Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il cristianesimo senza misteri di John Toland è una religione svuotata e anestetizzata

Il cristianesimo senza misteri di John Toland è una religione svuotata e anestetizzata

di Francesco Lamendola - 30/03/2009


John Toland (1670-1722) è stato il primo di quei pensatori cui George Berkeley - che fece della propria filosofia tutta una battaglia contro costoro - definì con l'espressione di «free thinkers», ossia «liberi pensatori» (o, come essi stessi preferivano chiamarsi, «deisti»).
Nella sua opera più famosa, «Il cristianesimo senza misteri» (1696), egli si propose di dimostrare la perfetta ragionevolezza della fede, sostenendo che la ragione è superiore alla fede, ma solo nel senso in cui noi diciamo che una grammatica greca è superiore al Nuovo Testamento: perché noi ci serviamo della grammatica per comprendere la lingua, così come ci serviamo della ragione per comprendere quel libro.
Le tesi razionalistiche di quella sua prima opera procurarono al Toland, trasferitosi da Londra ad  Hannover e poi a Berlino, il favore della regina di Prussia, Sofia Carlotta, alla quale dedicò, per riconoscenza, le «Lettere a Serena» (1704), nelle quali, polemizzando contro Spinoza e ispirandosi a motivi materialistici, contrappose la originaria semplicità del «culto naturale» dei popoli antichi alle usanze superstiziose delle religioni tradizionali (anticipando, in un certo senso, il mito illuminista del «buon selvaggio»).
Ne «Il cristianesimo senza misteri», Toland riprende alcuni temi centrali trattati da Locke, non tanto nel libro «La ragionevolezza del cristianesimo», che era stato pubblicato l'anno prima (tanto che alcuni supposero, forse a torto, che Toland non fosse che un abile profittatore del dibattito aperto dalle idee dell'altro), quanto nel «Saggio sull'intelletto umano».
In particolare, egli riprende e cerca di oltrepassare il tentativo lockiano di conciliare la gnoseologia basata sui lumi della ragione con l'esigenza di preservare un nucleo di verità inaccessibili alla ragione stessa, e che sono oggetto della Rivelazione. Locke si era mosso nella direzione di riconoscere una distanza incolmabile tra l'essenza nominale di una determinata cosa e la sua essenza reale: precorrendo Kant, potremmo anche dire tra la cosa come «fenomeno», accessibile ai sensi e alla ragione, e la cosa in se stessa o «noumeno», che sta al di là dell'esperibile. Toland, invece, si sforza di superare questa incoerenza della gnoseologia lockiana, non contestando, ma, al contrario, facendo leva proprio sul principio della inconoscibilità del substrato ontologico delle proprietà relative alle cose.
In base a tale principio, Toland fa osservare che, se tutta la realtà - fisica e spirituale - è un mistero, in quanto rimane celata alla nostra vista la sua struttura intrinseca, viene meno la distinzione qualitativa fra tale realtà e i cosiddetti misteri della religione; ossia, in altre parole, fra la nostra conoscenza della natura e quella di Dio.
Ricalcando Locke, Toland distingue tre generi di idee: quelle conformi alla ragione, quelle superiori alla ragione, quelle contrarie alla ragione.
Le prime sono quelle proposizioni di cui «possiamo scoprire la verità mediante l'esame e lo sviluppo delle idee che abbiamo dalla sensazione e dalla riflessione».
Le seconde sono «quelle proposizioni la cui verità o probabilità non possiamo dedurre per via razionale da tali principi».
Le terze sono, infine, «quelle proposizioni che risultano incoerenti o inconciliabili con le nostre idee chiare e distinte».
Ora, scartate le proposizioni del terzo tipo, ossia quelle contrarie alla ragione, restano quelle del primo e del secondo; ma anche quelle del secondo, ossia quelle desunte dalla Rivelazione, non devono essere intese in altro modo che come dei semplici mezzi di informazione.
In altri termini, le verità rivelate non sono affatto dei misteri, se per mistero intendiamo qualche cosa di inaccessibile alla ragione; bensì delle proposizioni aventi carattere di possibilità e di comprensibilità, esattamente come qualsiasi altra proposizione relativa a delle verità di fatto: in definitiva, qualche cosa di perfettamente conforme alla ragione.
Toland, così, ritiene di aver tolto quella categoria che, per Pascal (ma anche per Kierkegaard) è essenziale nell'accostarsi al cristianesimo, ossia la categoria dello «scandalo». Non c'è proprio niente di scandaloso nel messaggio cristiano; anzi, è tutto perfettamente comprensibile, ragionevole e naturale: qualunque persona di buon senso non può che assentire alle sue verità, poiché esse sono conformi alla ragione.
Che, una volta portata a termine siffatta operazione, quel che rimane del cristianesimo non sia altro che un guscio vuoto, a Toland non sembra venire in mente; a meno che si debba pensare che egli, dietro la maschera della ragionevolezza, abbia puntato proprio ad attaccare frontalmente il contenuto soprannaturale del cristianesimo, mostrandone - in maniera indiretta - l'insostenibilità logica. In tal caso, avrebbe visto giusto il vescovo Berkeley, il quale nei «liberi pensatori» vedeva il pericolo mortale di una riduzione del cristianesimo alla misura di una verità puramente umana, dunque, in sostanza, di una sua abolizione in quanto religione.
