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Catlina

di Claudio Ughetto - 20/03/2009


A mia nonna
(sebbene in ritardo)

Sparavano da sopra, dal Truc. Dall’altra parte, sul Sangone, c’erano i cannoni puntati verso la borgata. Ci sparavano addosso, con la mitraglia, se solo provavamo a scappare nel bosco o nei prati. E poi c’era quello che girava per la borgata, col mitra spianato. Parlava italiano. “Tutti banditi. Tutti ribelli”, urlava. Chi coglieva coglieva: fuoco, brambrambram. E poi un colpo alla testa, tanto per essere sicuro. L’altro girava per la borgata con lui, delle volte lo lasciava solo. Come quando ha dato fuoco ai tetti delle case di fronte, col lanciafiamme.
Parlavano italiano quei due, non credere. Avevano mandato degli italiani ad ammazzarci. Quello che sparava, lo specialista, mi ha beccata dopo che avevo liberato le bestie dalla stalla. Dopo che l’avevo visto mitragliare la zia Celestina. Sai che specialista… è entrato in casa e le ha puntato in faccia il mitra, come un brigante, urlandole: “Dammi i soldi, tutto quello che hai!”. Lei s’è presa un colpo, è scappata fuori e lui ci ha messo niente a spararle alla schiena. Morta ammazzata. Era il primo morto ammazzato che vedevo, ma quel mattino n’avrei visti degli altri. Molti altri.
Non so come, ma quand’ho visto quel nazista andarsene neanche avesse ammazzato un cane, ho capito quello che stava per succedere. Avevo tuo padre e zio Aldo in braccio, ho capito che dovevo metterli al sicuro, prima che quelli tornassero. Di pietà, quelli, non n’avrebbero avuta. Ho nascosto i bambini nel prato, poi sono tornata indietro, sforzandomi di non sentire. Di non sentire i loro pianti alle mie spalle, né la mitraglia sul Truc, dove c’erano i nostri campi. Sembrava sparare al nulla. Soprattutto non volevo sentire il mitra dello specialista: quando crepitava, mi chiedevo chi dei miei parenti o tra quelli della borgata avrei dovuto piangere. Dopo, però. Adesso per piangere non c’era tempo. Ho visto l’altro nazista buttare nella stalla dei legni incendiati, là nel fieno, insieme alle mucche e al mulo. E c’era il cane, il nostro bassotto, che non voleva scappare. È entrato con me nella stalla a fuoco. Dentro non si resisteva. Il nazista già si era spostato sulle altre case, per bruciare l’intera borgata.
Ho fatto quel che potevo. Messo fuori le bestie impazzite, e non so come il mulo non mi abbia ammazzata a calci. Fuori. Le tre mucche volevano uscire dalla porta come una sola bestia, dopo il mulo che invece non si è guardato indietro. Ho sentito il cane che guaiva, ma era tardi: una palla di fuoco nel fieno che stava mangiandosi anche i muri. Sono uscita anch’io, ma non per scappare. A spegnere dovevo provarci, perché se lasciavo perdere non si sarebbe salvata neppure una casa. Ho aggirato la stalla e da dietro sono salita sulla volta, da dove potevo vedere le fiamme che salivano come dalla bocca dell’inferno. Non chiedermi come ci sono riuscita: sarà che le fiamme si stavano mangiando anche quello, ma dalla disperazione ci ho buttato sopra il tetto che a momenti si portava anche me, là dentro.
