filosofia
della prassi, o più esattamente nella forma di una filosofia dell’unità di teoria e di prassi, e cioè
di un idealismo di tipo fichtiano che si crede un materialismo. Si tratta del giovane Marx dal
1841 al 1848 circa. Nel novecento, questa forma di filosofia della prassi integrale è
relativamente rara, e si trova quasi soltanto nell’italiano Antonio Gramsci e nel tedesco Karl
Korsch (prescindo qui dalle significative differenze fra i due). A mio avviso, Georges Labica
può essere definito un esponente tardo-novecentesco di questa linea di pensiero, e questo
spiega la sua valorizzazione di Antonio Labriola (come ha sostenuto André Tosel in un suo
commosso necrologio).
(B) E tuttavia, ben presto questa versione della filosofia della prassi viene investita dal
positivismo, e dalla sua preponderante influenza. A partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento
l’oggetto, che prima era un Gegenstand, diventa a tutti gli effetti un Object, nella fattispecie il
modo di produzione capitalistico inteso come oggetto conoscitivo “neutrale”, e cioè oggetto di
scienza positivistica, sia pure riverniciata apparentemente di innocua “dialettica”. La scienza
positivistica, come è noto, è ricavata interamente dal modello delle scienze naturali, e questo
spiega il dominio del concetto di “legge scientifica”, del tutto incompatibile con una filosofia
della prassi. Il primo esponente di questa tendenza è il secondo Marx (1850-1883), seguito da
Engels, passando per il materialismo dialettico e per il marxismo detto “ufficiale” (ma
condiviso filosoficamente anche da tutti gli eretici, da Rosa Luxemburg ad Amedeo Bordiga a
Leone Trotzkj), e terminando nei fanatici della scienza marxista senza basi filosofiche
(Galvano Della Volpe, Louis Althusser, Gianfranco La Grassa). È proprio questa tendenza che
oggi sembra entrata in crisi teorica profonda (apologia della aleatorietà, potere costituente delle
moltitudini, comunismo come felicità di bambini, come caduta di un meteorite e come
credenza in Dio, eccetera). Purtroppo, e sono moderatamente pessimista, il suo potere inerziale
ha ancora davanti a sé molti decenni.
(C) La sintesi di filosofia soggettivistica della prassi e di filosofia oggettivistica della
(presunta ed inesistente) scienza è a mio avviso una ontologia dell’essere sociale, di cui la
formulazione di Lukács non deve essere intesa come definitiva, ma come iniziale e provvisoria.
Tuttavia, è un primo punto di partenza. È del tutto normale che oggi essa sia dimenticata, in
un’epoca di pentimento, rimozione moralistica del novecento inteso come secolo delle utopie
totalitarie e delle ideologie assassine, apologia del frammento, postmoderno, relativismo e
nichilismo debole e tranquillizzante.
L’ontologia dell’essere sociale, così come ce l’ha trasmesso in eredità l’ultimo Lukács, è
insufficiente. Ma è un primo passo, degno di essere elaborato e migliorato. In ogni caso, solo
su questa via possono essere superati (nel senso della Aufhebung), il superamentoconservazione
di Hegel) il momento della prassi e il momento della infondata illusione
positivistica del marxismo come scienza.
L’illusione positivistica della trasformazione del marxismo in scienza positivo-predittiva su
base deterministica e necessaristica, proprio perché infondata ed illusoria, deve alla lunga
trasformarsi dialetticamente nel suo contrario, e cioè in apologia dell’aleatorio, della
separazione fra concetto scientifico di capitalismo e come fede e speranza nell’esistenza di
Dio.
Occupiamocene brevemente.
14. La conclusione del primo periodo del pensiero marxiano come idealismo dell’unità
teoria-prassi con primato della prassi sulla teoria, idealismo che si credeva soggettivamente
materialismo (il che mi ricorda un libro per bambini di una gabbanella che si credeva un gatto),
può essere situato nel biennio 1848-1849 e nella sconfitta del ciclo rivoluzionario in Europa.
Non si ha a che fare quindi con un “cambiamento nel programma di ricerca di Marx”, per usare
il gergo epistemologico dei professori universitari. Si trattò di un passo obbligato. La
rivoluzione “pratica” si allontanava, il Gegenstand si rivelava più “duro” di quanto si era
precedentemente pensato, ed era giunto il momento di cominciare a pensare il capitalismo
come Object e non più come Gegenstand.
Era arrivato il momento dell’elaborazione di quell’oggetto del pensiero chiamato “modo di
produzione capitalistico” che la scuola di Althusser e di La Grassa mise poi al centro della
considerazione “scientifica” del presente storico. Le tesi teoriche contro l’umanesimo e contro
la categoria di alienazione non erano assolutamente necessarie per l’enfatizzazione della
centralità della categoria di modo di produzione, e si spiegano soltanto all’interno della
congiuntura ideologica francese del dodicennio 1956-1968, e della lotta settaria di Althusser
contro Garaudy, Sève e Sartre. Il fatto che GLG abbia prolungato questo scenario conflittuale
per quasi mezzo secolo è soltanto un epifenomeno di settarismo veneto-trevigiano. Non ce ne
sarebbe stato nessun bisogno. Si può tranquillamente sottolineare la centralità della categoria di
modo di produzione senza continue e reiterate grida d’odio per la filosofia e l’umanesimo. Ma
questo consiglia l’apertura di una parentesi.
