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Danilo Dolci… o dell’eterna ricerca della fraternità

di Susanna Dolci - 19/03/2009

con intervista a Giuseppe Barone
e nota di Carlo Infante

«…Le nuvole le ho viste. Ma non so cosa sono. Vanno quando c’è il vento. Siamo al mondo perché ci abbiamo la casa e lavoriamo. Si mangia. Siamo al mondo per lavorare. Per mangiare. Per lavorare. Io niente so. L’uomo invecchisce, tutto invecchisce, cristiani e animali. Il sole non invecchia mai».

Danilo Dolci

danilo_dolci_fondo magazineSono stati da poco ripubblicati di Danilo Dolci [nella foto] i Racconti siciliani (Sellerio editore, Palermo). Una vera pietra miliare dell’editoria italiana del secondo Novecento. L’ufficio stampa della famosa casa editrice meridionale così lucidamente presenta il volume al pubblico di oggi e a quello di ieri, aprendo con le stesse parole dell’autore:   «’Questo libro comprende alcuni racconti più significativi che ho raccolto dal 1952 al 1960 tra la povera gente di quella parte della Sicilia in cui operiamo. Ho scelto i meglio leggibili badando a non sforbiciare liricizzando, temendo soprattutto che la scoperta critica, il fondo delle reazioni di chi legge, rischino di dissolversi in godimento estetico: tanto sono espressive, belle direi, alcune di queste voci’. Forse è tempo di una renaissance di Danilo Dolci, della sua lezione di metodo, dopo la clamorosa attenzione risvegliata nei suoi contemporanei e la parziale dimenticanza degli ultimi anni. Fu infatti, per la questione sociale in Italia, un uomo di svolta epocale, un Gandhi italiano, essendo riuscito a inserire tra l’indifferenza delle classi dirigenti e l’economicismo prevalente delle lotte sindacali, il cuneo della denuncia pacifista, fatta di resistenza passiva, di pratica dell’obiettivo, di scioperi alla rovescia, di digiuni collettivi, di fusione dei diritti sociali nei diritti umani. Un acuto pungolo che spinse i migliori intellettuali italiani e gran parte del giornalismo a guardare finalmente al mondo degli ultimi, e costrinse l’opinione pubblica delle classi dirigenti a prenderne atto. Partiva dal presupposto, arduo allora come oggi, che per conoscere i poveri bisognasse vivere come loro, condividerne i bisogni materiali e la condizione spirituale; e che per far conoscere i poveri bisognasse render loro la voce. Era ciò che chiamava «l’inchiesta»: la bocca dei piccoli che parla. E fece scoprire, come spiegava Carlo Levi nel brano riportato a introduzione del volume, «la forza dei piccoli: l’immensa energia che si libera nel momento stesso in cui l’esistenza si realizza per la prima volta e prende, per la prima volta, coscienza di sé». Sono «inchiesta» questi racconti. Voci, vite vissute. Esse coprono tutto il ventaglio della stratificazione sociale della Sicilia arretrata di allora, dal cacciatore raccoglitore di conigli anguille e verdure, all’ultima principessa; e ci giungono in prima persona con effetto straniante dall’estremo lembo di un interminabile feudalesimo sul punto di fuoriuscire dalla storia. Documento di un passato prossimo inverosimile. Ma offrono anche il piacere letterario dell’opera di un poeta, quale Dolci era, che, per quanto tema lo smarrimento del lettore «in godimento estetico», non riesce a non soffermarsi beatamente nell’incanto di personaggi che sanno rappresentare il dolore di storie vissute in sogni magnifici di armonia con il tutto». Tengo il libro sulla scrivania, accanto ad un altro testo del famoso “gigante buono”, Poema umano (Einaudi, 1974). Cesare Zavattini disse di lui: «La poesia è in atto già nei fatti e nella vita di Danilo. È il solo della nostra generazione che ha saputo ridurre al minimo la terra di nessuno esistente tra la vita e la letteratura». Ed ancora Giancarlo Vigorelli: «La poesia di Dolci è destinata a fare data nella storia del nostro tempo. È anche un indizio che tante false carte letterarie e politiche sono da bruciare, sono già cenere». Di sé e del suo scrivere così, sempre nel 1974, Danilo si definiva: «… Ma ho lasciato della crusca: non mi piace il pane troppo raffinato». E già le condizioni troppo comode non erano per lui, non lo furono mai. L’omone di quasi un metro e novanta, poeta, sociologo, attivista della nonviolenza italiano, antifascista, ed altro ancora amava quello che mai nessuno altro avrebbe amato. Le situazioni oltre il limite del limite, le denunce, i guai con la giustizia e l’arresto nel 1956. Di sua espressione e difesa la povertà, il dolore, la rabbia, la mancanza di lavoro, di case, d’istruzione, di cibo di e per tanta povera gente. In un paese, l’Italia, ricco e povero come sempre lo è stato e come sempre lo sarà. Giuseppe Barone, suo biografo ufficiale, a chiusura del volume, nel suo saggio “Gli industriali e i banditi di Danilo Dolci” così riporta dell’uomo Dolci: «Se ora mi guardo indietro e mi rivedo iniziare i primi passi, ignorante di lavoro sociale, ignorando tutto della zona dove mi sembrava necessario operare, penso come è stato bene obbedire al bisogno che avevo dentro… Quanti errori sono occorsi per apprendere qualcosa - nei rapporti con le persone, con i gruppi, con le moltitudini -; quante lacune si sono superate lavorando; quanti rimorsi occorrono per sbagliare di meno. A poco si è riusciti? Avrei potuto fare di più, avremmo potuto fare meglio? Sono contento di non aver ricevuto da questo Stato, in tanti anni di lavoro, che il mangiare gratuito per due mesi: quando mi hanno buttato in galera. Sono lieto di aver collaborato con centinaia e centinaia di persone attivamente coraggiose che non si stupiscono di nulla, che hanno gli occhi aperti su tutti i connubi e le corruzioni pubbliche». Il resto lo lasciamo dire proprio a lui, Giuseppe Barone, ed a seguire a Carlo Infante che ha raccolto una viva testimonianza del periodo e dell’illustre qui personaggio.

