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Anticattolicesimo, imperialismo e spionaggio industriale nella concezione politica di F. Bacone

di Francesco Lamendola - 25/03/2009

Francesco Bacone

Francesco Bacone (1561-1626) non è stato soltanto il profeta del mondo nuovo fondato sulle macchine, sul dominio illimitato della natura e sulla ricerca esasperata del profitto economico (cfr. F. Lamendola, «Manipolazione spietata di cose, vegetali ed animali nella "Nuova Atlantide" di Francesco Bacone», consultabile sul sito di Arianna Editrice), ma anche il cantore di un sistema politico cinico e forte, erede della migliore - o peggiore - tradizione di Machiavelli; un sistema  imperialista e dedito allo spionaggio scientifico e industriale, allo scopo di assicurarsi tutti i possibili vantaggi economici.
Ma prima di considerare questo aspetto del filosofo inglese, dobbiamo soffermarci brevemente sulla «pars destruens» del suo sistema, tutta pervasa dalla orgogliosa certezza  che l'uomo tanto più è in grado di fare, quanto più conosce («sapere è potere»), e che il secolo in cui egli vive è capace di scoprire un modo migliore e più perfetto di adoperare la mente umana, per dischiudere all'uomo nuovi ed immensi campi di azione, prima del tutto ignorati: ciò che egli chiama (nell'opera «Cogitata et visa», capitolo 16), il «parto mascolino» del secolo.
Questa nuova maniera di utilizzare la mente umana consiste, essenzialmente, nell'abbandono del sillogismo, tipico strumento della «vecchia filosofia», a favore del ragionamento induttivo e dell'esperimento. Bacone, infatti, è convinto che «gli antichi siamo noi»: nessun sentimento di ammirazione per gli antichi e nessun complesso di inferiorità nei loro confronti, dunque, dal momento che, secondo lui, «la Verità è figlia del Tempo e non dell'Autorità».
In questo senso, il pensiero di Francesco Bacone non è affatto il coronamento della concezione rinascimentale (tutta pervasa, al contrario, da una sconfinata ammirazione per gli antichi, e sia pure nella persuasione che è necessario imitarli in maniera creativa e non meramente passiva), bensì rappresenta la rottura decisiva con esso e con tutta la filosofia precedente. È, alla lettera, il figlio di un modo del tutto nuovo di porsi di fronte ai problemi dell'uomo e al mondo, che appunto merita la definizione di «moderno».
Dopo aver indicato la nuova strada da percorrere per realizzare un effettivo progresso nella conoscenza della natura e, quindi, del suo sfruttamento sistematico e remunerativo, Bacone delinea la sua critica dell'ideologia, sotto forma della teoria degli «idoli» da distruggere, ossia delle false credenze e delle superstizioni, che hanno sin qui impedito il progresso dell'umanità.
Tutti gli studenti di liceo hanno imparato, come fosse una gradevole filastrocca, questa teoria degli idoli, che Bacone suddivide in quattro categorie e che, con estro poetico, denomina rispettivamente «idola tribus», «idola specus», «idola fori» ed «idola theatri». Raramente, però - temiamo - i loro insegnanti hanno mostrato loro l'arroganza intellettuale insita in questa distruzione sistematica dell'antica filosofia e il disegno, non certo dissimulato, di realizzare, a partire da tale distruzione, un progetto totalitario di dominio sul mondo, quale mai si era visto in precedenza e mai più si vedrà in seguito (dato che perfino le più mostruose applicazioni della odierna tecnoscienza sono ancora indietro rispetto all'allucinante prospettiva delineata da questo cantore delle «magnifiche sorti e progressive» del Logos calcolante e strumentale).
In breve, gli idoli della tribù corrispondono, secondo Bacone, ai pregiudizi e alle false idee che sono propri della natura umana in quanto tale (ragion per cui non si capisce come egli possa, subito dopo, esercitare una critica su di essi, a meno che non si ritenga una creatura di specie sovrumana); gli idoli della caverna sono le false credenze derivanti dalla natura dei singoli individui (e vale, anche qui, l'osservazione precedente); gli idoli del foro, o del mercato, sono il prodotto delle convenzioni e dei rapporti sociali (ad esempio la parola, sempre imperfetta e inadeguata ad esprimere obiettivamente i concetti); infine, gli idoli della scena sono quelli dovuti alle diverse correnti filosofiche e agli svariati errori da esse propagati. Anche per le ultime due categorie di idoli, o superstizioni, vale l'obiezione che Bacone non dovrebbe essere in grado di specificarli, a meno di ritenersi, egli solo, immune dai condizionamenti sociali e filosofici, ed egli solo capace di individuare e smascherare tutti gli errori che il genere umano ha commesso, in fatto di conoscenza, dalle sue origini fino al tempo presente.
