Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Crisi sistemica e neoliberismo

Crisi sistemica e neoliberismo

di Eugenio Orso - 23/03/2009

 

Crisi sistemica e neoliberismo



I capaci e lungimiranti imprenditori italiani strattonano senza dignità alcuna, la giacca di Berlusconi, il quale, come ben sappiamo, è uno di loro e li rappresenta degnamente.
Dimentichi per un attimo delle belle parole dal sapore propagandistico e ideologico, quasi un “mistero della fede”, con le quali per anni si sono riempiti la bocca – dalla mitica innovazione alla produttività del lavoro, dal “fare sistema” alla necessaria, continua ristrutturazione – altra alternativa non hanno, per mantenere alto il tasso di profitto e i loro “consumi di prestigio” dei quali spesso il Paese non beneficia, e mostrano il vero volto del liberismo economico, di quella libera iniziativa privata che nelle fiabe raccontate dai pubblicisti dell’economia di mercato significherebbe assunzione responsabile di rischio, aumento dell’efficienza, incremento delle quantità prodotte e consumate, avanzamento planetario verso “più elevati tenori di vita”.
Arrivano da tutti i distretti, e in particolare da quelli del nord est del Paese, e da ogni angolo in cui si produce il tanto decantato (almeno in altri tempi) made in Italy, per abbeverarsi alla fontana delle risorse pubbliche, quelle erogate dal tanto disprezzato stato centrale, percepito fino a ieri come un limite alla loro possibilità di espansione, di “crescita” futura, se non come un vero e proprio nemico che impone tasse e balzelli, opprimendo il mirabolante e dinamico mondo dell’imprenditoria.
Berlusconi, da parte sua, non è insensibile ai lai della pessima Marcegaglia – che parla anche per la cruciale industria media e piccola, in subbuglio a causa del credit crunch – perché gli concede qualcosa, ad esempio l’aumento delle risorse fino a 1,3 miliardi di euro destinate al fondo di garanzia per il credito, importante per garantire un certo afflusso di liquidità nelle casse degli imprenditori privati in periodo restrizioni creditizie, e l’innalzamento della soglia prevista per la compensazione fra crediti e debiti nei confronti dello stato.
In effetti, nell’elargire denaro vero e non soltanto promesse a fondo perduto, questo esecutivo rispetta una scaletta di priorità che è tipica dello stato “leggero” di matrice liberaldemocratica, asservito a grandi interessi privati: prima di tutto l’usurocrazia rappresentata dal sistema bancario, al fine di preservare le strutture finanziarie in essere mentre la crisi sistemica comincia a scatenarsi, poi la libera impresa privata con particolare attenzione in queste ore per la piccola e media impresa e, in ultimo, se avanza qualcosa, a titolo di mera elemosina e di spot per carpire il consenso elettorale, la gran maggioranza della popolazione costituita da forza-lavoro e consumatori, più che da cittadini nella pienezza dei diritti.
Non importa se il sistema bancario non concede più crediti alla piccola e media industria – volano di uno “sviluppo” che già da tempo si è inceppato, in questo paese – perché tanto ci sono le risorse pubbliche, le imposte e le tasse pagate da chi non può sottrarsi, che possono correre in soccorso del tasso di profitto preservando il vero idolo di Mercegaglia e della sua consorteria, come ha fatto notare dall’alto del suo scranno anche Mario Draghi, il quale ha sollecitato tempi più ridotti per il rimborso dei crediti che le imprese hanno nei confronti dello Stato, essendo le pregevoli banche italiane impegnate in un difficile inventario dei titoli tossici e sempre più prudenti nelle pratiche di affidamento…
In altre parole, è ormai certo che la crisi la pagheranno gli strati sociali più bassi e i provvedimenti berlusconian-tremontiani puntualmente lo confermano.
Per ottenere fondi dallo stato e per facilitare la loro concessione, spesso si sbandiera la necessità della difesa dei posti di lavoro nazionali – come è accaduto per giustificare gli aiuti di stato all’industria dell’auto – e questo accade anche nel Nord Est della penisola, che dovrebbe rappresentare il cuore pulsante di un sistema economico fondato sulla media e piccola impresa.
Di nazionalizzazioni di unità produttive in difficoltà, neppure si osa parlare…
Purtroppo, il fatto che si tratta dell’ennesimo spot, volto a dare una giustificazione “accettabile” al sostegno del tasso di profitto e alla persistenza di puri interessi privati (contrapposti ad esigenze concretamente sociali che la crisi in atto non farà che amplificare) attraverso l’impiego di soldi pubblici e risorse collettive, è ben dimostrato dal caso di Safilo Group, esploso in tutta la sua gravità proprio in questi giorni.
Safilo è attiva dal lontano 1934 nel campo della produzione di occhiali con un gran numero di prestigiosi marchi in licenza, da Armani a Gucci.
Fin dai tempi del suo fondatore, l’italo-americano Guglielmo Tabacchi, ha come area di insediamento originaria proprio il ricordato Nord Est (Venezia, Belluno, Padova), con un fatturato che nel 2006 ha superato 1,1 miliardi di euro e, nello stesso anno, con un organico di oltre settemila e trecento dipendenti, società commerciali del gruppo comprese.
Per quanto riguarda le società estere del gruppo oggi esistenti, importanti e numerose sono quelle americane e canadesi, ma, nel resto del mondo, si va da Atene a Kuala Lumpur.
Orbene, il gruppo Safilo ha scelto la via dell’infedeltà nei confronti della comunità locale e della delocalizzazione futura degli stabilimenti di produzione – si parla ancora una volta della Cina – mantenendo, però, prudentemente alcune strutture e il marchio in Italia, per poter fregiarsi del solito made in Italy.
Il risultato è che si prevedono tagli occupazionali significativi, nell’ordine di un complessivo 20%, concentrati particolarmente negli stabilimenti in Friuli – per la precisione a Precenicco, con la chiusura dell’unità produttiva e la messa in mobilità di tutti i dipendenti, e a Martignacco, con una riduzione pesantissima dei posti di lavoro di oltre il settanta per cento – e ciò significherà la perdita secca di più di settecento posti di lavoro nella sola provincia di Udine.
Se alcuni imprenditori, profittando della crisi, ricorrono agli ammortizzatori sociali, cercano di liberarsi dei lavoratori “scomodi” e puntano ad ottenere un po’ di denaro pubblico, altri continuano imperterriti a spostare produzioni e know-how al di fuori del territorio nazionale, impoverendo il Paese.
Naturalmente, dovrà intervenire lo stato per dare un po’ di respiro ai lavoratori espulsi dal processo produttivo.
In tal senso è significativo il caso di Safilo e svela una volta di più, fra le altre cose, che il marchio del made in Italy un tempo glorificato in mezzo mondo e considerato garanzia di elevata qualità del prodotto, ormai nasconde e neanche troppo bene falsificazioni e imbrogli.
Un’operaia friulana della Safilo, intervistata alla radio, ha dichiarato con estrema franchezza che nello stabilimento in cui lavora si mette il marchio agli occhiali e si fa ben poco d’altro.
Ecco cosa si nasconde dietro alle belle parole e alle frasi fatte che si sentono nei consessi ufficiali dell’imprenditoria italiana, a partire da Confindustria, e casi come quelli della Safilo non sono certo una rarità assoluta.
Quindi, tempi duri per il Nord Est d’Italia culla della piccola e media impresa e per le sue propaggini più orientali, perché la crisi dell’economia “reale” avanza e i processi di delocalizzazione – fenomeno eclatante e socialmente insidioso della globalizzazione dei mercati – anziché fermarsi continuano imperterriti.