Come prima cosa le chiederei una sua scheda personale e come si articola la sua conoscenza con Danilo ed il suo essere, alfine, il suo biografo

Ho conosciuto Danilo Dolci nel 1985: ero un giovane studente presso il Liceo Scientifico di Agropoli, località in provincia di Salerno. Danilo era stato invitato a tenere un seminario di tre giorni sulla poesia. Fu un’esperienza straordinaria: non solo fui colpito dalla profondità del suo pensiero, ma trovai davvero rivoluzionario il suo metodo di lavoro: porre domande, lasciare tempo alla riflessione individuale, l’ascolto e la profonda attenzione dedicati a ciascuno, la valorizzazione della creatività individuale e di gruppo, la pratica di una effettiva comunicazione. Insomma, quella che lui chiamava “struttura maieutica reciproca”. A partire da quel primo incontro ho tentato di approfondirne sempre di più la conoscenza, attraverso la lettura delle opere, ma soprattutto con incontri personali e la partecipazione diretta alla sua attività. Dopo la scomparsa di Danilo, il 30 dicembre 1997, con tanti altri suoi amici e collaboratori, ci siamo posti il problema di non far disperdere un’eredità tanto preziosa. Da questa spinta, credo, sia nata l’esigenza di dare un contributo con i libri che ho dedicato in questi anni all’opera di Danilo, e con le numerose iniziative che ho contribuito a organizzare.

racconi siciliani_fondo magazineChi era Danilo Dolci? Sociologo, poeta, attivista della nonviolenza, antifascista. Azione sociale ed azione politica. Altro?