Mi è andata bene troppe volte, quel giorno, però quand’ero lì non me ne sono accorta. Ero troppo impegnata a spegnere, a tenermi in equilibrio su quelle travi. Pensavo a tuo padre, ad Aldo, al nonno che stava lavorando alla Polveriera e non sapeva che casa sua stava bruciando con quelle dei vicini. Dove avremmo dormito, quella notte, con la neve che era caduta in autunno, il freddo arrivato troppo in fretta? Quando il fuoco si è calmato ed ho capito che se la stalla era persa almeno avrei salvato le nostre case, non ho avuto il tempo di tirare il fiato. I due soldati stavano guardandomi da sotto, dal cortile, arrabbiatissimi, i denti digrignanti. Quello che ammazzava ha sparato verso di me, sopra la mia testa. Non voleva colpirmi, magari sperava di farmi cadere. L’altro aveva il lanciafiamme ed ha vomitato una fiammata contro il muro. Un alito cupo. “Scendi, donna, o ti uccido!”, ha urlato quello col mitra. Ho fatto finta di non sentirlo, aspettandomi la raffica che mi avrebbe mandato all’altro mondo. Il mitra ha sparato in aria,  mentre il lanciafiamme si avvicinava alla porta della stalla. “Scendi, amica dei banditi!”. Non riuscivo neanche a piangere, quand’ho risposto: “Non mi uccida, la prego. Ho un marito e due bambini. Io coi banditi non c’entro niente”. Quelli si sono fermati, e ancora adesso non ho capito che gli avesse preso. Inferocito, quello che sparava ha detto: “Adesso ce ne andiamo, ma se quando torniamo sei ancora lì, per te è per i tuoi bambini è finita”. 
Ne hanno ammazzati degli altri, prima di andarsene. Ma da me non sono tornati, anche se sono rimasta lì. A spegnere le ultime fiamme.

Nella vita abbiamo avuto tutti dei momenti fondamentali, di quelli che ci  tornano in mente negli anni più stanchi dell’esistenza, quando siamo sfiorati dal dubbio d’essere vissuti invano. Si tratta, spesso, d’immagini frammentarie, brevi sequenze che non ricordiamo bene, né giureremmo che  le cose sono andate davvero così. Può essere un viso sorridente che si è chinato su noi quand’eravamo bambini, oppure le nostre mani infantili che afferrano le sbarre di una ringhiera troppo alta - gli occhi serrati ma già determinati ad aprirsi sulla vertigine del terzo piano. Mi vedo spaventato, le gambe irrigidite e le mani appoggiate al centro del manubrio di una vecchia Vespa 50 che mia madre sta guidando. Stiamo davvero viaggiando, me davanti a lei, nell’aria estiva? Sta accelerando con me lì sopra, sospeso? Oppure il motore è spento, lei ed io a fare brum brum? Allora perché sono spaventato, sebbene entusiasta d’essere ritenuto abbastanza grande da salire con lei sulla sua Vespa?
Tanti momenti, importanti per me, ma niente di paragonabile a un momento fondante. Mi piace chiamare così uno di quei momenti che pochi hanno l’onore (o la sventura) di provare. Non è obbligatorio vivere a lungo per provarne uno, ma se lo proviamo da giovani ce lo porteremo addosso per tutto il resto della vita.  Mia nonna ha vissuto un momento del genere quand’era già adulta, molto prima che io nascessi. All’epoca aveva due figli ancora molto piccoli, mio padre e mio zio, che quel giorno rischiarono di morire in quel prato, dove li aveva nascosti per proteggerli. Invece, non s’accorsero di niente. Seppero anni dopo di quei nazisti italiani che la sorpresero sopra la stalla in fiamme. Credo l’abbia raccontato a loro come poi l’ha raccontato a me e ad altre persone. Per tutto il resto della sua lunga vita, mia nonna sarebbe tornata a quell’istante, sforzandosi di spiegare a se stessa e agli altri qualcosa che non è mai riuscita a comprendere.

Mia nonna Angiolina non era una dispensatrice d’aneddoti. Niente a che vedere con le candide nonnette dai capelli imbiancati e raccolti a crocchia, lo scialle sulle spalle, cullate dal dondolo mentre intrattengono i nipoti con fiabe e storie improbabili. Ho visto nonne del genere in qualche fiction Tv: forse non sedute sul dondolo, ma quasi un tutt’uno con la poltrona, il caminetto che s’intuisce nella stanza, riflesso dai loro occhiali ultraspessi. Nonne che non sembrano mai state donne, ozianti in case perfette e immutate, nelle quali gli oggetti si mettono a posto da soli, immuni dalla polvere. Qualcuna donna lo è stata, ma in un’altra epoca. Qualsiasi paragone tra ciò che ha vissuto lei e ciò che vivranno i suoi nipoti è del tutto incongruente, ci viene da pensare. Eppure eccola impartire consigli e saggezze a quei bambini. Loro raccolgono, traggono insegnamenti, salvo rimanerci male appena usciti di lì,  quando incontreranno un inferno del tutto diverso.