In Francesco Bacone, dunque, si nota questa caratteristica doppia valenza: da un lato, egli ha il merito di porre, con forza e con chiarezza inusitate, il problema dell'ermeneutica, ossia della interpretazione dei fatti di natura e degli strumenti di cui gli uomini si servono (a cominciare, come si è visto, dalla parola stessa) per descriverli e tentare di comprenderne il meccanismo. Dall'altro, egli si comporta come se tutte le sue osservazioni non avessero alcun rapporto con la sua stessa filosofia; come se, in altri termini, quest'ultima fosse qualche cosa di ontologicamente diverso da ogni parola e da ogni filosofia precedente: la sola ed unica immune da errore; non già perché infallibile nelle proprie operazioni speculative, ma perché si collocherebbe al di fuori e al di sopra di ogni fatto speculativo, evidentemente in grazia della distruzione che essa sola avrebbe operato,  per vedere più chiaro nel mistero della natura.
La teoria degli idoli è esposta da Bacone nel primo libro della sua opera maggiore, il «Novumn Organum»; mentre nel secondo libro passa ad esporre la «pars costruens» della sua filosofia, basata sulla teoria dell'induzione, ossia sul nuovo modo di costituire le proposizioni generali e sulla determinazione della causa dei fenomeni per mezzo del processo di esclusione e dell'ipotesi. Infine, egli afferma che la scoperta  della legge (che egli chiama «forma») dei fenomeni, costituisce la ragion d'essere ed il fine della scienza e fonda le condizioni per il dominio esercitato dall'uomo sulla natura.
Il quale dominio è poi esposto, in forma narrativa (che vorrebbe essere piacevole, ma in realtà è noiosissima e letterariamente insipida, tanto da far cadere a priori, a nostro avviso, l'ipotesi che dietro le opere di Shakespeare possa celarsi proprio il Nostro), nella «Nuova Atlantide», che si pone come una vera e propria negazione di quanto sostenuto da Platone nel «Timeo» parlando, appunto di Atlantide: e cioè che gli uomini devono stare molto attenti all'uso che fanno dei mezzi per dominare la natura, pena l'autodistruzione.
Ora, l'aspetto del pensiero di Bacone su cui vogliamo soffermarci è proprio la struttura politica dello Stato ilquale dovrebbe consentire di realizzare gli obiettivi sopra indicati: emancipazione del pensiero; dominio sulla natura; ottimizzazione degli utili derivanti da un tale dominio, mediante le tecniche messe a disposizione non solo dal nuovo modo di pensare e di studiare i fenomeni, ma anche dallo sviluppo, in senso capitalistico, dei commerci e delle industrie.
Una pagina illuminante, su questo aspetto del pensiero di Bacone (da cui trae, peraltro, conclusioni diverse dalle nostre, anche perché muove da una diversa prospettiva), è stata scritta dal filosofo Giangiorgio Pasqualottto, docente all'Università di Padova, nel suo volume «Storia e critica dell'ideologia. Da Bacone a Marx» (Padova, Cleup, 1978, 
Pasqualotto parte da una considerazione molto importante: Bacone non è contrario alle «superstizioni» (intendendo soprattutto le religioni) in maniera indiscriminata; poiché, per lui, esiste sempre il rischio di cadere nella «superstizione provocata dalla volontà di evitare la superstizione» (oggi diremmo: del conformismo dell'anticonformismo). Vi sono superstizioni che possono essere tollerate, o parzialmente tollerate, per evitare eccessivi sconvolgimenti sociali; beninteso, a patto che i governanti, i quali sono al di sopra di esse (ma non spiega come ciò possa avvenire, tranne che abbracciando la sua filosofia) ne siano consapevoli e tengano sempre d'occhio la situazione, per evitare che le cose prendano una piega pericolosa.