Questa domanda coglie con esattezza la difficoltà di “apporre un’etichetta” all’opera di Danilo Dolci, di incasellarla, rinchiuderla in una definizione univoca, che escluda tutto il resto. Danilo era convinto che una cultura, un sapere organizzato con una logica da “compartimenti stagni” fosse riduttivo e anche pericoloso. Non rifiutava, ovviamente, il contributo degli specialisti (che anzi ricercava sempre), ma era persuaso che le soluzioni migliori a ogni problema non potessero che scaturire dal dialogo di competenze diverse. Era un costruttore di ponti. In questa apparente difficoltà a rinchiuderlo in una definizione, nella sua complessità, io individuo la sua peculiarità e la grande forza che scaturisce dalla sua esperienza e dalla sua opera.

Egli aderì a Nomadelfia di Don Zeno Saltini. Ce ne vuole parlare?

L’esigenza, intimamente avvertita, di scegliere un percorso che coniugasse teoria e prassi, condusse Danilo a Nomadelfia, “la città dove la fraternità è legge”, fondata nell’ex campo di concentramento di Fossoli, presso Modena, dal sacerdote “eretico” (fu sospeso a-divinis) don Zeno Saltini: si trattava di una comunità, modellata sull’esempio dei primi gruppi cristiani, dove ciascuno era impegnato particolarmente all’accoglienza degli ultimi, dei più poveri e disperati e dove non esisteva la proprietà privata. Danilo rimase a Nomadelfia, dove fu uno dei principali collaboratori di don Zeno, per quasi due anni, tra il 1950 e la fine del 1951. Poi sentì che quell’esperienza, pure preziosa, rischiava di evolvere in una dimensione di autocompiacimento, avvertì il bisogno di operare non in una sorta di “arca” fuori dal mondo, ma nel mondo. Da questo la scelta, nel febbraio del ‘52 di trasferirsi a Trappeto.

Poi in Sicilia come “Il Gandhi di Partitico”? Scioperi, sempre nonviolenza, denuncia dello stato mafioso

È impossibile racchiudere in poche righe la quantità (e la qualità) delle attività condotte, fino alla sua scomparsa, nella Sicilia occidentale e in tanti altri luoghi d’Italia e del mondo, da Danilo Dolci: piuttosto che sintetizzare troppo e banalizzare, preferisco rinviare quanti sono interessati, ai profili biografici più articolati disponibili sul suo percorso (tra altri, mi permetto di rinviare al mio Danilo Dolci. Una rivoluzione nonviolenta, edito da Terre di Mezzo/Altreconomia). È interessante, però, osservare come Danilo non avesse scelto la nonviolenza sulla scorta di letture o riflessioni mistiche: all’inizio della sua esperienza non conosceva gli scritti né di Gandhi, né di Capitini. Si tratta di un percorso di maturazione personale, che certo ha trovato in un tempo successivo importanti conferme, ma anche motivi di distinzione e di elaborazione autonoma, nel pensiero e nella pratica quotidiana. In questo senso le definizioni di “Gandhi di Sicilia” o di “Gandhi italiano”, che spesso sono state utilizzate, rischiano di essere fuorvianti e, in qualche misura, riduttive.

A livello nazionale ed internazionale, chi lo ha onorato e chi lo ha diffamato ovvero lo ha considerato come tra “le cause che maggiormente hanno contribuito a disonorare la Sicilia”?

È evidente che un’esperienza così dirompente, così innovativa come quella di Dolci non potesse che suscitare fenomeni di sostegno alla sua azione, ma anche di duro, violento contrasto. Se è vero che la denigrazione, le minacce, i tentativi di banalizzazione e deformazione della sua attività, hanno tracciato una costante di tutto il percorso di Danilo Dolci, è anche vero che la capacità di coinvolgimento popolare dell’opera di Danilo costituisce uno degli aspetti più straordinari della sua vicenda. Credo sia impossibile fornire un numero esatto delle persone - intellettuali e contadini, premi Nobel e pescatori - che negli anni lo hanno sostenuto e hanno direttamente partecipato al suo lavoro. Non credo vi siano esperienze paragonabili, almeno nella storia del Novecento in Occidente

Ci vuole parlare delle molteplici esperienze sul campo e dei metodi di azione ed agire di Danilo?