15. E’ il marxismo un “umanesimo”? Domanda inutile ed insensata. Volendone però dare
una risposta, essa è elementare, e richiede di contare fino a due.
Dal punto di vista del modello epistemologico di spiegazione dei fatti sociali e del loro
rapporto reciproco, il marxismo non è un umanesimo, ma è uno strutturalismo. Esso non trova
il suo fondamento teorico nel concetto filosofico di Uomo (con la maiuscola), ma nel concetto
di modo di produzione sociale, che a sua volta esiste soltanto nella connessione dialettica di tre
componenti interconnesse (sviluppo delle forze produttive sociali, rapporti sociali di
produzione, formazioni ideologiche di legittimazione del potere e/o strategie di opposizione ad
esso). Si tratta di una assoluta ovvietà.
Invece, dal punto di vista della fondazione filosofica della legittimità della critica al
capitalismo, il marxismo è un umanesimo integrale, perché l’Uomo (metafora dell’intera
umanità pensata come un solo concetto unitario di tipo trascendentale-riflessivo) è il solo
Soggetto capace di progettare in modo collettivo e comunitario il superamento del modo di
produzione capitalistico, o di un altro modo di produzione classista. Nessun altro “soggetto” ne
può essere capace (provvidenza divina, sviluppo della tecnologia, automatismi dell’economia,
crollo e crisi ciclica della produzione, eccetera).
Il problema è di facilissima soluzione. Non lo è, però, per i rabbiosi odiatori della filosofia
come sapere fondazionale, che accettano la filosofia a malincuore soltanto come chiarimento
epistemologico e gnoseologico della scienza della natura concepita come unica ideazione
conoscitiva legittima del mondo. Si innesta però così la catena distruttiva ed autodistruttiva del
materialismo dialettico (Stalin), del galileismo morale (Della Volpe), della teoria degli insiemi
teorici (Althusser), e di tutte le altre numerose varianti dell’illusione utopica della fondazione
scientifica della deduzione del comunismo direttamente dalle “leggi naturali” di tendenza della
produzione capitalistica interamente desoggettivizzata ed oggettivizzata.
Alla fine di questo percorso utopico-scientifico ci stanno i bambini comunisti che giocano
trafelati e felici, i meteoriti aleatori che cadono sulla terra, la credenza in Dio, e altre consimili
bizzarrie.
16. C’è un paradosso nella storia del marxismo, di cui bisogna impadronirsi razionalmente.
Se lo si fa, si aprono le vie per una soluzione nuova del problema della comprensione delle
ragioni dell’anticapitalismo. L’anticapitalismo, infatti, è molto spesso un atteggiamento
legittimo e razionale, che viene sostenuto e difeso in base a vere e proprie sciocchezze
estremistiche che allontanano tutte le persone normali, e trattengono soltanto sciocchi, fanatici
ed illusi.
Tutti i marxisti che hanno smentito con la loro azione l’inutile modello scientifico del
passaggio automatico interno dal capitalismo al comunismo, dal Lenin 1917 allo Stalin 1929,
dal Mao Tse Tung 1949 al Fidel Castro 1959, eccetera, hanno sistematicamente mantenuto nei
loro apparati partitici, ideologici, scolastici ed universitari la sciocchezza positivistica
dell’evolvere fatale del capitalismo in comunismo sulla base della “necessità dei processi di
storia naturale”. Perché?
Difficile spiegare il perché delle idiozie. Ma ci aiuta forse l’analogia con la religione. La
religione, frutto legittimo del pensiero umano (del tutto indipendentemente dal fatto
contingente che il singolo ci creda oppure non ci creda), che non si estinguerà mai con la
divulgazione astrofisica e darwiniana, ed è un bene che non si estingua, adempie a funzioni
strutturali per la riproduzione sociale, come la risposta al senso della vita individuale di
persone particolarmente sensibili, e più ancora come la stabilizzazione “metafisica” dell’etica
comunitaria della solidarietà e del mutuo soccorso. E tuttavia, questa funzione razionale deve
essere necessariamente supportata da fatti incredibili come il sangue di San Gennaro, le
pastorelle a Lourdes ed a Fatima che vedono la Madonna che gli parla in dialetto guascone ed
in portoghese, eccetera. In teoria, si potrebbe avere solo l’elemento razionale della solidarietà
comunitaria senza necessariamente avere anche i miracoli del tutto incredibili. In pratica non è
così. Chi vuole l’elemento razionale deve prendersi anche l’elemento miracolistico.