È quasi superfluo aggiungere che, fra le superstizioni che non possono essere tollerate, Bacone include il cattolicesimo. Per lui, anglicano fedele alla corona (ma non suddito esemplare: già Lord Cancelliere sotto Giacomo I Stuart, fu travolto da uno scandalo per corruzione e dovette ritirarsi a vita privata), è un assioma di per sé evidente che i «papisti» non meritano che disprezzo e una vigile diffidenza; da loro, infatti - gente fanatica e manovrata a piacimento dai Gesuiti -, ci si deve aspettare qualsiasi nefandezza.
Scrive, dunque, il professor Pasqualotto (Op. cit., pp. 46-51):

«Indicando la funzione stabilizzatrice della superstizione, Bacone tocca anche il punto di fondamentale importanza per cui  non possono darsi il vero e il falso in assoluto, ma solo storicamente e ideologicamente. Non si dà ideologia  e verità, ma solo modi diversi di ideologia, utilizzabili  da forze politiche e sociali diverse, e anche opposte. Affiora dunque, da questo momento in poi, il volto di un Bacone non più soltanto analitici re critico dell'ideologia, ma soprattutto realista politico.
Questa dimensione si chiarifica maggiormente, poi, se si collega la tesi, contenuta nel brano citato [in cui Bacone mette in guardia dal pericolo di cadere nella superstizione dell'anti-superstizione] al ruolo politico - di riformista moderato - di Bacone, e alla sua posizione - di anglicano mediatore - nella disputa confessionale e dottrinale de tempo: la superstizione, anche nella sua forma concreta di Chiesa corrotta, viene attaccata quando è ascrivibile come connotato peculiare della confessione cattolica, ma va in qualche modo difesa quando appaia come caratteristica accidentale della confessione anglicana, al fine di bloccare ogni reazione di qualche versione estremistica del protestantesimo, in primo luogo dal rigorismo puritano. Il quadro del discorso baconiano risulta quindi affatto chiaro: la superstizione è un male necessario e strutturale, è un dato ineliminabile; pertanto è possibile non un suo trascendimento o una sua eliminazione, ma solo un suo uso, una sua gestione politica. <Nel contesto dell’Inghilterra del tempo ciò significa che essa va fatta agire sia contro il formalismo e l’immobilismo  cattolico, sia contro il rigorismo e il riformismo spinto della ‘sinistra’ protestante che va dai presbiteriani agli anabattisti A questo uso politico della superstizione preside una ‘logica’ di riformismo moderato, di gradualismo politico che utilizza il concetto di innovazione come preventivo di ogni ‘tumulto’, sia culturale che sociale:
“Certamente ogni medicina è un’innovazione; e chi non applicherà nuovi rimedi deve aspettare nuovi mali: perché il tempo è il più grande innovatore (…). Un caparbio mantenimento dell’usanza è una cosa tanto turbolenta quanto un’innovazione (…). Sarebbe bene quindi che gli uomini, nelle loro innovazioni seguissero l’esempio del tempo stesso; il quale infatti rinnova molto ma quietamente, e per gradi, appena percepibili.”
Ciò a chiaro commento e a esplicazione delle affermazioni […] secondo cui una delle cause della superstizione sarebbe “il favorire troppo le buone intenzioni, ciò che apre la strada a vanità e novità”, e per cui non vi sarebbe superstizione peggiore di quella che conduce ad allontanarsi “dalla superstizione prima accettata”; ma anche a conferma della necessità dell’innovazione come prevenzione delle reazioni all’immobilismo politico e al conformismo intellettuale. Questa ideologia moderatamente progressista  di Bacone viene ulteriormente messa a fuoco nel capitolo XV dei “Saggi”, dedicato alle “Sedizioni”: cause prime di queste sono identificate in “molta povertà e molta scontentezza”. I rimedi a tali cause e, quindi, la prevenzione delle stesse sedizioni sono da individuare in:
!) nell’allontanare la miseria dello Stato attraverso:
a) l’equilibrio commerciale;
b) gli incentivi alle manifatture;
c) la repressione del consumismo;
d) la razionalizzazione dell’agricoltura;
e) la calmierazione dei prezzi;
f) la moderazione fiscale.
