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La legittima attribuzione del «Fiore» a Dante nella teoria di Luigi Valli sui «Fedeli d'Amore»

di Francesco Lamendola - 24/03/2009


La notevole figura di studioso di Luigi Valli (1878-1931), critico letterario e docente universitario, è certamente una fra quelle che più ingiustamente sono state dimenticate; e ciò, forse, anche a causa della eterodossia di taluni suoi studi, nonostante che egli abbia goduto, in vita, della profonda stima e dell'amicizia fraterna di un poeta e filologo della statura di Giovanni Pascoli, del quale era stato, dapprima, un brillante discepolo.
In effetti, tutto quel che di lui rimane, nel panorama culturale italiano, sembrano essere tre scuole a lui dedicate: un liceo classico a Barcellona Pozzo di Gotto; una scuola primaria a Bergamo (facente parte dell'Istituto comprensivo «Edmondo De Amicis»); ed, infine, un altro istituto scolastico a Narni, la città in cui il Valli si spense. Non molto davvero, se si pensa che, nei primi decenni del Novecento, i suoi studi originalissimi hanno impresso una autentica svolta nella prospettiva dell'ermeneutica dantesca, particolarmente per quel che riguarda la supposta confraternita dei «Fedeli d'Amore», della cui esistenza egli fu strenuo difensore.
Purtroppo, i suoi libri così innovativi non sono più stati ripubblicati, o sono stati solo oggetto di ristampe fotostatiche a limitata diffusione, sicché il grande pubblico italiano continua ad ignorare il suo nome e l'importanza delle sue teorie per la storia della critica dantesca. Tra essi ricordiamo «L'allegoria di Dante secondo Giovanni Pascoli» (1922); «Il segreto della Croce e dell'Aquila nella Divina Commedia» (1922); «La chiave della Divina Commedia» (Bologna, Zanichelli, 1925); «Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore» (Roma, Optima, 1928); tutte in edizioni di non facile reperimento. Alcuni brani degli studi danteschi di Luigi Valli sono, inoltre, contenuti nel volume miscellaneo «Saggi di critica dantesca» a cura di Francesco Landogna (Livorno, Raffaello Giusti Editore, 1928).
Si direbbe che questa incuria nei confronti di un grande studioso italiano, dalle cui tesi si può certamente dissentire, ma della cui serietà ed acume non si può, in alcun modo, dubitare, costituisca una sorta di vendetta postuma da parte dell'establishment culturale nazionale, e particolarmente di quel suo blindatissimo settore che è la critica dantesca, nei confronti di un ricercatore indipendente che ha avuto il coraggio di andare controcorrente e di sfidare luoghi comuni ormai consolidati, come quello della reale esistenza delle «donne gentili» degli Stilnovisti.
In altre parole la cultura accademica italiana, nota purtroppo per la miopia e la partigianeria con le quali è solita difendere le opinioni consolidate (cioè le proprie), nel caso del Valli ha mostrato, una volta di più, che nel nostro Paese non è consentito, ai giovani studiosi, se non di ricalcare le orme della tradizione; pena l'esclusione dal salotto buono delle patrie lettere, con le relative prebende e gratificazioni.
In altri Paesi - in Francia, in Germania, negli Stati Uniti - uno studioso del valore di Luigi Valli sarebbe stato pubblicato e ripubblicato; studenti ne avrebbero fatto oggetto delle loro tesi di laurea;  articoli e conferenze avrebbero discusso, e magari criticato, le sue tesi: ma non lo si sarebbe passato sotto silenzio. Si vede che in Italia ci sentiamo talmente ricchi di talenti, da poterli dissipare o dirottare verso altri lidi, più accoglienti e più aperti dei nostri.
Del Valli, comunque, avevamo già avuto modo di occuparci nel nostro saggio su «L'esoterismo di Dante» (pubblicato negli «Atti» della Società Dante Alighieri di Treviso, vol. 5, 207; e consultabile inoltre sul sito di Arianna Editrice), da cui riprendiamo velocemente un passaggio.