Mia nonna non dava consigli, raccontava quel momento fondante senza capire perché le fosse accaduto. Ero io a dargli un significato particolare, a dirmi che non sarei stato lì ad ascoltarla se il nazista avesse  mirato bene e poi fosse andato nel prato. Mia nonna non assomigliava affatto a una candida vecchietta, ma piuttosto a una zingara che è stata splendida in gioventù e che è invecchiata senza far nulla per ostacolare l’avanzata del tempo. Come una vecchia zingara ostentava ogni segno sul viso, proprio come a un guerriero piace ostentare le proprie cicatrici; raccoglieva i capelli grigiastri sotto un foulard arrotolato sulla testa a mo’ di bandana e sorrideva mostrando una rada dentatura, perché alla dentiera non si era mai abituata, pur tenendola immersa in qualche barattolo che aveva dimenticato in qualche buffet della sua caotica casa. È in quei buffet, nelle cassepanche e nei bureau ricoperti di cianfrusaglie fino allo specchio che ho trovato delle foto di quand’era giovane, da sola e insieme al nonno. Lui piccolo e affilato, il naso aquilino e gli occhi chiari sotto una zazzera di capelli ingestibili; lei perennemente in posa, il seno prominente sotto la giacchetta, la gonna lunga e piena di svolazzi zingareschi. Bellissima. Gli occhi grandi e scuri sotto i capelli ancora più scuri, il naso tondeggiante e aristocratico. Credo che mio nonno si  ritenesse fortunato, almeno allora. Sapeva già di aver sposato una donna particolare, l’esatto contrario della sposa ideale che una suocera di quei tempi avrebbe voluto per suo figlio? Benché i due si conoscessero fin da piccoli, quello non era certo un matrimonio combinato. D’altra parte, da ragazzi ci si può innamorare di una donna bellissima, corteggiarla per uscirci insieme, magari anche per vantarsene con gli amici. Sposarsela è diverso.

Angiolina ha sempre abitato il mondo dei sogni, da quand’è nata. Per  lungo tempo l’ho immaginata come una strega, un’abitante della notte che vagava per i boschi vedendo dove gli altri non vedono, tra stropicciarsi di foglie e rami che sembrava attraversare senza graffiarsi. D’inverno, quando il buio scende presto, mio nonno Valente la chiamava a cena dalla soglia di casa urlando Catlina verso i prati nebbiosi. Catlina è la morte, in piemontese, ma io a quei tempi non scorgevo in mia nonna quel lato oscuro che da qualche parte doveva avere. Solo chi non la conosceva avrebbe potuto spaventarsi, vedendola spuntare dall’erba brinata, come uno spettro, mentre trasportava sulle spalle un ceppo dalle forme antropomorfe o bestiali; oppure spingente una carretta carica di pietre destinate ad abbellire un giardino roccioso che sarebbe rimasto caotico, pieno di piante incurate e ibridate. Per salvarle da una morte precoce, mio padre e mio zio finivano per curarle al posto suo.