2) nel fondare l’economia – sull’esempio dei Paesi Bassi – sul commercio e sul lavoro, più che su sulle materie prime;
3) nell’ampia circolazione della moneta;
4) nell’equilibrio sociale, ottenibile limitando al massimo  l’incremento di ciascuna classe sociale;
5) con la ‘tecnica della speranza’, vale a dire con l’uso politico dell’ideologia:
“Certo l’abile e artificioso allevamento e mantenimento di speranze, e il portare gli uomini di speranza in speranza, è uno dei migliori antidoti contro il veleno del malgoverno.”
Com’è facilmente osservabile, dimostrazione più evidente di realismo politico sarebbe difficile avere. È da notare, peraltro, che tale dimensione realistica contrasta, per non dire che contraddice, l’intero arco di discorso che Bacone conduce a proposito della scienza, nel quale è costante l’intento di definire un concetto di verità che sia obiettivo, neutrale, universale,: si va profilando, cioè, una frattura tra pretesa ad attingere una verità ‘super partes’ e la coscienza della necessità di farla funzionare politicamente, ‘inter partes’. Frattura, quindi, tra scienza e politica, tra ‘ragion pura’ e ‘ragion pratica’. Tuttavia è lo stesso Bacone che riconosce l’impossibilità di una verità univoca, pura, assoluta, perfetta.
“Ma io non posso dire: questa verità è una pura e chiara luce diurna che non mette in mostra – come le luci di candela – le maschere, le maschere e i trionfi del mondo in parte così maestosi e squisiti.  La verità può forse giungere al valore di una perla, che splende più di giorno;  ma non salire al valore di un diamante o di un rubino, che splende di più sotto le varie luci. La mescolanza d’una menzogna aggiunge sempre piacere”.
Scaturisce da questo passo una concezione quasi estetica della verità, che rimanda tuttavia ad una sua valutazione utilitaristica, cioè politica: il concetto di ‘piacere’ cela quello di ‘interesse’. Ed infatti Bacone prosegue con l’analisi delle varianti in cui si articola l’uso sociale e politico della verità mediante le tecniche della ‘segretezza’, della ‘dissimulazione’ e della ‘simulazione’.
“Ci sono tre gradi di questo nascondersi e celarsi. Primo, la discrezione, riservatezza e segretezza: quando uno si sottrae a farsi vedere, o a farsi afferrare qual è. Secondo, la dissimulazione nella negativa:  quando uno lascia cader segni e prove che egli non è quel che è. Terzo, la dissimulazione nell’affermativa: quando un uomo intenzionalmente finge e sostiene di essere quel che non è.”[…]
Tuttavia, una volta appurato che non si dà verità in assoluto  ma solo una serie di usi politici di essa, vien fatto di chiedersi quale sia il concetto di politica in generale che preside a tali utilizzazioni: innanzitutto è da specificare che il realismo politico baconiano si manifesta anche nel fatto che non viene fornito nessun corpus unico, nessun sistema  compatto di teoria politica, ma soltanto una serie di notazioni politiche, storiografiche e giuridiche legate a casi contingenti, a vicende della politica pratica. Non v’è dunque nemmeno, come in Machiavelli - che Bacone difende nel “De Argumentis scientiarum”- una teorizzazione del realismo politico, ma soltanto una serie di interventi su eventi specifici. Questo empirismo politico – che si legge anche nelle iniziative baconiane di riforma giuridica per una storicizzazione della casistica giudiziaria – conduce anche all’astensione dal giudizio sulla storia degli eventi politici e sulle diverse situazioni politiche: l’empirismo politico conduce al relativismo storico, per cui la storia di ciascun paese e popolo viene vista portare a costituzioni e a ordinamenti politici non paragonabili, ma soltanto assimilabili nel proprio ‘valore’ particolare. Così, ad esempio, considerando il fenomeno  delle ‘enclosures’, Bacone, alla pari di Harrington, si astiene da qualsiasi giudizio etico sulle drammatiche conseguenze sociali da esse prodotte e si limita a constatare che hanno condotto alla situazione, economicamente negativa, dello spopolamento delle campagne con la conseguente diminuzione degli effettivi a disposizione delle forze militari, il cui peso è decisivo per il mantenimento e lo sviluppo di uno Stato forte.