Nato a Roma nel 1878, morto a Terni nel 1931, professore di filosofia nei licei, Valli riprende la lettura esoterica dell’opera di Dante che era iniziata col Foscolo e culminata nel Rossetti, nel Perez e nel Pascoli, peraltro non più in chiave eterodossa, neopitagorica e ghibellina, come i suoi predecessori, ma anzi «supercattolica». Nelle sue ampie e minuziose opere, “L’allegoria di Dante secondo Giovanni  Pascoli” (1922), «Il segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia» (1922),  «La chiave della Divina Commedia»(1925), «Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore» (2 voll., 1928-30), «La struttura morale dell’universo dantesco» (1935, postuma), egli  riprende la tesi dell’appartenenza di Dante alla setta dei Fedeli d’Amore; la natura puramente simbolica di Beatrice, rappresentante la Sapienza mistica del «Cantico dei Cantici»; la funzione salvifica concomitante della Croce (= Chiesa) e dell’Aquila (= Impero) nei due campi della vita attiva, presieduta dalla giustizia, e di quella spirituale e contemplativa, di cui è scopo appunto la sapienza santa.
Duramente contrastate da un coro di critiche degli ambienti accademici e «ufficiali», e particolarmente da Natalino Sapegno, le tesi del Valli non ebbero miglior fortuna di quelle del suo maestro. Contribuì forse a ciò l’atmosfera mistico-irrazionalistica della visione filosofica generale del Valli, su cui si esprime con appena dissimulata antipatia il giudizio di Eugenio Garin, che lo accomuna al pensatore anarchico Max Stirner e al «fondatore» del nazionalismo italiano Enrico Corradini, in un terzetto stranamente assortito.
E tuttavia al Valli si deve il merito di una più rigorosa collocazione storica di tutta la problematica relativa all’esoterismo di Dante. «La questione dei Fedeli d’Amore – afferma lo studioso romano – non s’inquadra nel suo spirito fra le cortesie feudali e i canti di calendimaggio. Si deve inquadrare fra la strage degli Albigesi e quella dei Templari.» («Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore», p.147).

Ma veniamo al tema che ci siamo proposti di trattare in questa sede: ossia l'argomentazione mediante la quale Luigi Valli sostenne la legittimità dell'attribuzione dantesca di quella strana e controversa opera che è il «Fiore», sulla cui paternità si è tanto discusso e si continua, tuttora, a discutere.
Diciamo che, grosso modo, la critica dantesca «ortodossa» oscilla tuttora fra due posizioni, che sono poi le stesse di cinquanta o cento anni fa: la negazione della paternità a Dante o la sua ammissione, pur con riserva, e, soprattutto, con l'esplicita precisazione che la stesura di quell'opera altro non sarebbe stata, per il sommo poeta, che una sorta di gioco letterario, un puro e semplice «divertissement»; il tutto per «salvare» la reputazione del Nostro dalla riprovazione morale conseguente all'aver scritto un'opera così sboccata e licenziosa.
Tra coloro i quali hanno finito per attribuire a Dante Alighieri sia il «Fiore», sia il «Detto d'Amore», è qui opportuno ricordare almeno il Casini, il Mazzoni, il D'Ovidio ed il Rajna. All'opposto, fra quanti hanno ritenuto di negare tale paternità, spiccano nomi come quelli  del Gorra, del Parodi,  dello Zingarelli, del Di Benedetto. La bilancia, rimasta a lungo in equilibrio, sembra essersi spostata, poco dopo la metà del Novecento, a favore dei primi, anche per il peso decisivo esercitato dalle tesi di due studiosi del valore Domenico De Robertis e Gianfranco Contini.
Peraltro, scarso peso hanno avuto sull'ambiente accademico gli studi del Valli; sicché anche coloro i quali, come il D'Ovidio, hanno abbracciato senza incertezze la tesi della paternità dantesca del «Fiore», lo hanno fatto con motivazioni totalmente diverse da quelle di lui.
