Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L'epilogo occidentale della destra italiana

L'epilogo occidentale della destra italiana

di Franco Cardini - 24/03/2009

Foto di Giliola Chistè, www.giliolachiste.com

Qualcuno li dice in malafede, qualcun altro ha la sensazione che siano disperati, altri ancora li giudicano tattici esperti o furbastri opportunisti. Ma cominciamo a guardarli per quello che davvero sono, questi alti dirigenti di AN d’origine “missina DOC”. Quaranta-cinquantenni (il decano, a parte l’ottantenne Mirko Tremaglia, è il settantenne Matteoli), ancora un quarto di secolo fa avevano buoni motivi ad aver paura d’uscir di casa; li segnavano a dito, non li lasciavano parlare nelle assemblee pubbliche, li sprangavano; nella migliore delle ipotesi – ma erano eccezioni...- affibbiavano loro l’epiteto di “fascisti intelligenti”, sentito come un ossimoro. Erano spesso dei picchiati, eppure i mass media li definivano sempre “picchiatori”. Molti di loro si sarebbero accontentati della prospettiva di diventar consiglieri provinciali. Ed ora eccoli là: ministri, sottosegretari, senatori, deputati, grands commis d’état.

AN si è sciolta, confluendo nel nuovo soggetto politico berlusconiano. Eppure ha molte ragioni Gianfranco Fini, nella sua allocuzione di domenica 22 marzo: quella fine è in realtà un principio, o almeno potrebbe esserlo. Il Presidente della Camera, per un attimo tornato militante e dirigente ma pur sempre terza autorità dello stato, ha insistito soprattutto su due concetti: primo, “non ci sono stati né regalo, né grazia ricevuta”; secondo, la Destra non più AN ma confluita nel Popolo delle Libertà marcia decisa verso l“ammodernamento”.

 

 

C’è un’indubbia coerenza in questa visione. Il MSI, erede contrastato e semicostituzionale del fascismo, ne aveva ereditato soprattutto un aspetto: quello che, defelicianamente, si potrebbe riassumere nella formula “regime versus movimento”. Già prima di De Felice, era stato Gobetti a cogliere l’insanabile contraddizione del fascismo: instabile e paradossale alleanza di un conservatorismo ottuso, benpensante e forcaiolo con un libertarismo violento, iconoclasta, socialoide e genialoide. Soltanto la geniale demagogia carismatica d’un agitatore socialista prestato al ristabilimento dell’ordine, Benito Mussolini, era riuscito a tener insieme e a gestire per un quarto di secolo quell’instabile amalgama.

Il regime fascista fu forse – entro certi limiti - una realtà “di destra”, cioè conservatrice e liberista, corretta però dal dirigismo statalista autoritario; mentre il “movimento” si disperdeva nei rivoli di mille fronde, dal tradizionalismo cattolico o neopagano fino al sindacalismo rivoluzionario e massimalista che, non a caso, nella repubblica di Salò seppe trascinare dalla sua perfino un vecchio comunista come Nicola Bombacci, che rarissima avis saltò all’ultimo momento sul carro degli sconfitti (scelta folle, ma ben più rispettabile di quella dei soliti troppi italioti che usano correre in extremis in aiuto al vincitore). Ma va pur detto che le “fronde fasciste” furono il fenomeno di gran lunga più interessante nel panorama intellettuale italiano fra le due guerre.

Quindi, tra ’46 e ’93, il MSI si dibatté entro questi veri e propri “opposti estremismi”, anche se poco di tutto ciò trapelava nella vita ufficiale e parlamentare del partito.

Ma le iterate emorragie di giovani missini (e non i peggiori) che dagli Anni Cinquanta in poi se ne andavano sciamando verso il nasserismo, il castrismo, il guevarismo, il “nazional-europeismo sociale” di Jean Thiriart o la “Nuova Destra” di Alain Benoist la dicevano lunga al riguardo: mentre i dirigenti sognavano la costruzione di “grandi destre” e di un “partito degli italiani” che però per il momento era potenzialmente congelato e ingabbiato ingabbiato nella Democrazia Cristiana.

Quando Montanelli fondo' “Il Giornale”, una delle sue tesi era che si dovessero recuperare e rendere utili al centro democratico i tre milioni di voti che stavano nel “frigorifero” antifascista. Berlusconi, che Montanelli era uno dei pochi ad aver capito sul serio quando eravamo ancora in tempo, ha rovesciato quel teorema montanelliano: dimostrando che il vero frigorifero era la DC, che con quel tanto di patina cattolica teneva un po’ a freno il cinismo, l’egoismo e la mancanza di cultura dell’ “opinione media” italiana. Consentendole di diventare senza più pudori quel che in effetti essa è, il Cavaliere è riuscito adesso a far confluire in quella palude anche gli ex neo-post-antifascisti finalmente liberati dall’equivoco movimentista (e soprattutto da quel molto o poco che in esso c’era di buono).