Come dicevo prima, è davvero difficile sintetizzare - senza banalizzare - un percorso tanto complesso e articolato in poche righe: la sua attività ha spaziato dall’impegno antimafia alla ricerca di uno sviluppo sostenibile, dall’azione in campo civile all’attività di scrittore e poeta, dall’indagine sociologica al lavoro educativo. Alcuni capitoli della sua storia rimangono come pietre miliari nella storia civile dell’Italia e nella storia della nonviolenza: il primo digiuno - sul letto di un bambino morto di fame - nell’ottobre del ‘52; lo “sciopero alla rovescia” del ‘56; le denunce - puntuali, documentate - della collusione tra politica e criminalità organizzata; la battaglia nonviolenta per la diga sul fiume Jato; la protesta di Radio Libera; la nascita del Centro educativo sperimentale di Mirto; il lavoro condotto, soprattutto negli ultimi anni, presso centinaia di scuole, università, organizzazioni, e molto altro ancora. Una caratteristica comune a tutte queste attività è di natura metodologica: Danilo era convinto che non si potesse imporre un cambiamento dall’alto, ma che fosse sempre necessario un coinvolgimento profondo e diretto delle persone interessate: non esiste una verità certa e immutabile da insegnare alla gente, ma ciascuno è portatore di un frammento di verità, che solo nel confronto e nell’incontro con l’altro può pervenire a una più esatta messa a fuoco. È questo metodo, prima chiamato “autoanalisi popolare”, divenuto poi “maieutica reciproca”, a caratterizzare e unificare tutte le innumerevoli iniziative condotte in circa cinquanta anni di attività.

Parliamo della sua famiglia, dei suoi figli

Ho la fortuna di conoscere personalmente (e di essere loro legato da profonda amicizia) tutti i figli di Danilo: Libera, Amico, Cielo, Chiara, Daniela, nati dal primo matrimonio con Vincenzina Mangano; e poi Sereno e En (in svedese significa “ginepro”, ma anche “integro”), nati dalla seconda moglie Elena Norman. Sono tutte persone splendide, straordinariamente profonde e intense, e ciascuna di loro - a parer mio - conserva e valorizza molti aspetti della personalità di Danilo. Sono tutti impegnati, con grande passione, intelligenza, energia - ciascuno con un proprio specifico contributo, da un proprio peculiare punto di vista - a dare un seguito allo straordinario lavoro avviato dal padre, e da tanti bravissimi collaboratori.

Cosa è rimasto di Danilo Dolci, nel tempo? Cosa ancora fortemente attuale ed ineguagliabile? La sua vera eredità?

È l’insieme dell’esperienza di Danilo a risultare oggi davvero unica e ineguagliabile. Le sue idee, invece, sono tutt’altro che invecchiate: risultano, anzi, oggi - paradossalmente - più attuali che non trenta, quaranta anni fa. Provo a elencarne alcune: la chiara opzione nonviolenta; la lotta antimafia connessa alla maturazione della società civile siciliana; la riflessione su “trasmissione” e “comunicazione”; la denuncia del fallimento della modernità e del rischio di involuzione democratica delle società contemporanee; la ricerca di strutture organizzative fondate sulla cooperazione e la partecipazione; la comprensione dell’urgenza, per la sopravvivenza del pianeta, di una profonda trasformazione dello sviluppo e delle strutture di relazione interpersonali. L’opera di Danilo Dolci non mi sembra tanto importante per quello che ci dice del nostro passato, ma per quello che può aiutarci a comprendere in relazione al nostro futuro.

Ci sono ancora persone e comunità che lo ricordano con profonde attestazioni di stima e rispetto?

Dopo una fase di scarsa attenzione, soprattutto negli anni immediatamente successivi alla sua morte, mi pare che si assista a un significativo, doveroso, ritorno di interesse per la sua opera. Se in alcuni ambiti (le associazioni nonviolente, gli esperti di educazione, etc.) non si è mai attenuata la memoria della sua esperienza, quello che mi sembra più significativo è che negli ultimi anni Danilo Dolci venga sempre più riscoperto, o scoperto da chi non lo conosceva. Lo testimoniano le decine di iniziative organizzate in Italia e nel mondo, le scuole o le associazione che hanno scelto di essere intitolate al suo nome, le richieste che sempre più frequentemente ci giungono. Spesso, quando ci accade di partecipare a incontri nelle scuole, capita di sentirsi chiedere da uno studente: “Perché fino a oggi mi è stato nascosto Danilo Dolci?”