Da ciò si ricavano indirettamente i contorni essenziali della nozione baconiana di Stato. Ma la loro delineazione può essere rinforzata da ulteriori precisazioni: in quanto è stabilita un’analogia tra fisica e politica, si possono considerare gli stati come corpi volti a realizzare tre condizioni fondamentali, quella di conservarsi, quella di perfezionarsi e quella di propagarsi. Allora due sembrano essere i cardini della ‘teoria’ baconiana sullo Stato: 1., il fatto che questo vada considerato come corpo fisico comporta che sia retto da leggi che si sottraggono all’arbitrio del Principe, da leggi oggettive e universali al pari di quelle che regolano gli eventi della natura. Conservarsi, perfezionarsi e propagarsi non sono allora tre condizioni accidentali dell’esistenza dello Stato, ma diventano leggi naturali per cui vi è la necessità – naturale come il sorgere del sole – che lo Stato sia forte e in espansione, cioè monarchico ed imperiale. Non a caso, quindi, Bacone considera come condizione essenziale, per l’unione delle leggi, l’unione della corona e questa, a sua volta, condizione essenziale per un programma imperiale che riunisca all’Inghilterra e alla Scozia Irlanda, Paesi Bassi e America.
2. Ciò che però più conta, ai fini di un ulteriore chiarimento del discorso sull’ideologia, è sottolineare l’analogia tra fisica e politica, che permette di instaurare come naturali, vale a dire come eterne ed universali, le esigenze storiche di forza interna e di potenza imperiale dello Stato inglese: in questa trasformazione di condizioni e di scopi  storicamente definiti, relativi e contingenti, in condizioni e scopi universali ed eterni, assoluti e necessari, consiste il fulcro del processo di ideologizzazione. Ma, a questo punto, ci si potrebbe chiedere come si concili un tale processo di ‘astrazione’ col realismo e l’empirismo politico poco prima considerati. In effetti il contrasto risulta più apparente che reale, e si dà come contrasto logico più che politico: Bacone non formula una teoria politica complessiva che contraddica il relativismo storico con cui si assumono i suoi contenuti, ma assume questi contenuti entro leggi che vengono fatte valere come ‘naturali’. Non parte da una teoria generale all’interno della quale vengano colti, spiegati e sistemati singoli elementi empirici, ma parte da una serie di tali elementi per ricavare dal loro 'comportamento' le leggi universali ed eterne che lo regolano: quindi realismo ed empirismo politico sono le condizioni della teoria politica, non viceversa. Non solo: realismo ed empirismo politico sono la norma regolativa, il principio informatore e legislatore dell'uso politico dell'ideologia. Infatti questa è sì il risultato di una 'astrazione', di una trasformazione del contingente in necessario e del relativo in assoluto, ma è anche e soprattutto strumento di realismo politico: una volta costituita a partire dagli elementi empirici, essa non diventa principio, norma, legge.  Principio, norma e legge è soltanto la ragione politica che la usa.  Questo principio della politica si esercita su qualsiasi 'teoria', sia questa nella forma della superstizione-religione, sia nella forma della filosofia naturale. L'esercizio di questo primato, proprio in quanto politico e non semplicemente teorico, non può esprimersi direttamente su queste forme, ma, prima di tutto, sulla loro traduzione istituzionale: così non è solo la purezza della dottrina che per Bacone va salvaguardata, ma è soprattutto l'organizzazione episcopale che va mantenuta come parte organica della burocrazia statale, per conservare e organizzare la fede a livello sociale. Analogamente nei confronti della scienza: la "Nuova Atlantide" può forse sembrare che contenga la proposta più di un'organizzazione per la ricerca scientifica che di una specifica articolazione statale finalizzata allo sfruttamento delle innovazioni, ma è certo che la 'storia naturale è impresa di re o di papa', e che "fine dell'istituzione è la conoscenza  delle cause e dei segreti delle cose allo scopo di ampliare i confini dell'impero umano verso una più completa attuazione di tutte le cose che sono attuabili". Ora, la locuzione "impero umano" contenuta in quest'ultimo passo potrebbe far pensare proprio al contrario della politicità della scienza, cioè alla sua naturale universalità; ma, se viene messa a confronto con il contenuto del primo passo citato, non può impedire che si concluda con la constatazione della necessità di quella politicità; se, infatti, non si dà scienza all'infuori di un'impresa pubblica, di un 'collegio' o di un 'ordine', essa risulta inevitabilmente regolata  dal potere particolare - di parte - che stabilisce e gestisce tali istituzioni, e non certo guidata dal fine universale di "ampliare i confini dell'impero umano". Quell'"umano", infatti, va sostituito con "inglese", di cui è la tradizione ideologica.  