Un tipico esempio della posizione di quanti propendono, ma con cautela, per l'attribuzione dantesca, motivandola però come una sorta di gioco, ovvero di opera burlesca, è dato da Nicola Maggi (in: «Dante, tutte le opere», Roma, Newton Compton, 1993, pp. 714-15):

«Il "Fiore" non è da tutti attribuito a Dante Alighieri; alcuni pensano piuttosto a Dante da Maiano: l'uno e l'altro sostenibili in quanto riconoscibili nel nome del protagonista, che […] è Durante.
Certo, le particolarità stilistiche, persino alcune soluzioni grafiche, nonché il particolare umore dell'opera, potrebbero rendere poco credibile l'attribuzione d'essa al grande fiorentino. D'altra parte, sebbene con estrema parsimonia, in alcuni componimenti posti tra le "Rime", sono rintracciabili degli elementi non confrontabili con le note caratteristiche dantesche. Elementi che potrebbero consentire un'indicazione del "Fiore" come parto dantesco.
Certo, in esso, compaiono particolari del tutto nuovi ed inusuali in un poeta linguisticamente caratterizzato, come Dante;  su tutti il ridondare davvero imponente dei gallicismi e il compiacersi dell'egemonia fonetica: raddoppiamenti enfatici, assimilazioni ed elisioni frequentissime, termini propri d'una tradizione poetica decisamente transalpina.
Ma nulla vieta che si pensi ad un esercizio divagatorio, aduna sorta di "divertissement" dissacrante e derisorio.»
Ma che cos'è, in definitiva, questo «Fiore», la cui attribuzione tanto filo da torcere ha dato, e continua a dare, agli studiosi della letteratura italiana dei primi secoli, dividendo gli stessi dantisti in due schiere contrapposte?
Si tratta di una riduzione in 232 sonetti del «Roman de la Rose», scritto (per la prima parte) da Guillaume de Lorris, e (per la seconda parte) da Jean de Meun; mentre il «Detto d'Amore» (altra opera di dubbia paternità dantesca) è una riduzione della medesima opera in 480 settenari che rimano a due a due, ma che è rimasta incompiuta.
Cediamo la parola ad Alberto Chiari (in «Tutte le opere di Dante»,  Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1965, vol. 10, p. 179):

«…che cosa sia il "Roman de la Rose", lo diremo con le parole dello Zingarelli: "Quel Guglielmo [Giullaume de Lorris] aveva narrato in forma di sogno e con rivestimenti allegorici il sorgere e il progredire di una passione amorosa, sensuale bensì, ma con tutte le finezze e le gentilezze dell'amore cantato dai poeti moderni. I sentimenti, i fenomeni psicologici,  gli atti, i movimenti, le varie vicende, prendono figura umana, e questo corrispondeva alla moda dell'allegoria che negli ultimi tempi si era venuta largamente diffondendo.. Per dare solo qualche esempio, la donna desiderata è una rosa in un rosaio, la guardia che le si fa diventa un castello, il pericolo che minaccia l'amante s'incarna  in un omaccio armato di clava: paura,  castità, buona accoglienza, vergogna, sono tante persone che compongono non so se dire un'azione o una storia. L'autore non la menò a termine; ma certo egli ottenne approvazione e favore. Jean de Meun, letterato » filosofo, volle fare, per dir così, il guastafeste, ; e prendendo occasione da quel signorile e delicato poemetto,  mostrare il rovescio della medaglia, la realtà della società umana, sensuale, ipocrita, cattiva, venale,  cinica: serbò il titolo, usò anche lui le allegorie, , e si diffuse in lunghe dimostrazioni, che si fanno leggere  con piacere e interesse, insieme con le scene  vivaci non infrequenti (vedi "La vita, i tempi e le opere di Dante", Milano, Vallardi, 1931, p. 150).