Le sue opere, i suoi libri… ormai scomparsi nell’archivio dell’oblio?

Anche in relazione ai suoi scritti si assiste, in modo sempre più deciso, a quanto dicevo poc’anzi. Da alcuni anni compaiono sempre più frequenti saggi in libreria o su quotidiani o riviste. In particolare, mi limito a ricordare gli ultimi volumi pubblicati: le antologie Una rivoluzione nonviolenta (Terre di Mezzo/Altreconomia, Milano 2007) e Ciò che ho imparato e altri scritti (Mesogea, Messina 2008); il carteggio Capitini-Dolci (Lettere 1952-1968, Carocci, Roma 2008). Da poco, inoltre, l’editore Sellerio ha avviato la ristampa di alcuni dei più importanti libri di Dolci, assenti dagli scaffali delle librerie da alcuni decenni. Racconti siciliani è già disponibile da qualche mese (con uno scritto di Carlo Levi e una postfazione a mia firma), a breve sarà pubblicato Banditi a Partinico, con l’introduzione originale di Norberto Bobbio e una nota di Paolo Varvaro.

In questo presente ed anche in un futuro, c’è o ci sarà ancora qualcuno come lui?

Credo che difficilmente ci troveremo dinanzi a un nuovo Danilo Dolci. Ma ciò che conta è che sempre più persone individuano nella sua esperienza, nella sua opera un punto di riferimento essenziale. In questo senso non penso sia corretto parlare di “un” erede della sua testimonianza, ma di un lascito che in tanti - ciascuno in modo diverso, ciascuno con un proprio peculiare punto di vista - riconoscono e condividono. Mi permetto di concludere citando alcune parole che Eric Fromm pronunciò molti anni or sono, che nulla hanno perso della loro validità e attualità: “Se la maggioranza degli individui non fosse così cieca davanti alla vera grandezza, Dolci sarebbe ancora più noto di quello che è. È incoraggiante tuttavia il fatto che già molti sono coloro che lo capiscono: sono le persone per le quali la sua esistenza e il successo della sua opera alimentano la speranza nella sopravvivenza dell’uomo”.

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Danilo Dolci tale e quale
Il ricordo di un partinicense

di Carlo Infante

Giuseppe Patti, per gli amici Pino, è nato a Partinico (fra i principali Comuni della provincia palermitana) nel ‘56, rimanendovi sino al conseguimento della maturità alberghiera, quando fu costretto ad emigrare “sul continente”, per motivi lavorativi (come sarebbe emigrato il fratello minore, che vive in Francia). Dopo aver dimorato brevemente a Milano, Taranto e Brindisi, vive a Lecce da trentaquattro anni, dove è titolare di un bar.

Di Danilo Dolci («Un omone, alto due metri che girava su una Ford Taunus, tutta scassata, di colore verde antico» - come riferitoci dal dottor Giuseppe Barone, vicepresidente del Centro per lo Sviluppo Creativo “Danilo Dolci” con sede a Trappeto e suo biografo ufficiale - trattavasi di un’auto di seconda mano, regalatagli dai suoi seguaci. Era alto un metro e ottantasette) ricorda le battaglie, i comizi, le realizzazioni. In particolare le battaglie sindacali ed antimafiose, la costruzione della diga sul fiume Jato, le trasmissioni via etere «da una radio pirata» ed i suoi contatti con Peppino Impastato. Ed ancora, la realizzazione della Comunità Borgo di Dio (che mutuò il nome dall’omonimo quartiere di Trappeto, ad una decina di chilometri da Partinico) sorta nel ‘54 e sede dell’Università Popolare Internazionale. «Questo centro era frequentato anche da molti settentrionali e stranieri (ricordo particolarmente i tedeschi, che giravano con strane biciclette).