Gianfranco Fini, però, con tutto questo originariamente non c’entrava. Non era né un nostalgico del “si-stava-meglio-quando-si-stava-peggio” né del “quando-c’era-Lui,-caro-Lei”; non si era mai innamorato né di José Antonio, né di Codreanu; era un ragazzo delle magistrali che voleva farsi i fatti suoi e andar al cinema a vedere John Wayne: e dovette stupirsi non poco quando si accorse di essere entrato in un partito nel quale non erano rari quelli che invece tifavano, guarda un po’, per i Vietcong. Tuttavia Fini, che non è mai stato fascista e non ha mai avuto una cultura fascista, seppe essere buon allievo e poi delfino di un Almirante che aveva ben intuito le potenzialità “di governo” del partito di emarginati e di refrattari che guidava: sarebbe bastato un nulla, un colpo di fortuna; chi si aspettava che sarebbe arrivato Berlusconi? E Fini è stato il protagonista del lungo viaggio che, cominciato non senza difficoltà e attraverso la fondamentale tappa di Fiuggi, ha alla fine portato la Destra conservatrice e benpensante italiana, ambiguamente afascista o non-antifascista, a depurarsi del tutto delle scorie del movimentismo rivoluzionario politicamente e culturalmente d’estrema destra e socialmente d’estrema sinistra.

Per chi tuttavia, passando dal MSI ad AN, non era ancora guarito dalle vecchie illusioni e dai sogni rivoluzionari, per chi non sapeva rinunziare del tutto a Sorel e a Corridoni ed era reticente a dichiararsi “tory” o “conservatore”, restava ancora un’illusione. I dirigenti di AN sapevano di gestire un partito “pesante”, che aveva una storia, un passato, una dignità e un’identità per quanto questo patrimonio era sempre meno spendibile e sempre piu implicito e magari rinnegato; i loro alleati di Forza Italia, per contro, costituivano un partito “leggero”, evanescente, praticamente privo di vita interna, istituzionalmente inconsistente, prono al volere del loro Padre-Padrone Presidente del Consiglio ma anche di Mediaset, di vari giornali, perfino di una squadra di calcio. Ma. ragionavano quelli di AN, Berlusconi non è eterno: e i nostri quadri dirigenti sono migliori di quelli di FI; quando il padre-Padrone, per raggiunti limiti di età o per qualunque altra ragione si tirerà da parte, saremo noi a gestire il nuovo partito della destra unificata. E insomma, com’è scappato scritto al vecchio Giano Accame su “Liberal” del 21 marzo: visto che ora c’è l’occasione, è meglio comandare. E magari chiedere gli arretrati del tempo delle catacombe.

Ma i continui sdoganamenti e i non meno continui compromessi accettati talvolta con palese ipocrisia o con trasparente malumore hanno frattanto svuotato AN di qualunque originale contenuto. Al punto da vederli talmente in malafede a ridursi ad applaudire le tesi “antimercatiste” del liberale Tremonti: tesi che avrebbero dovuto semmai esser proprio loro ad esprimere, e con ben maggiore fermezza.

Ora, gli ex-missini di AN si trovano, di fronte ai democristiani, ai craxiani e ai liberali confluiti in FI e ormai loro compagni di partito, nella condizione del soldato che aveva fatto cento prigionieri i quali pero' non gli permettevano di rientrare dai suoi compagni. Certo, molte delle loro carriere - brillanti, in alcuni casi – si salveranno. Il prezzo politico pero sara' ed e gia' la perdita d’identità: il totale cedimento a una forza liberista, occidentalista, atlantista, che ha il suo reale punto di forza nella monopolizzazione della paura di una società civile che si sente arrivare addosso la prossima crisi mondiale e reagisce solo invocando maggior “sicurezza” e rispolverando le vuote banalita retoriche del Dio-Patria-Famiglia. La miseria intellettuale delle idee d’accatto che in fretta e furia si stanno mettendo insieme nei rari think tanks di partito la dice lunga al riguardo.

Chi si salverà in caso che la crisi arrivi davvero a sconvolgere tutto, e quindi anche il quadro politico? Molto probabilmente Fini, che guarda gia oltre: e che, parlando di “nuove sintesi”, non allude al supposto nuovo equilibrio che dovrebbe stabilirsi nel Popolo delle Libertà tra ex-alleanzini ed ex-forzisti, bensi a quel che gli esperti navigatori a vista sapranno trarre da una tempesta dalla quale riemergeranno frammenti della sinistra oggi “in sonno” e del centro oggi guardingo e perplesso. Fossi uno del Popolo delle Libertà, oggi guarderei con una certa fiducia alla diarchia Fini-Tremonti. Comunque, il cammino è appena cominciato. Buon divertimento a tutti.