E il ser Durante, autore delle riduzioni, riassume e parafrasa, fondendole abilmente, le porzioni narrative di entrambe le parti del "Roman de la Rose", quella di Guillaume de Lorris e quella di Jean de Meung, omettendo le disquisizioni dottrinali, ma non gli spunti politici in particolare l'avversione agli ordini medicanti e il favore  al "laicista" Guillaume de Saint-Amour nella fervida polemica attorno alla Università di Parigi (vedi Gianfranco Contini: "La questione del Fiore, in "Cultura e scuola", nn. 13-14, 1965, p. 768).»

Ed eccoci al Valli ed al suo scritto circa la validità dell'attribuzione dantesca del «Fiore», contenuta in Appendice ad una delle sue opere più importanti, la già citata «Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore», pp. 443-47):

«Credo che sia stato un gran danno che il problema della paternità del "Fiore" sia stato trattato da tutti filologi insigni e valenti sì, ma che in genere non sospettavano la profonda significazione e il profondo contenuto mistico settario di quell'opera.
Si deve a questo fatto, secondo me, se alcuni filologi come il Parodi non riuscirono a vedere interamente chiaro nella questione e si comprende che chi riteneva il "Fiore" semplicemente una storia giullaresca piena di sconcezze, fosse esitante ad attribuirla a Dante.
Riassumiamo la questione.
Quando il Castets nel 19881 pubblicò il "Fiore", il cui manoscritto esisteva nella Biblioteca della Facoltà di Medicina di Montpellier, avanzò l'ipotesi che esso fosse stato scritto da Dante Alighieri.
Tale ipotesi fu in seguito accettata dal Mazzoni e dal D''Ovidio, e bene accolta dal Rajna. Gli argomenti a favore di questa ipotesi sono numerosissimi ed io li enuncio solamente. Il Parodi li riassunse nella Prefazione alla edizione del "Fiore" (1922) pubblicata a fianco e nella stessa veste  delle "Opere di Dante" edite dalla Società Dantesca, ma separatamente appunto per il dubbio sulla sua attribuzione.
1) Come è noto il "Roman de la Rose", del quale il "Fiore" è un rifacimento in sonetti italiani, porta a un determinato punto il nome del suo autore: Jean de Meun. Al posto corrispondente ed anche in altro passo,  il "Fiore" ha invece il nome di Durante (Sonetti  LXXXII e CCII). Questo "Durante" è un poeta certamente fiorentino e che scrive certamente nella fine del secolo XIII o al principio del secolo XIV, cioè negli anni nei quali viveva Dante Alighieri; e Durante era il vero nome di battesimo di Dante Alighieri.
2) Questo poeta, pure scrivendo i suoi duecentotrentadue sonetti con grandissima fretta, nel modo più sciatto e trasandato e spesso lasciando correre nella sua imitazione dei ridicoli francesismi, è persona che maneggia assai bene l'endecasillabo e il sonetto., e in molti punti si mostra capacissimo di fare dei bei sonetti. Se questi Durante non fosse Dante Alighieri, resterebbe il problema insoluto come mai sia esistito tra i fiorentini di quel tempo questo poeta, certamente notevole, che si chiamava Durante e del quale né il nome né l'opera appaiono altrove.
3) Questo "Durante" è anche una persona di profonda cultura e che non imita pedestremente. Egli infatti inserisce per esempio di suo, a un certo punto del poema, il ricordo e la rivendicazione di Sigieri di Brabante, estranea al testo, e, come è noto, la rivendicazione di Sigieri è fatta arditamente proprio da Dante nel Paradiso.
4) Esisteva già prima della scoperta del "Fiore" una tradizione secondo la quale Dante, per mettere in guardia un marito contro l'ipocrisia di un frate, che si intratteneva con la moglie di lui, avrebbe scritto questa quartina
          Chi della pelle del monton fasciasse
              il lupo e tra le pecore il mettesse,
              credete voi, perché monton paresse,
              che de le pecore e' non divorasse?
Orbene questa quartina si è ritrovata poi essere la prima quartina del sonetto 97° del "Fiore".
