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Nazionalizzazioni e welfare: il Novecento che ritorna

di Luigi Tedeschi - 30/03/2009

    

L’approvazione del senato americano del piano di sostegno all’economia voluto da Obama lo scorso 10 febbraio per 838 miliardi di dollari, l’intervento complessivo del governo USA dall’inizio della crisi ammonta a 10 trilioni di dollari. Eppure Wall Street ha reagito negativamente, registrando ribassi di circa il 5% e nuove perdite si sono susseguite nelle settimane successive. Permane una costante sfiducia da parte degli investitori, che si aspettavano dal ministro dal Tesoro Geithner, oltre che linee generali di intervento, misure concrete di sostegno al sistema bancario. In realtà questa crisi ha posto in discussione i fondamenti stessi del sistema economico liberista. A suscitare la sfiducia degli investitori (così come accadde nel 1929), è determinante il fatto che la crisi non può essere affrontata senza l’intervento dello Stato, che comporta di per sé limitazioni alla libertà d’impresa, pregiudicando la sopravvivenza stessa della economia di mercato. Senza l’intervento dello Stato i fallimenti del sistema bancario si sarebbero moltiplicati a catena, ma la prospettiva di eventuali nazionalizzazioni delle banche più esposte (soluzione peraltro messa in atto da alcuni paesi europei), è estranea al sistema economico e alla cultura politica americana. In tal modo, si è verificata una situazione di stagnazione in cui, da una parte l’intervento dello Stato atto a sostenere le perdite bancarie è indispensabile, ma la sua invasività deprime la fiducia dei mercati, dall’altra lo Stato, pur impiegando denaro pubblico, non assume il controllo degli istituti di credito. Ci si chiede allora: se i contribuenti americani sopporteranno il peso della crisi, quali indiretti finanziatori delle perdite bancarie, qualora subentrasse la ripresa economica, parteciperanno forse agli utili? Sappiamo per esperienza, che questo sistema economico a base finanziaria non genera alcuna ricaduta sociale dei propri profitti. Tutte le misure economiche a sostegno del sistema bancario, dai ripetuti ribassi dei tassi di interesse alle periodiche iniezioni di capitali, non hanno finora sortito effetti su questa recessione economica che produce effetti sempre più devastanti. Le iniezioni di capitale sono state effettuate finora senza precisi vincoli e pertanto, le banche, anziché erogare credito nei confronti di una economia stagnante, hanno continuato a concedere “bonus” ai dirigenti, distribuire dividendi, acquisire nuove banche, le cui partecipazioni, dopo i verticali crolli borsistici, si presentano appetibili. Il sistema bancario, non sottoposto ai necessari vincoli, ha continuato a perseguire i propri obiettivi strategici, venendo meno alla sua funzione primaria istituzionale, quella di erogare credito.

LA PANACEA DELLE “BAD BANK”                                                                                                                                   
E’ convinzione diffusa che non può essere risanato il sistema creditizio senza che prima non vengano depurati i bilanci delle banche dai “titoli tossici” mediante il loro trasferimento ad una “bad bank” aggregatrice, costituita dallo Stato con il concorso dei privati. Ma tale misura presenta difficoltà oggettive circa la valutazione di detti “titoli tossici”: infatti se questi venissero sottostimati, la quantità di liquidità erogata verso le banche sarebbe insufficiente, mentre se tali “titoli tossici” venissero sopravvalutati, l’onere a carico del contribuente sarebbe eccessivo e, data la incipiente recessione, con conseguente prevedibile drastica riduzione delle entrate fiscali, tale operazione si rivelerebbe inattuabile. Si prevede infatti che il bilancio statale americano per il 2009 riporterà un deficit di circa 2/3 trilioni di dollari. Lo Stato americano quindi, per far fronte alle esigenze di rivitalizzazione del sistema bancario, sarebbe costretto ad emettere buoni del Tesoro che la Federal Reserve potrebbe acquistare solo mediante nuove massicce emissioni monetarie. Tali provvedimenti potrebbero provocare effetti devastanti: svalutazione verticale del dollaro e fuga repentina dei capitali investiti nel debito pubblico americano dei principali investitori, quali la Cina, il Giappone, l’Arabia Saudita. In ogni caso il dollaro non sarebbe più valuta di riserva, con ripercussioni su scala mondiale difficilmente controllabili.
L’Europa tuttavia non versa in migliori condizioni. Secondo dati dell’Ecofin i “titoli tossici” detenuti dalle banche europee ammonterebbero a oltre 18 trilioni di euro. La Commissione Europea valuta  che tali titoli “pesano” per il 44% sui bilanci delle banche. Anche in Europa è condivisa l’esigenza che gli Stati facciano fronte a tale situazione acquistando “titoli tossici”. Ma questa operazione comporterebbe il vorticoso incremento del debito pubblico, che finirebbe per assorbire le risorse dell’intero continente.
Si sta inoltre diffondendo una strategia prudenziale delle banche (specie in Italia), che consiste nell’inasprimento selettivo dei criteri di erogazione del credito alle imprese. Tale atteggiamento aumenta le difficoltà di fuoriuscita dalla depressione e contribuisce alla scomparsa del tessuto economico diffuso delle piccole e medie imprese.