Durante la bella stagione i suoi seguaci si recavano presso la spiaggia di Ciammarita, frazione di Trappeto. Noi ragazzini (prevalentemente al tempo delle Medie Inferiori), di tanto in tanto, marinavamo la scuola per aggirarci intorno alla comunità o per recarci in spiaggia, dove parlavamo con loro. Erano solo le donne ad attrarci, vestite succintamente per l’epoca…». «A Partinico aveva due sedi, una nel quartiere Spinesante, l’altra in largo Scalia, da quest’ultima trasmetteva via radio». Dolci inaugurò la sede a Spinesante sul finire del ‘53, quella in largo Scalia nel ‘59 (grazie ai cospicui fondi derivatigli dal “Premio Lenin per la Pace”, conferitogli due anni prima), dove sorse il Centro Studi e Iniziative per la piena occupazione. Da qui trasmise, via etere e senza autorizzazione (per poco più di ventiquattro ore, tra il 25 ed il 26 marzo del ‘70), la denuncia in merito alla mancata ricostruzione a seguito del terribile terremoto del Belice. Ma un’irruzione delle forze dell’ordine, pose fine alla nuova forma di lotta. Ciò ebbe vasta eco, ben oltre i confini isolani. Radio Libera era il nome dell’emittente. L’attività riprese, questa volta a norma di legge, sul finire degli anni settanta, attraverso le frequenze di Radio Città Terrestre.

Ed ancora prosegue Patti: «I mafiosi ne sparlavano continuamente. “Chiddu è stravagante, è ‘na cosa inutile” era il ritornello. Mentre i poveracci lo stimavano, pur non potendolo, ovviamente, esternare. Ricordo che una volta, un suo seguace, un anziano bracciante a giornata - ricurvo dalle fatiche -, m’indicò uno dei maggiorenti (impettito ed elegantemente vestito) per il quale, saltuariamente, lavorava e mi sussurrò “U vidi quiddu? U pezzu ‘e curnutu, è nemico della carne umana!”». Per assurdo, il cardinale Ernesto Ruffini, Arcivescovo di Palermo, nella lettera pastorale “Il vero volto della Sicilia”, della domenica delle Palme del ‘64, indicò Dolci, insieme alla mafia ed al romanzo Il Gattopardo, come «le cause che maggiormente hanno contribuito a disonorare la Sicilia». Secondo il cardinale «dopo più di dieci anni di pseudoapostolato questa terra non può vantarsi di alcuna opera sociale di rilievo che sia da attribuirsi a lui». Mentre è a disperati come quello ricordato da Patti, oltre che a seguaci e figli (la trappetese Vincenzina Mangano gli diede Libera, Cielo, Amico, Chiara e Daniela. e la svedese Elena Norman Sereno ed En - che, in svedese, significa uno, integro e ginepro), che Dolci si rivolse ne Il limone lunare - probabilmente il suo libro più personale, edito dalla Laterza -, «Vi sono grato di non esservi vergognati di me quando mi eran contro quasi tutti».

Il Gandhi di Partinico, nato a Sesana, in provincia di Trieste (oggi in territorio sloveno), il 28 giugno del ‘24 (da Enrico, ferroviere, e Meli Kontely), si spense a Trappeto - dove era giunto nel ‘52 -, il 30 dicembre del ‘97. Un anno prima, quando contrasse il diabete, confidò a Sereno (attivista di Greenpeace) che «la rivoluzione si sarebbe risvegliata». Lui ci spera («picca a picca» - come affermava il padre -, «insieme si può»), ma vive in Svezia… Fra i suoi tanti slogan, ci piace ricordarne anche un altro:  ”CHI TACE E’ COMPLICE”. Nel 2007, l’Associazione “Amici di Danilo Dolci”, richiese al Comune di Trappeto che gli venisse intitolata una piazza: nessun riscontro. Urgerebbe almeno un gigante così per provincia, nell’Italia disperatissima di oggi, eccome se urgerebbe…

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