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“Fottiti, american way of live”

di Marco Iacona - 24/03/2009


In quella sorta di vademecum d’inizio millennio che è Fascisti immaginari (Vallecchi 2003), Luciano Lanna e Filippo Rossi dedicano un paragrafo anche a Charles Bukowsky. Già: al vecchio Hank, antiamericano per eccellenza. Nessun’altra abitudine al di fuori dell’alcol e delle donne, né un lavoro fisso, né una fissa dimora. Scrittore e poeta. Un uomo che, quel nulla che ha fatto, lo ha fatto tutto da solo.
Bukowsky vive in quella parte di mondo che subisce le contraddizioni dell’altra parte di mondo, quello ricco e opulento, quello che sa sempre dove andare, cosa mettere e quanto guadagnare. Il suo di mondo, quello di Hank, è fatto di realtà visionarie, di gente che va e che viene, di donne consenzienti, di sporcaccioni e spiantati. Ma è un mondo con una dignità mai perduta, ove tutti possiedono l’onesta volontà di fare o non fare, ove non c’è spazio per le inutili svenevolezze. Insomma, è un mondo abitato da superuomini trascurati e in agrodolce. E poi: la poesia del vecchio Hank, è tutta da leggere, fatta di parole, priva di simboli e di Idee (con l’iniziale maiuscola). Parole ordinate per certificare un’esistenza come un’altra. una poesia infinitamente piccola, ma non povera, quella di Bukowsky, un poeta che non vuol narrare tutto ciò che può essere narrato e che gioca con le frasi spinte, per non rifugiarsi nell’ambiguità del non detto. Ma Bukowsky non è volgare. L’indecenza dista anni luce dalla sua arte. Anche nelle pagine più forti, non c’è mai ostentazione, né pornografia a buon mercato. In Bukowsky, la parolaccia rappresenta l’accordo fra il fatto accaduto e l’intima percezione, fra l’evento e la reazione., quasi fosse un fenomeno fisico. Un libro del piccolo grande Buk, senza parolacce, non sarebbe la stessa cosa, forse non sarebbe mai esistito. Nei suoi romanzi le citazioni degli esponenti della generazione beat non mancano. Hemingway è uno dei suoi pallini. Ma Hank è più il simbolo di una esistenza in disparte, che di un energico protestare,e  forse per questo è un autore non amato da certa intellettualità.
Cosa può averci a che fare la sinistra borghesissima o la sinistra sfascista con questo poeta della dimensione minima? Chi può citare i suoi scritti? Il professore sessantottino, in jeans, giacca e cravatta? Il burocrate sinistrense? Il sindacalizzato? Il “ribelle” in carriera? Ci siamo sempre chiesti a chi spettasse l’onore di sentirsi il figlioletto di padre Buk, e la risposta è difficile. Vuoi per l’originalità dello scrittore, vuoi per l’esistenza di quella casa comune che accoglie autori (considerati) di Destra e di Sinistra, elitari e underground (sì anche loro).
Parliamo chiaro, solo chi smettesse di considerare la cultura un’accademia del potere, scoprirebbe il valore di certe espressioni non conformiste. E nell’empireo dei malpensanti, lattina di birra in mano e sguardo annoiato, troverebbe lui, l’autore di Post Office, autobiografia di un non lavoratore, e di Storie d’ordinaria follia, racconti dal brillante sottotitolo: erezioni, eiaculazioni, esibizioni. Tre “e” bukowskyane da poter scambiare con le tre “i” del nostro mondo: impresa, internet, inglese. Confessiamolo, chi non vorrebbe farlo fino a domani?