Forse era questo il suo lato oscuro, che si esprimeva nell’incapacità di dar forma all’idea di bellezza che aveva in testa. Raramente l’ho vista terminare ciò che metteva in atto: lasciava dietro di sé sculture immaginarie, di legno e di pietra, bambole recuperate chissà da dove, sedie pregiate che ammucchiava con del mobilio miserrimo. Non era il valore di un oggetto ad attrarla, ma se aveva o no una forma piacevole. La sua casa si riempiva di specchi, catini, pendole e lampadari, fotografie e ritratti di gente sconosciuta. Un guazzabuglio di rigatteria che mio nonno lanciava dalla finestra almeno un paio di volte l’anno, quando si sentiva sommergere dal caos. “Me o loro!” le intimava, come se quelle cianfrusaglie fossero vive. Chissà che non lo fossero state? Il dubbio mi veniva di tanto in tanto. Le immaginavo provenienti da un mondo parallelo, quello notturno che mia nonna amava frequentare perché la incuriosiva e non ne aveva paura, anche se era popolato da creature festanti che avrebbero spaventato chiunque. Loro la ospitavano, ma avrebbero preferito starsene lì, lontane dagli umani e dall’intollerabile luce diurna. Tornando a casa, Angiolina non poteva che portare con sé degli abbozzi irrigiditi, seminformi, conservanti però delle vaghe somiglianze con le creature che solo lei aveva visto.
Più in là nel tempo, quando mio nonno cominciò a invecchiare precocemente, devastato dal troppo fumo e dal troppo bere, toccò ai loro figli sbarazzare periodicamente la casa. Lo facevano a malincuore, e lei si sforzava di collaborare controvoglia, tampinandoli ad ogni carico, bestemmiando e lagnandosi, sottraendo degli oggetti dalla carretta che spingevano verso il fuoco che li avrebbe inceneriti. Ricordo lei piangente e balbettante, mio padre che si sforzava di spiegarle che era necessario, perché quella era una casa e non il negozio di un rigattiere. Credo che lui soffrisse quanto lei, frustrato da quella che doveva sembragli una violenza non gratuita, ma sicuramente inutile. Tanto, di lì a qualche mese, tutto sarebbe tornato come prima. Io e mio cugino Marco, invece, a quelle incursioni ci partecipavamo volentieri. Eravamo dei bambini, crudeli ed eccitati dal falò crescente e dalla montagna di rumenta – come in piemontese si chiamano le cianfrusaglie - che si smuoveva ad ogni nuovo lancio, le faville che capriolavano per poi sfogliare e scendere al rallentatore, annerite e sottili. A scuola l’insegnante ci raccontava della Notte dei lunghi coltelli, inducendoci all’indignazione. Come tutti mi commovevo vedendo Olocausto alla tele, intanto attendevo con impazienza che arrivasse il mio week-end fortunato: quello del pogrom casalingo, con me come aguzzino e mia nonna che si ribellava e mi riempiva d’insulti, inseguendomi col bastone.
Ancora non scorgevo il suo lato oscuro, né m’immaginavo la vita notturna di quei legni di cui il fuoco si stava divorando ogni morfologia. Alle fiabe, preferivo i giornalini dei supereroi. Non mi chiedevo come Spiderman avrebbe trattato uno come me, e zia May era una vecchietta finta, troppo ordinata e imbiancata per assomigliare a mia nonna che aveva superato i sessanta senza quasi un capello bianco. Gli X Men li avrei capiti più in là, nel momento in cui cominciavo ad accorgermi che lei era fin troppo simile a me. Chissà che non lo sapessi già prima? Chissà che non approfittassi di quella vampata pirotecnica per non vedere?

Lei aveva affrontato altre fiamme, ben più alte e voraci. Più che rabbia, un moccioso saltellante come me doveva farle pena. Ciò che era successo nella nostra borgata il 29 novembre 1944 l’aveva  già raccontato e me l’avrebbe raccontato meglio anni dopo, quand’ero più disposto ad ascoltarla. Era da quand’ero in grado di comprendere che mio padre ci tornava su alla sera, davanti alla tele, di fronte a quei documentari sulla Resistenza che poi inscenavo nei giochi con gli amici. Eravamo tutti partigiani, naturalmente, contro dei nazisti inesistenti che immaginavamo nascosti tra i boschi, nei vecchi fienili in cui forse erano davvero passati decenni prima.