5) Nel "Fiore" si parla due volte di un "frate Alberto" raffigurato come tipo di dissimulatore, e l'autore della seconda parte del "Fiore" si chiama, come è noto, Jean de Meun. Orbene esiste, come abbiamo veduto, un sonetto di Dante che accompagna una sua opera chiamata genericamente "pulzelletta", indirizzandola a un Brunetto. Questo sonetto non solo allude a dei "Frati Alberti" che intendono "ciò che è posto loro in mano", ma finisce col dire che se la "pulzelletta" parrà difficile a intendersi c si potrà rivolgere a "messer Giano" (che apparisce esser Jean de Meun).
Appare quindi per i due nomi contenuti nel sonetto di Dante e che si ricollegano al "Fiore" che il sonetto debba aver accompagnato proprio il "Fiore" scritto da Dante.
           Messer Brunetto, questa pulzelletta
           con esso voi si ven la pasqua a fare:
           non intendete pasqua di mangiare,
           ch'ella non mangia, anzi vuol esser letta.
           La sua sentenzia non richiede fretta,
           né luogo di romor né da giullare;
           anzi si vuol più volte lusingare 
           prima che 'n intelletto altrui si metta.
           Se voi non la intendete in questa guida,
           in vostra gente ha molti frati Alberti
           da intender ciò ch'è posto loro in mano.
           Con lor vi restringete sanza risa,
           e se li altri de' dubbi non son certi,
           ricorrete a la fine a messer Giano.
La forza di questi argomenti è tale e la convergenza di tutti questi indizi è così limpida, che ad essi dovrebbero essere opposti molto seri per giustificare ancora il dubbio. Orbene il parodi, dopo aver esposto gli argomenti di cui sopra, sospende il giudizio e lascia sussistere il dubbio unicamente perché non si rende nessun conto del valore simbolico e del profondo contenuto del "Fiore". Infatti egli, dopo alcune obiezioni di poco conto, scrive:
"Non pare che il Fiore esiga tanto acume o sforzo d'intelletto per essere inteso, e anche meno poi che esso richieda appartate e silenziose meditazioni e che rifugga dagli strepiti giullareschi. Posto che Dante non può essere stato così fiacco e strano nel caratterizzare un'opera come il Fiore, il riscontro dei Frati Alberti e di messer Giano rimane soltanto uno dei più graziosi tiri che la verosimiglianza abbia giocato alla verità storica."
Da questa parole risulta evidentemente che la ragione vera per la quale il Parodi non considera come probabili gli argomenti suaddotti è che secondo lui il "Fiore" è  una cosa senza alcuna serietà e senza nessun significato profondo che possa richiedere sforzo d'intelletto e silenziose meditazioni.  Per questo motivo il Parodi si rassegna a distaccare il "Fiore" dal sonetto a messer Brunetto e si rassegna perfino a subire 'un grazioso tiro dalla verosimiglianza a danno della verità storica'.
E non solo egli si rassegna a questo, ma dovendo cercare chi possa essere quel messer Giano e spiegare tutta quell'aria di mistero con la quale si parla della "pulzelletta", deve andare a supporre che tutte quelle raccomandazioni di leggere la "pulzelletta" con attenzione e serietà siano burlesche.  "Si potrebbe pensare ad una canzonatura rivolta  contro un dottore, che so io?, di scienze occulte; ma è più semplice e naturale supporre che "messer Giano" facesse parte anche lui della brigata, e vi fosse famoso, per esempio, come uno al cui occhio nessuno riuscisse a tener nascosti i fatti suoi, anche i più gelosi segreti". Il Parodi continua ancora supponendo che nel sonetto dedicatorio Dante "da uomo di spirito, intenda prevenire co' suoi frizzi, i frizzi con cui quegli uomini di spirito avrebbero accolto pur gustandoli e ammirandoli, i suoi poetici e idealistici misteri."
Come si vede, per il Parodi tutto si risolve in una serie di canzonature. Comincia lui, il Parodi, col sorridere un poco di Dante per i suoi "poetici e idealistici misteri", suppone poi che Dante potesse mandare dei "misteri idealistici" a persone che ne avrebbero riso e che perciò, "da uomo di spirito", li canzoni lui prima di essere canzonato; suppone che Dante canzoni un ipotetico "messer Giano" che ha l'aria di essere "un dottore di scienze occulte" e suppone infine, come conclusione generale, che la "verosimiglianza giuochi un tiro" in questo caso alla "realtà storica". Ultima, suprema canzonatura.