NO AL PROTEZIONISMO
Da quanto precede dunque, emerge che non esiste alternativa alla programmazione di massicce nazionalizzazioni del sistema bancario. Provvedimenti questi che preluderebbero al controllo  statale dell’economia e quindi, ad ampie trasformazioni in fieri del sistema economico mondiale. Tuttavia tale evoluzione non è pensabile, secondo gli intendimenti dei governi dell’Occidente, che invece orientano i lori sforzi alla conservazione dell’attuale ordine mondiale globalizzato. A conclusione del recente G7, tutti i Paesi partecipanti hanno riaffermato il loro dogma liberista del “No al protezionismo”. Si auspica tuttavia l’avvento nuove istituzioni internazionali che dettino regole atte a disciplinare la finanza mondiale. Ci si chiede comunque, quali autorità possano essere garanti del rispetto di tali normative, specialmente dopo l’evidente fallimento del FMI e della Banca mondiale, dato il progressivo processo di svuotamento di sovranità degli Stati. Questi ultimi, quali organismi politici sovrani, potrebbero adempiere a tali funzioni, solo a patto di ripristinare la loro sovranità economica ed il controllo diretto delle operazioni finanziarie. Ma gli Stati, quali garanti degli interessi dei popoli sovrani, sono per loro natura “protezionisti”. In realtà, le istituzioni dell’Occidente non hanno preso atto del fallimento sistemico dell’economia globalizzata, ma hanno solo condannato gli “eccessi” di un sistema liberista che di per sé non sopporta regole e barriere che ne ostacolino lo sviluppo. Pertanto, l’Occidente è prigioniero di una contraddizione devastante: si vuole superare la crisi rivitalizzando un sistema finanziario globale che è esso stesso responsabile della recessione economica in atto. Ma a questo punto c’è anche da chiedersi se la ricostruzione del sistema creditizio possa essere la sola ricetta salvifica per una economia di produzione già da anni in progressivo disfacimento. Il debito delle imprese ha sempre costituito un onere che ha pregiudicato le potenzialità di sviluppo e occupazione delle imprese. E soprattutto la stagnazione dei redditi e la disoccupazione diffusa, unitamente all’assenza di politiche di redistribuzione del reddito, hanno condotto da almeno 15 anni a successivi decrementi del potere d’acquisto dei consumatori. Le banche, inoltre, non hanno certo contribuito allo sviluppo dell’economia, in quanto non hanno di certo finanziato la produzione, ma hanno sostenuto la domanda tramite il debito al consumo, oltre a dilapidare il pubblico risparmio finanziando la speculazione irresponsabile degli hedge found, degli equity, dei derivati.
Occorre rilevare infine l’impossibilità di creare nuovi posti di lavoro a fronte di una disoccupazione crescente (tra dicembre e gennaio negli USA si registra un incremento della disoccupazione per 1.680.000 unità), dato il processo di delocalizzazione delle imprese verificatosi negli ultimi anni. Il deficit commerciale USA è conseguenza della delocalizzazione selvaggia della produzione, che ha comportato un calo del Pil pari a 1,5 trilioni di dollari.
Il rilancio degli investimenti nelle infrastrutture pubbliche potrebbe essere un elemento determinante per la ripresa economica, ma in tal caso gli appalti dovrebbero essere riservati ad imprese e manodopera locali: può funzionare solo con dosi massicce di protezionismo.