Benché io e i miei amici fossimo cresciuti nel mito resistenziale, mia nonna non amava i partigiani. Li riteneva i responsabili morali di quella rappresaglia. “I tedeschi non avrebbero ammazzato nessuno se non avessero pensato che proteggevamo i partigiani” mi disse un giorno, mandando in frantumi tutto quanto mi era stato insegnato a scuola. “Quelli facevano gli attacchi, depredavano qua e là, esponevano bottini d’armi e mezzi nei prati. Poi sono arrivati i tedeschi il mattino presto, tirandoci fuori dalle case, mitragliandoci in cortile… Tutti banditi, tutti banditi, gridavano”.
All’epoca mio nonno Valente lavorava al Dinamitificio Nobel d’Avigliana, che in Valsangone tutti chiamavano La Polveriera. Producendo munizioni da scaricare contro i nazisti e i repubblichini, si era scampato d’andare in guerra e poteva stare vicino ai due figli ancora piccolissimi. Quel mattino si trovava lì, al sicuro dai mitra ma non dalle esplosioni che ogni tanto sbrindellavano i poveri operai, nient’affatto preparati a quelle lavorazioni. Angiolina temeva ogni giorno di rimanere vedova, o peggio ancora con un marito invalido da assistere. Di certo non avrebbe mai immaginato d’essere lei quella in pericolo, e non lui. Ha salvato se stessa e i bambini, persino la casa e parte della borgata. Con Valente ha pianto le persone uccise. Come il fratello diciannovenne Antonio, pittore e scultore, che è stato condotto nel bosco con lo zio Massimo. Quasi non si è accorto di morire. Massimo l’ha visto cadere al suo fianco, falciato da una raffica che mai avrebbe pensato così improvvisa. Il nazista ha sparato anche a lui. Non sicuro di averlo ucciso, gli ha scaricato un’altra raffica addosso, a distanza ravvicinata. Ferito, Massimo non ha perso conoscenza, si è finto morto mentre i proiettili gli scontornavano il passamontagna che quel mattino si era messo prima d’andare a lavorare. È rimasto immobile. Il nazista gli ha colpito la faccia con la punta del mitra per assicurarsi d’aver fatto un buon lavoro, poi se n’è andato. Massimo ha capito che non sarebbe morto neppure stavolta, nonostante le pallottole e le baionettate ricevute nella Grande Guerra e un tentativo di suicidio con una rasoiata alla gola per non tornare a combattere in Grecia, perché aveva pieni i cassetti di medaglie e onorificenze. Sarebbe vissuto ancora così a lungo che ho avuto il tempo di conoscerlo, questo vecchio asmatico che sentivo arrivare dal fondo del cortile prima di vederlo passare davanti alla mia casa. Fischio sibilante e strozzato, toc-toc del bastone sul terreno, il passo d’un uomo che da ragazzo aveva scalato il Monte Bianco. 

Valente si sarà mai reso conto di chi era sua moglie? Sarà mai stato tentato di seguirla di notte, passando dall’oscurità dei boschi a un’areata radura? L’avrà mai vista stagliata su un promontorio, magari sul Truc, illuminata a giorno dalla luna? “Io lavoro, di notte” rispondeva lei durante le loro furibonde litigate. “Taglio legna, poto, falcio l’erba. Con la luna, non mi serve nemmeno la pila”. Di certo non l’avrebbe seguita per gelosia: sapeva d’avere sposato una donna bellissima ma troppo particolare, con la quale era difficile stare. Preferiva lasciare Catlina alla notte, dove lui non c’era, perché neppure l’alcol riusciva a dargli la necessaria fantasia che dà vita agli esseri immaginari che lei gli metteva in casa. Gli bastava l’Angiolina che si adattava al giorno, quella con cui litigava e che lo sopportava quand’era ubriaco, paradossalmente così concreta da rimproverarlo perché in tanti anni non era mai riuscito a trovarsi un lavoro serio. L’Angiolina per la quale faceva la spesa e cucinava, perché lei non avrebbe saputo mettere insieme due ingredienti. L’Angiolina che l’ha assistito di malavoglia dopo che lui si è piegato sulla sedia, gli arti rinsecchiti, la sigaretta ancora tra le labbra. Vecchiaia precoce, bronchite cronica, indurimento venoso. In borgata ognuno aveva la sua diagnosi improvvisata, azzardo di pareri medici comicamente storpiati. 