Tale sostituzione è legittimata non soltanto dai passi in cui Bacone ricorda l'importanza di organizzare la produzione scientifica in vista di un generale accrescimento della politica e dell'economia inglesi, ma anche su chiare affermazioni sull'etica disincantata che regge la comunicazione di informazioni scientifiche: infatti i dodici discepoli della "Nuova Atlantide" navigano per paesi stranieri "sotto le spoglie di sudditi di altre nazioni  (…). Essi ci portano libri, estratti e modelli di esperimenti di tutte le parti del mondo. Noi li chiamiamo mercanti della luce." Qui l'ideologicità di quell'"umano" , cioè l'apparenza della sua universalità, è completamente smascherato: qui viene celebrato, senza mezzi termini, il principio dello spionaggio internazionale nel campo scientifico e industriale; il che presuppone il riconoscimento realistico di una concorrenza tra Stati che agisce alla base e fuori di ogni "frase" ideologica impegnata a proclamare che "l'ordine o società detta Casa di Salomone si dedica allo studio delle opere e delle creature di Dio" o che "la scienza deve essere coltivata in spirito e carità".

Ma certo: come poteva mancare, nella prospettiva politica di Bacone, quest'ultimo accenno allo spirito e alla carità che debbono presiedere alla ricerca scientifica, vera e propria espressione  dell'ipocrisia imperiale britannica, che sempre cerca di ammantare di nobili ideali le operazioni più ciniche e spregiudicate, volte unicamente al perseguimento della propria potenza?
Non basta, dunque, compiere quella operazione altamente ideologica, cioè altamente ipocrita (la «falsa coscienza» di marxiana memoria), che consiste nel contrabbandare l'interesse egoistico della nazione inglese, decisa a servirsi di qualunque mezzo pur di affermarsi, per l'interesse del genere umano. No: è necessario anche infiorare il discorso con questo mistico invito a coltivare la scienza in spirito e in carità; dopo aver teorizzato nel modo più esplicito che la scienza altro non è se non lo strumento del dominio politico sul mondo circostante.
Nessuna meraviglia, del resto: abituati come siamo a vedere le potenze anglosassoni (ad esempio, nella Carta Atlantica del 1941) spacciare i loro interessi politico-economici per sacri principi dell'umanità, le parole di Bacone non riescono certo a meravigliarci. Non è, poi, la stessa cosa cui abbiamo assistito nel 2003, allorché il governo statunitense decise di lanciare l'invasione dell'Iraq non per assicurarsi il vile petrolio, ma per proteggere il genere umano dalle tremende armi di distruzione di massa di Saddam Hussein  - armi che non esistevano affatto?
Eppure - è sempre Bacone ad insegnarlo - quel che conta non sono i fatti della politica e della società, ma il modo in cui il governo riesce a presentarli e farli recepire dall'opinione pubblica; quel che conta, insomma, è la propaganda (che lui, alquanto disinvoltamente, definisce "tecnica della speranza"). E la macchina statale inglese è sempre stata maestra della propaganda, al contrario di quella di altre nazioni.
Così, mentre il mondo, per due volte nel XX secolo, ha gridato alla barbarie davanti alla guerra sottomarina condotta dalla Marina germanica nel corso delle due guerre mondiali, né l'una né l'altra volta l'opinione pubblica mondiale si è minimamente commossa per le conseguenze del blocco marittimo inglese delle coste europee, blocco che ha condannato alla fame centinaia di milioni di esseri umani.
Oppure, mentre l'esercito tedesco violava, nel 1914, la sovranità del Belgio, nessuno si accorse che, nel corso del medesimo conflitto, la Gran Bretagna violava silenziosamente, ma senza alcun imbarazzo, la sovranità di tutta una serie di nazioni neutrali, dall'Egitto alla Grecia, dalla Persia alla Russia (quest'ultima, dopo la pace di Brest-Litowsk), passando per la sanguinosa repressione dell'insurrezione indipendentista irlandese (la tragica «settimana di sangue» di Dublino, nella Pasqua del 1916).