Peraltro, già alcuni contemporanei di Toland fecero notare il punto debole della sua argomentazione: ossia la pretesa di aver abolito la dimensione del mistero dal cristianesimo, al prezzo di aver introdotto il concetto di mistero in ogni oggetto della conoscenza umana. Il suo superamento di Locke, infatti, è stato solo parziale: egli, sì, estende il relativismo gnoseologico del maestro all'ambito della religione, ma non contesta affatto l'idea che le cose in sé, ossia la loro essenza reale, ci sfuggano irrimediabilmente; e, così facendo, riesce a parificare il cristianesimo ad una serie di proposizioni puramente razionali e naturali, solo ammettendo che per ogni cosa noi non possiamo che conoscere la superficie (l'essenza nominale).
Ma vediamo da vicino alcuni passaggi chiave dell'argomentazione del Nostro.
Scrive, dunque, John Toland nel «Cristianesimo senza misteri» (in: Chiara Giunti,  «John Toland e i liberi pensatori del '700», Firenze, Sansoni, 1974, pp. 56-59):

«Siamo giunti infine a esaminare se qualche dottrina del Vangelo è superiore , per quanto non contraria, alla ragione. Questa espressione è intesa in un duplice significato. In primo luogo essa indica una cosa comprensibile in se stessa, ma così nascosta da espressioni metaforiche, simili e cerimonie, che la ragione non può penetrare attraverso il velo, né vedere che cosa c'è sotto di esso, finché non venga tolto. In secondo luogo sta a significare una cosa per sua natura incomprensibile,  che è impossibile giudicare in base alle nostre facoltà e idee comuni,  per quanto rivelata in modo assolutamente chiaro. In entrambi questi significati  l'espressione "essere al di sopra della ragione" si identifica col "mistero": e in effetti questi sono termini equivalenti in teologia.[…]
Discuterò questo punto con tutta la chiarezza di cui sono capace. E anzitutto affermo che niente può definirsi un mistero perché non ne abbiamo un'idea adeguata, o una percezione distinta di tutte le sue proprietà contemporaneamente: in questo caso infatti tutto sarebbe un mistero. La conoscenza delle creature finite progredisce per gradi, via via che gli oggetti si presentano all'intelletto.. […] Si dice che noi conosciamo mille cose, e non possiamo dubitarne: tuttavia non abbiamo mai una rappresentazione completa d tutto ciò che appartiene loro.  Io concepisco perfettamente questo tavolo sul quale sto scrivendo ora; comprendo che sia divisibile in parti al di là di ogni immaginazione; ma dovrei dire che esso è al di là della mia ragione perché non posso contare queste parti, né percepire distintamente le loro qualità e forme? […] La ragione è che Dio ha provveduto affinché, senza conoscere nulla dei corpi all'infuori delle loro proprietà, posiamo capire di essi esclusivamente ciò che è utile e necessario a noi:  e questo è tutto ciò che occorre alla nostra situazione presente. Così i nostri occhi non ci sono dati per vedere oggetti di ogni dimensione, né forse alcuna cosa comune è in sé, ma solo  in quanto ha qualche relazione con noi.  Ciò che è troppo piccolo, così come sfugge alla nostra vista, così non può procurarci dei danni o dei vantaggi: e noi abbiamo una vista più chiara dei corpi quanto più ci avviciniamo ad essi, poiché allora diventano più utili o più dannosi; ma quando ce ne allontaniamo, perdiamo la percezione di essi insieme con i loro influssi. […] Per parlare in modo corretto dunque si deve considerare che noi compendiamo una cosa quando ci sono note le sue principali proprietà e le loro diverse funzioni: infatti in tutti gli autori precisi, "comprendere" ha lo stesso significato di "conoscere"; e poiché non possiamo avere alcuna idea di quanto non è conoscibile, esso non rappresenta nulla per noi.  È perciò inesatto dire che una cosa p al di sopra della nostra ragione, perché non sappiamo  di essa più di quanto ci riguarda, e ridicolo sospendere le nostre indagini su di essa per questo motivo. […] Ora, osservando che le definizioni delle cose sono ricavate dalle loro proprietà note, e che nessuna proprietà è conoscibile all'infuori di quelle che ci riguardano, o servono a scoprirne altre che ci riguardano,  non possiamo essere responsabili di non comprenderne altre, né ci può essere chiesto di più da uomini ragionevoli, e meno ancora dalla divinità infinitamente saggia. […]
L'applicazione di questo discorso al mio argomento non comporta difficoltà: in primo luogo risulta che nessuna dottrina cristiana, così come nessun comune fenomeno naturale, può essere considerata un mistero  perché non abbiamo un'idea adeguata o completa di tutte le proprietà  che le appartengono. In secondo luogo, che ciò che è rivelato nella religione  in quanto estremamente utile e necessario, deve e può essere facilmente compreso e trovato in accordo con le nostre nozioni comuni, come avviene per le proprietà da noi conosciute del legno o della pietra, dell'aria, dell'acqua e simili.  E in terzo luogo che quando noi spieghiamo tali dottrine in modo altrettanto familiare di quello che usiamo per la nostra conoscenza  delle code naturali (e questo io sostengo  che è possibile), possiamo dire con ragione di comprendere le une come le altre. […]