Il giorno dei santi del 1980, mia nonna si svegliò di fianco a lui e non lo sentì russare, né tossire. D’ora in poi non avrebbe più dovuto occuparsi di lui: preparargli il pranzo e la cena, vestirlo e svestirlo, metterlo sulla sedia a rotelle, spingerlo per il cortile. Né i figli e le nuore l’avrebbero più rimproverata perché durante quegli anni aveva continuato ad assentarsi, lasciando il marito seduto fuori casa, il cappello di paglia sulla testa che quasi sfiorava le ginocchia, la sigaretta in bocca e la tosse persistente, ormai incapace di urlare Catlina. Per l’epoca, il loro era stato un rapporto inusuale, con lei a fare l’uomo e lui che badava alla casa, ma credo che Angiolina e Valente si siano amati di un amore sincero, persino ordinario. Una coppia come altre. Nonostante lei non sapesse fare la moglie, a lui probabilmente questo non dispiaceva troppo. Benché litigassero, rinfacciandosi le cose peggiori, erano ben coscienti d’avere bisogno l’uno dell’altra. Ma da quand’era stata costretta a dedicarsi totalmente a lui, sacrificando il proprio lato notturno per diventare ciò che non era capace di essere, mia nonna aveva cominciato ad odiare mio nonno, pur continuando a volergli un bene infinito.  Finalmente libera, poteva tornare a vagare sotto la luna come una vecchia strega. Della vecchia strega aveva la stessa energia, lo stessa incuria per un corpo che continuava a non graffiarsi tra le piante e i rovi. Eppure mi sembrava che le pesasse, tutta quella libertà. Come se non sapesse più bene che ruolo interpretare. Adesso che non c’era più nessuno a richiamarla in casa, urlando il suo nome oscuro, ora che poteva stare fuori casa senz’obblighi, infischiandosene se era giorno o notte, Angiolina sembrava preferire i ricordi alle fughe nell’immaginazione. Non la vedevo più tornare dai prati al mattino, i piedi che alzavano la rugiada sulla brina. Continuava a portare in casa delle cianfrusaglie, ma era come se fossero sempre state lì, ammucchiate ovunque, fino a sommergerla nella stanza dove dormiva vestita, in un letto che non rifaceva mai. Credo che ormai fossero diventati oggetti anche per lei, perché quando i suoi figli la convincevano che era necessario portarne fuori almeno una parte e bruciarla, lei aveva smesso d’opporsi: controllava, difendeva qualcosa cui si era affezionata, ma senza l’animosità che le avevo visto quand’ero un ragazzino.
Magari ero io ad essere cambiato. Fingevo di fare il fotografo, qualcuno m’invidiava, ma su chi ero non avevo le idee ben precise. Alla sera uscivo e trascorrevo le notti a Torino, vagando con gli amici tra i Murazzi e le birrerie. Delle volte me ne stavo chiuso in camera per settimane con lo stereo a palla, leggendo Dante e Joyce e imponendomi di scrivere un’opera immortale. Mia madre bussava alla porta, chiedendomi se ero ancora vivo. A cena mio padre si mostrava preoccupato: a modo suo cercava di spiegarmi che il mondo era fuori da me, non in me, e che lui non andava ogni giorno a chiudersi in fabbrica per alimentare le mie fantasie. Probabilmente si esprimeva male, o io non volevo capirlo. Fatto sta che ben presto il suo approccio diventava meno comprensivo. “Sei come tua nonna” mi diceva. “Hai preso da lei in tutto e per tutto!”. Io rispondevo urlando e piangendo, spesso insultandolo, poi uscivo di casa senza sapere dove andare. 