Tutta questa infelice soluzione del problema a base di canzonatura generale, deriva unicamente dal fatto che il Parodi, valentissimo filologo, ma che seguiva in questo la deplorevole tradizione della critica "positiva", ha creduto di andare a fondo alla questione senza porsi neanche un istante il problema se nel "Fiore" non ci sia veramente un senso profondo, senza prendere neppure in considerazione, con il concreto disdegno, le idee del Rossetti, che aveva accennato fino ad un secolo fa al contenuto settario e alla essenza mistica del "Roman de la Rose" "ou l'art d'amour est toute enclose"
Orbene, la spiegazione che abbiamo dato del significato simbolico e settario del "Fiore", elimina completamente l'obiezione del Parodi contro l'attribuzione di quest'opera a Dante, elimina cioè l'unica vera obiezione esistente a viene a confermare in modo, per me indubitabile, che il "Fiore" è stato scritto da Dante Alighieri.
E tutto diventa chiaro.
Il "Fiore" è un romanzo simbolico settario.
Ecco perché Durante, cioè Dante, lo scrive e lo manda in giro, non a scopo di arte, ma a scopo di propaganda settaria e perciò lo butta giù in fretta, forse per commissione, nella maniera più trasandata e curando poco o nulla lo stile, lasciandosi trascinare nella fretta dalla imitazione delle parole (francesismi)tanto da rendere spiegabile la maraviglia di coloro i qual credono, molto a torto del resto, che Dante dovesse scrivere sempre e soltanto bellissime cose.
Ecco perché Dante manda il "Fiore" a un "messer Brunetto" che non va affatto confuso con Betto Brunelleschi), dicendogli nel sonetto accompagnatorio: "Vi mando per Pasqua quest'opera. Guardate che per essere intesa bisogna che non sia letta in fretta e che, per quanto sembri una cosa leggera, non va letta in "luogo di rumor né da giullare", anzi va letta molte volte prima di poter essere intesa bene. Per leggerla riunitevi insieme (voi adepti) senza ridere (delle apparenti lubricità). Se voi stessi non la intendete subito, ci sono tra voi molti che si sono messi il vestito di frate Alberto, quello stesso vestito, quello stesso manto esteriore di ortodossia untuosa che in questo libro si mete Falsosembiante per andare a scannare Malabocca: l'Inquisitore".
   Falsosembiamnte, sì com'om di coro
       religioso e di santa vita,
       s'apparecchiò, e si avea vestita
       la roba frate Alberto d'Agimoro (CXXX).
"Ci sono tra voi dei settari consumati che vestono la veste di Frate Alberto, essi capiscono bene il gergo, sono gente 'da intender ciò che è posto loro in mano'. Riunitevi insieme senza ridere delle apparenze oscene di questo scritto, e quanto ai dubbi che non potrete risolvere da voi, essi potranno essere risolti da messer Jean de Melun, che è l'autore dell'opera."
E con ciò abbiamo anche probabilmente la spiegazione del segreto tenuto, della piccola diffusione che ebbe quest'opera eminentemente settaria, e possiamo non solo restituire a Dante questa fatica, per quanto poco essa possa aggiungere alla sua gloria di poeta, ma possiamo anche rinunziare a dei riavvicinamenti fantastici che alcuni dei sostenitori dell'attribuzione del "Fiore" a Dante hanno creduto di dover porre tra la Risa del "Fiore" e la "Mistica Rosa" del Paradiso.