KEYNESISMO DI GUERRA E DOGMI LIBERISTI ASSOLUTI
In tale contesto recessivo, gli USA di Obama vogliono comunque incrementare l’impegno militare in Afghanistan. Con amara ironia, esperti economici americani si chiedono se tali iniziative belliche non possano rappresentare uno sbocco alla disoccupazione montante. Vediamo dunque riproporsi la logica del keynesismo di guerra. Ma ci si chiede con quale esito, data la scarsa probabilità di successo delle missioni USA in Iraq e Afghanistan.
I dogmi ideologici dell’economicismo liberista non sono stati comunque intaccati dalla attuale recessione. In tutto l’Occidente infatti i guru dell’economia interpretano questa crisi come un naturale momento di trasformazione evolutiva del capitalismo e pertanto, nella presente fase recessiva, individuano il momento propizio per operare profonde riforme in tema di flessibilità del lavoro, di assistenza e previdenza, di riduzione generalizzata della spesa sociale. In Italia infatti, è in programma una riforma dei contratti di lavoro che agganci le retribuzioni alla produttività. In genere nelle fasi recessive la produttività diminuisce con il calo della produzione. In America, nell’ultimo trimestre 2008 la produttività è aumentata del 3,2%, perché è cresciuta la disoccupazione: a meno unità lavorative impiegate, fa riscontro l’aumento della produttività. Da ciò si comprende come la produttività non è di per sé un indice di crescita, né, ai fini dello sviluppo, è un elemento che garantisce la redistribuzione del reddito prodotto.

RITORNANO I FANTASMI DEL NOVECENTO
In una fase di stagnazione produttiva, occorrerebbe incrementare il potere d’acquisto e quindi la domanda interna, prima che correre in soccorso delle banche perché eroghino credito. Tuttavia, per sostenere la domanda interna sarebbero necessari programmi di espansione della spesa pubblica e indebitamento degli stati. Questa strategia è oggi però difficilmente praticabile, poiché, data l’interdipendenza tra le economie tipica dell’era della globalizzazione, si rischierebbe di finanziare con la spesa pubblica di un singolo paese occidentale la crescita delle esportazioni dei concorrenti asiatici presenti nel mercato. Prima che scongiurare i guai derivanti da eventuali barriere protezionistiche, bisognerebbe invece prendere coscienza delle distorsioni in atto, rese possibili dall’economia globalizzata. Tra tutte le possibili analisi della crisi sistemica in atto, nel campo delle possibili soluzioni riappaiono costantemente i fantasmi dello statalismo, delle nazionalizzazioni, dello stato sociale, del protezionismo, che però si vogliono comunque esorcizzare, quali riviviscenze del giammai tanto vituperato novecento. Ma occorre oggi prendere coscienza della realtà oggettiva di un modello di sviluppo storicamente ormai superato, perché non più in grado di risolvere nulla. Nessuno elabora una seria analisi dei costi economici e sociali che comporta la sua sussistenza. Infatti, il beneficiario parassitario dell’assistenzialismo statale è proprio il sistema finanziario liberista. L’imputato principale di un virtuale processo al liberismo è dunque il sistema del debito, quale fonte si sostentamento parassitario di una sovrastruttura finanziaria che si sovrappone alla economia della produzione. Non mancano tesi che teorizzano nuovi sviluppi dell’economia che possano superare l’attuale ordine economico liberista ormai in caduta libera. Citiamo al tal proposito Richard C. Cook, autore del cosiddetto “Piano Cook”, che consiste “in un pagamento di 1.000 dollari al mese pro capite da parte del governo attraverso un sistema di voucher che sono poi depositati presso una nuova serie di casse di risparmio locali che erogherebbero prestiti all’1% di interessi per le piccole imprese, la produzione locale e l’agricoltura familiare. I voucher sarebbero un dividendo, distribuito come un’azione equa della nostra stupefacente economia di produzione, senza dover ricorrere alla tassazione governativa o al debito. Il dividendo fornirebbe una sicurezza sul reddito, eliminerebbe la povertà e avrebbe come risultato la rinascita dell’attività economica locale e regionale, e inizierebbe il suo corso immediatamente, non <alla fine>”.
Tutto ciò oggi appare utopistico, ma poiché tale utopia ha il crisma della oggettiva concretezza storico – sociale, possiamo affermare che la fuoriuscita dall’era capitalista non appare poi così lontana.