Mia nonna aveva smesso d’allontanarsi nei boschi quando girovagava di notte. Spesso la incrociavo in cortile, nelle zone più buie, oppure all’entrata in borgata, china a segare legna per una stufa che non accendeva mai. Pensavo al mondo che lei aveva abitato per anni e che nessuno aveva mai accettato, neppure suo marito che chiamandola Catlina aveva almeno relegato una sua parte fuori della loro vita. Adesso era Angiolina e basta. Una vecchietta stramba e un po’ infantile che si comportava nello stesso modo di giorno e di notte. Quasi una stracciona. Ingobbita, perennemente china a segare, spostare sassi in prossimità del cortile, riempire di terra le tampe nella strada sterrata, come se quei lavori di manutenzione toccassero a lei. C’erano però degli altri momenti: d’inverno, dopo una cena frettolosa (di solito una patata cotta e un vecchio formaggio, oppure una minestra riscaldata troppe volte o una tazza di latte), infilava degli occhiali che forse non erano neppure suoi e si attardava a leggere dei settimanali che le passavano le nuore - a volte dei libri recuperati chissà da dove, spiegazzati e strappati. Non s’interessava al gossip, e neppure alla cronaca. Fin da ragazza erano l’arte, la storia e la scienza ad appassionarla. Vedendo la luce accesa in cucina, una piccola luce che si era sistemata vicino al tavolo, andavo a trovarla. Con un po’ di soggezione, mi sforzavo di sopportare l’odore nauseante di una casa mai pulita. In quel cono luminoso, lei alzava lo sguardo perennemente incuriosito per parlarmi dei suoi eroi: Michelangelo, Leonardo, Galileo, Einstein e tutti quelli che secondo lei avevano permesso all’umanità di progredire. Amava gli individualisti, credo s’identificasse con loro, soprattutto con i perseguitati. A torto o ragione, in quegli anni anch’io mi sentivo come lei. Non sempre eravamo d’accordo: anticlericale, esaltava le gesta di Napoleone e la sua impresa di laicizzazione dell’Europa. Sulle nefandezze della Chiesa la pensavamo uguale, ma già allora quel tronfio francese mi disgustava altrettanto.
Di lei mi attraevano le contraddizioni, quelle aporie che mandavano in bestia gli altri. Anarchica e monarchica, Angiolina; illuminista e utopista quando esprimeva un’idea di mondo, ma oscura e irrazionale per quanto riguarda la propria esistenza. Quando raccontava del suo momento fondante erano in pochi a capirla. Che madre è una donna che nasconde i suoi figli in un  prato e poi corre a spegnere un incendio, rischiando di farsi fucilare? “Dovevi tenerli in braccio, scappare via con loro che venivano prima di tutto” le disse mia madre, una volta che l’avevamo invitata a pranzo. “Il resto che bruciasse pure”. Lei non aveva cambiato idea: “Che dovevo fare, lasciare che bruciasse la borgata? C’era la mia vita, qui. La nostra vita”. Quasi ottantenne, intrattenne un’intera scolaresca giunta in borgata per sentire di quei lontani accadimenti. Fu anche intervistata da un giornale locale, ammirata per il suo eroismo. Lei disse, più o meno: “Chi ha vissuto quella guerra, come me, vorrebbe solo che di guerre non ce ne fossero più. Siamo piccoli, egoisti e fallibili. Proprio per questo si dovrebbe cercare la pace, approfittare dei progressi scientifici per vivere meglio e a lungo”.
Quand’è stata sepolta, vedendo la bara scendere nella fossa, per un istante mi sono sentito abbandonato, nonostante mia moglie stesse stringendomi la mano e mio padre avesse smesso da anni di paragonarmi alla donna che la terra stava inghiottendo. Un attimo. Il tempo di capire che d’ora in poi avrei potuto accoglierla liberamente, riconoscermi in quella parte di lei che era già in me. Compagna di notti creative e insensate, tra creature che s’addormentano con le prime luci.