Tanto il Castets che il D'Ovidio, nella loro assoluta non conoscenza del simbolismo che ora è chiaro, posero quel riavvicinamento in modo erratissimo. Il primo ritenne che la Candida Rosa del Paradiso si contrapponga a quella del "Fiore" come una reminiscenza purificata, il D'Ovidio molto ingenuamente esclamava che il "Fiore" è il necessario preliminare della "Divina Commedia"; perché rappresenta appunto il periodo di deviazione di Dante che scriveva tutte quelle sconcezze. "Ora sappiamo - esclama il D'Ovidio - che cosa aveva Dante da rimproverarsi!".
In realtà la Rosa del "Fiore" e la Candida Rosa della Commedia  sono un simbolo solo: l'uno espresso in gergo in un libro che doveva passare d'una in altra piccola congrega di adepti, si mascherava di digressioni erotiche e di lubricità per attraversare il volgo e passar sotto gli occhi della Inquisizione vigilante; l'altra risplendeva nell'alto dei cieli costruiti  secondo le linee ortodosse e perciò sicura  nel suo contorno di idee tradizionali di parole ortodosse e di ortodosse visioni.
Ma nell'uno e nell'altro poema il simbolo è lo steso: è la mistica Sapienza mèta del mistico amante, è la stessa "Rosa" che fu chiamata "Rosa di Sorìa" e che ispirò tanti altri poeti: la "Rosa Mystica" che Dante non solo cantò nel "Fiore", ma celebrò con appassionata devozione dalla prima parola della "Vita Nuova" all'ultima del Poema Sacro.»

Riassumendo.
Per Luigi Valli, il «Fiore» altro non è che un'opera scritta appositamente per circolare entro la cerchia dei Fedeli d'Amore, setta esoterica d'ispirazione riformatrice, celebrante la Sapienza santa e la mistica unione con essa degli adepti medesimi.
La prima formulazione organica della tesi secondo ci i Fedeli d'Amore sarebbero stati una vera e propria setta politico-religiosa risale a Gabriele Rossetti, carbonaro e Rosacroce, (1783-1854), letterato e padre dei poeti in lingua inglese Dante Gabriele e Christina, che per primo imposta in termini complessivi le problematiche relative a Beatrice e a tutto il Dolce Stil Novo, interpretandole in chiave allegorica. I suoi studi danteschi sono raccolti nel «Commento analitico alla Divina Commedia» del 1826-27, e nei “Ragionamenti sulla Beatrice di Dante” del 1842, ch’egli pubblicò a Londra ov’era esulato da Napoli in seguito alla repressione dei moti del 1821. In essi sostiene l’appartenenza di Dante a una setta segreta detta dei Fedeli d’Amore, il cui fine era una riforma radicale della Chiesa in senso ghibellino e antipapale. Ad essi si deve aggiungere «Il mistero dell’Amor platonico nel Medioevo» (5 voll., 1840) e ancora «Sullo spirito antipapale che produsse la Riforma e sulla sua segreta influenza ch’esercitò nella letteratura d’Europa e specialmente d’Italia, come risulta da molti suoi classici, massime da Dante, Petrarca, Boccaccio» (1823).
Rossetti vuol dimostrare che, al tempo di Dante, esisteva fra il popolo e fra le persone colte uno spirito antipapale largamente diffuso, e che non solo Dante, ma anche gli stilnovisti e, poi, Petrarca e Boccaccio condividevano in pieno tali sentimenti, sia pur in una prospettiva interna alla cristianità. Tuttavia la durezza con cui la Chiesa perseguitava i propri oppositori e ogni forma d’eresia, culminata nella crociata contro gli Albigesi del 1208-29 e negli eccidi condotti da Simone di Montfort, aveva indotto a una maggiore prudenza gli oppositori del papato. Di qui la necessità di un linguaggio criptico, allegorico e anagogico, che potesse venire inteso dagli affiliati ma il cui senso sfuggisse all’occhio vigile dell’Inquisizione.