Qualcosa di simile è successo anche per il comunismo. In teoria, non ci sarebbe nessun
bisogno dell’elemento della religione positivistica, e cioè lo stupido scientismo che pretende di
ricavare il “crollo” del capitalismo dall’automovimento interno dell’economia feticizzata. Le
ragioni per opporsi al capitalismo ci sono comunque, e sono abbondanti. Evidentemente, c’è
una percentuale di cretini che deve poter credere che il socialismo si fonda su di una “scienza”.
I teorici positivisti poi si azzufferanno – come fanno regolarmente tutti i teologi – se questo
modello di scienza dovrà essere galileiano, newtoniano, positivistico puro, ricavato dalla crisi
primonovecentesca delle scienze, maxweberiano, eccetera.
17. Mentre il vecchio Karl Marx (1818-1883) non coerentizzò e sistematizzò mai il suo
modello teorico (e di lì nasce la legittimità di tutte le diverse interpretazioni successive), il
codice marxista sistematizzato in dottrina coerente fu messo in piedi congiuntamente da Engels
e Kautskj nel ventennio 1875-1895.
Questo ventennio corrisponde esattamente alla grande Depressione (1873-1896) in Europa.
Si trattò di uno dei periodi più controrivoluzionari dell’intera storia europea. Colonialismo,
imperialismo, razzismo, antisemitismo, eccetera. Il “marxismo” è figlio della controrivoluzione
che seguì al macello della Comune di Parigi (1871).
Questo spiega il perché, in presenza di una controrivoluzione in atto, il codice marxista si
sia rifugiato per compensazione in un modello positivistico di rivoluzione in potenza. Qui ci
vorrebbe Freud, ma il vecchio Sigmund è poco evocato dai marxisti, che temono che il suo
sguardo possa affondare nella loro nevrosi e nelle loro psicosi. Il solo pensatore anticapitalista
rilevante del periodo 1889-1914 che abbia saputo rifiutare radicalmente il codice positivistico è
stato Georges Sorel, l’unico vero e proprio esponente della filosofia della prassi del Marx
1841-1848, ed infatti non è un caso che sia stato emarginato e respinto dal movimento operaio
organizzato. Ma Sorel non era un “irrazionalista”. Semplicemente, il suo concetto di scienza, di
cui non era affatto sprovvisto (era un ingegnere in pensione perfettamente informato sulla
scienza del suo tempo), era derivato da Bergson (scienziato di formazione anche lui), e non dal
modello deterministico e meccanicistico del positivismo universitario tedesco. Questo
“marxismo” (Erich Matthias, Kautskj e il kautskismo, De Donato, Bari 1971) era soltanto il
rovescio ideologico di una pratica politica e sindacale opportunistica della socialdemocrazia
tedesca. La sconfitta di Sorel è in proposito assolutamente indicativa. Il fatto che Sorel se la
prendesse molto di più con la mefitica casta degli “intellettuali”, piuttosto che con i semplici
lavoratori, dimostra che egli aveva saputo individuare il nocciolo della questione. Il pesce
comincia sempre a puzzare dalla testa. Negli stessi anni, Robert Michels giungeva più o meno
alle stesse conclusioni.
18. Bisogna quindi cambiare radicalmente strada. La tentazione scientistica è una illusione.
Chi la persegue, magari in buona fede e con sincera convinzione, finirà con il creare il
dualismo irrisolvibile fra la scienza del modo di produzione capitalistico e la religione del
comunismo, con tutti i suoi derivati (bambini felici che giocano al pallone, anarchismo sociale
delle moltitudini, caduta delle meteoriti, fede in Dio e ricerca di senso della vita, eccetera).
Bisogna, ovviamente, rilegittimare la vecchia definizione del comunismo di Marx in
termini di libera associazione dei produttori, in cui la “produzione” non è soltanto tessile,
metallurgica o nucleare, ma è altrettanto “produzione” di ricerca scientifica, di arte, di religione
e di filosofia. La parola “produzione” è ottima, perché senza produzione di beni e di servizi la
specie umana non potrebbe neppure “riprodursi”. Ma la libera associazione dei produttori è
possibile soltanto all’interno di una comunità dei produttori, ed a mio avviso la comunità dei
produttori presuppone il mantenimento sia della famiglia sia dello stato nazionale, con tutte le
garanzie alle minoranze che si possono concepire.
Qui però si aprirebbe una serie di problemi che non si possono discutere in questa sede. A
suo tempo Franco Fortini usò la metafora dell’apertura della “catena dei perché”. Ed in effetti,
se si apre la catena dei perché, essa non può essere arrestata a comando, e procederà fino a che
non si sarà arrivati all’ultimo anello della catena dei perché stessa. E l’ultimo anello è sempre
provvisorio nello spazio e nel tempo, e corrisponde esattamente a quella che Hegel chiamava
“determinazione” (Bestimmung).
L’eredità di Marx è al di là dell’opposizione astratta fra idealismo e materialismo. L’eredità
di Marx è umanistica. L’eredità di Marx è filosofica. L’eredità di Marx è comunitaria, ivi
compresa la comunità nazionale. Chi vuol prendere la strada del meteorite la prenda pure.
Ma senza di noi.