C'è, comunque, una dimensione realmente universale nel pensiero politico di Francesco Bacone, ed è la conclamata volontà di attuare, mediante la scienza, tutte quelle cose che sono attuabili; ossia la più radicale, la più irresponsabile, la più folle dichiarazione di arroganza del Logos strumentale e calcolante che sia mai stata uscita da una bocca umana. Altro che coltivare le scienze in spirito e in carità: queste sono le paroline dolci, buone per la predica domenicale al popolino devoto. Ma la politica, per Bacone, è tutta un'alta cosa; e, per attuare i suoi sconfinati disegni di dominio tecnico sul mondo, non ci vuole di meno che la forza politica, economia e militare «di un papa o di un re»; ossia, fuor di metafora, dello Stato moderno, organizzato in vista di una guerra perenne contro tutto e contro tutti.
Ecco, dunque, che lo spionaggio industriale - innocentemente presentato nella «Nuova Atlantide» come una forma di attività sagace, ma normale e, in fondo, rispettabilissima - acquista il suo giusto rilievo nella prospettiva di dominio illimitato e di guerra perpetua che la sua concezione organicistica dello Stato presuppone e giustifica.
Viene anzi il sospetto - che non è poi un semplice sospetto - che anche l'idea di tollerare un certo grado di «superstizione» all'interno della società, abbia uno scopo recondito molto diverso da quello, dichiarato, di voler evitare il contraccolpo di una sua radicale estirpazione; ossia quello di mantenere sempre viva la potenziale minaccia di un pericolo sociale e politico, onde poter disporre sempre di una organizzazione poliziesca e militare ben collaudata; e, più ancora, di mantenere costantemente l'opinione pubblica in uno stato di tensione, per convogliare su un nemico di comodo tutte le frustrazioni dei sudditi.
Insomma, la teoria di uno Stato forte e aggressivo, sempre pronto ad entrare in azione contro gli Stati che competono con esso sul terreno dell'espansione imperiale, presuppone che sia accuratamente coltivata la psicosi del nemico interno (i cattolici, ad esempio, con le loro congiure e i loro supposti progetti di rivolta), per tenere alta la tensione quanto basta ad una sistematica e perenne mobilitazione di quella carica di aggressività, senza la quale uno Stato non può alimentare, dal punto di vista psicologico, le proprie ambizioni di potenza e di espansione.
Così, nel regno di Elisabetta, e poi in quello di Giacomo I Stuart, i cattolici, se non ci fossero stati, li si sarebbe dovuti inventare: nel senso che i servizi segreti avrebbero dovuto creare la sensazione di una loro presenza oscura e minacciosa, di una loro estrema pericolosità politica.
"Mutatis mutandis", chi abbia seguito le vicende che videro l'esplosione della guerriglia dell'Irish Republican Army negli anni Settanta del Novecento, difficilmente può sottrarsi all'impressione che il governo di Margareth Thatcher abbia perseguito deliberatamente l'obiettivo di provocare quell'evento, magari per distrarre l'opinione pubblica dalle durissime lotte sindacali allora in corso, e particolarmente quella dei minatori. A una analoga funzione sembra aver risposto la campagna di guerra per la riconquista delle Isole Falkland-Malvine, nel 1982, dopo il colpo di mano sull'arcipelago sferrato dai generali argentini.
Francesco Bacone, dunque, non fu solo il campione dello scientismo e il profeta della illimitata manipolazione della natura da parte dell'uomo; fu anche il convinto assertore di una idea della politica basata sul «sacro egoismo» nazionale, sull'imperialismo, sulla discriminazione religiosa, sullo spionaggio scientifico e industriale: in breve, sulla competizione sfrenata di ogni Stato nei confronti degli altri, il cui risultato non può essere che la guerra perpetua.
Francesco Bacone, dunque, è il vero teorico del crepuscolo della politica, intesa - come la intendevano i Greci - come l'arte di armonizzare e comporre i conflitti, per il vantaggio comune; con, in più, quella tipica nota di ipocrisia anglicana, consistente nell'ammantare i fini più egoistici   con un alone di universalità disinteressata.
Cinismo e ipocrisia: questa la lezione politica di Francesco Bacone; un machiavellico che non possiede nemmeno la tensione ideale del maestro, la quale - almeno in parte - riscatta il crudo realismo del «fine che giustifica i mezzi».