Insomma, Dante cercava, con la sua opera, di favorire un potente rinnovamento della chiesa cattolica ed era pertanto entrato a far parte di una setta,  i «Fedeli d’Amore», i cui seguaci fingevano di sospirare per delle donne angelicate (la Beatrice di Dante, la Laura di Petrarca, la Fiammetta di Boccaccio), che simboleggiavano i loro ideali politico-religiosi. Servendosi di un lessico particolare, detto «della Gaia Scienza», e simulando l’amor platonico per altrettante donne, questi poeti (e i trovatori provenzali prima di loro), avevano fatto propria un’antichissima sapienza segreta, o meglio la tradizione di una sapienza occulta risalente agli antichi Egiziani e ai Greci e proseguita dai manichei, dai patarini e dai poeti siciliani della corte di Federico II.
Rossetti identifica quindi Beatrice con la filosofia e sostiene che Dante, nel suo poema, sotto la forma della dottrina cattolica esprime una filosofia essenzialmente pitagorica; e accentua al massimo, per la natura stessa della sua interpretazione di Dante, il valore di un’esegesi imperniata sull’allegoria fin nei singoli versi, parole e sillabe, non solo della “Commedia” ma della “Vita nova” (l’espressione “Fedeli d’Amore” ricorre più volte in quest’ultima, a partire dal sonetto “A ciascun’alma”, III, 10-12), esponendosi così alla critica di voler forzare il testo dantesco: e tuttavia supportando le proprie convinzioni con un bagaglio imponente di studi cui dedicò quasi l’intera sua vita.
Come già abbiamo avuto occasione di dire, il Valli riprende questo schema di massima, distanziandosi però dal Rossetti nell'interpretazione dei contenuti specifici, dottrinali e politici, della setta dei Fedeli d'Amore; che, secondo lui, sarebbero stati non già di natura eretica, neopitagorica e ghibellina, ma di radicale riforma cattolica.
Se si ammette la giustezza, o almeno la forte probabilità, che una tale setta sia realmente esistita (ciò che, appunto, gli studiosi accademici negano recisamente), allora le ragioni addotte dal Valli per attribuire a Dante la paternità del «Fiore» appaiono di tutto rispetto; anzi, diciamolo pure,  decisamente solide. E, al loro confronto, le argomentazioni di due studiosi come il Parodi e il D'Ovidio escono piuttosto malconce: le prime per il rifiuto pregiudiziale di prendere sul serio un'opera come il «Fiore» e per il rifiuto, altrettanto pregiudiziale, di ammettere che Dante possa aver indugiato nella composizione di un'opera sconcia e insulsa; le altre, per la pretesa di fare della «Divina Commedia» una sorta di riparazione morale del Sommo poeta nei confronti di un vergognoso «peccato» di gioventù quale, appunto, sarebbe stato il «Fiore».
Il guaio è che, appunto, mancando l'assenso di quasi tutti gli studiosi accademici intorno alla tesi della setta segreta dei Fedeli d'Amore (come testimonia anche l'articolo dedicato a tale «voce» dalla «Enciclopedia Dantesca»), viene a cadere anche quella sua variante che è costituita dalla interpretazione del «Fiore» come un'opera seria, serissima, e quindi attribuibile a Dante senza alcuna remora o imbarazzo; talmente seria da essere stata concepita e scritta proprio per circolare, con  discrezione e cautela, all'interno di una cerchia ristretta - e, soprattutto, fidata - di lettori, che condividevano gli intenti nascosti dell'autore.
Ma tant'è: l'establishment culturale italiano, quando si è arroccato su determinate posizioni, non è disposto a schiodarsi da esse magari per secoli, fino all'avvento del prossimo paradigma scientifico, che rimetterà ogni cosa in discussione.
Chi vivrà, vedrà.
Forse quel nuovo paradigma si sta già delineando, ma lorsignori non se ne sono ancora accorti. Essi continuano a far studiare Dante, a milioni di studenti, alla vecchia maniera, edulcorandone il messaggio ad uso e consumo non della verità e dell'intelligenza, ma delle pigre abitudini dei professori di liceo e dei docenti universitari: gente in apparenza mite e tutta assorta nel mondo della poesia; ma, in realtà, rancorosa e vendicativa:. Come l'ingiusto oblio del Valli sta a dimostrare, nel modo più esplicito.