Come non conosciamo tutte le proprietà delle cose, così non possiamo mai concepire  l'essenza di qualsiasi sostanza nel mondo. Per evitare ambiguità. Distinguo, seguendo un ottimo filosofo moderno, l'essenza nominale di una cosa da quella reale. L'essenza nominale è una sintesi di quelle proprietà e modi che noi osserviamo principalmente in una cosa, ai quali attribuiamo una comune denominazione o nome.  Così l'essenza nominale del sole è un corpo luminoso, caldo e rotondo, posto a una certa distanza da noi, fornito di un movimento regolare e costante.  Chiunque sente pronunziare la parola "sole" ne ha questa idea. Può avere in mente un numero maggiore  delle sue proprietà, oppure non tutte queste: ma è sempre un insieme di modi e proprietà che forma la sua idea. […]
Ma l'essenza reale è quella struttura intrinseca di una cosa che è la base o il fondamento di tutte le sue proprietà, da cui esse per natura derivano o risultano. Ora, sebbene siamo convinti che i modi delle cose debbono avere un tale soggetto in cui esistere (poiché non possono sussistere da soli), tuttavia  ignoriamo completamente in che cosa esso consista., Noi comprendiamo nel modo più distinto le proprietà già ricordate del sole, e quelle per cui ci sono noti piante, frutti, metalli, ecc.; ma non abbiamo modo di conoscere i diversi fondamenti di quelle proprietà, per quanto siamo al tempo stesso assolutamente  sicuri che proprietà del genere debbano necessariamente esistere. Perciò  le qualità osservabili delle cose  sono tutto ciò che intendiamo con i loro nomi,  e per questa ragione sono chiamate la loro "essenza nominale".
 Ne segue ora molto chiaramente che niente può dirsi un mistero perché ignoriamo la sua essenza reale,  dato che essa non è più conoscibile in un oggetto  che in un altro, e non è mai  concepita o includa nelle idee  che abbiamo delle cose, o nei nomi  che attribuiamo loro. Non avrei insistito tanto su questo punto, se non fosse stato per il sofisma tanto spesso ripetuto da alcuni che meritano le lodi di grandi lettori più che di grandi pensatori.  Quando essi vorrebbero fare accettare agli altri le più evidenti assurdità  o contraddizioni, e fare sì che identificassero la religione con parole prive di significato, o che essi sono incapaci  si spiegare, allora dicono loro con saggezza  che sono ignorati di molte cose, specialmente della essenza della propria anima; e che quindi non devono negare ciò di cui non possono avere idea. Ma non è tutto: quando infatti vorrebbero far passare per simulatori  ridicoli o arroganti cloro che sostengono  che solo cose comprensibili e possibili sono l'oggetto del credere (invece di confutarli), li accusano  con accanimento per la loro presunzione di definire l'essenza di Dio con quella degli spiriti creati..  E dopo aver aggravato a sufficienza questa presunzione inveterata da loro stessi, concludono che, se non si può dare spiegazione della struttura del più piccolo sasso,  allora essi non dovrebbero ostinarsi su termini così rigorosi per credere, ma accontentarsi talvolta  di sottomettere la loro ragione ai loro maestri e alle decisioni della Chiesa.
Chi non avverte la debolezza e lo scarso peso di questo ragionamento? Certamente sappiamo dell'anima altrettanto, se non di più, di qualsiasi altro oggetto. Ci formiamo i concetti più chiari del pensare, conoscere, immaginare, volere, sperare, amare e delle analoghe operazioni mentali. Ma non ci è noto il soggetto in cui tali operazioni hanno luogo, così come non ci è noto ciò da cui dipendono la rotondità, la morbidezza, il colore e il sapore di un acino d'uva. Nulla è più evidente delle proprietà e dei modi di un corpo, come l'essere esteso, solido, liscio, ruvido, molle, duro, ecc. Ma sappiamo della sua struttura interna, che è il fondamento  di queste qualità sensibili, tanto poco quanto sappiamo di ciò in cui risiedono le operazioni dell'anima. […] L'idea dell'anima è dunque sotto ogni punto di vista altrettanto chiara e distinta di quella del copro: e se ci fosse una differenza (ma non c'è), il vantaggio sarebbe dell'anima, poiché le sue proprietà ci sono note in modo più immediato, e sono la luce per mezzo della quale scopriamo tutti gli altri oggetti esterni. […]
Credo ora di poter concludere legittimamente che nulla è un mistero poiché non ne conosciamo l'essenza, dal momento che essa non risulta conoscibile in sé, né mai pensata da noi: così che lo stesso Essere divino non può essere considerato misterioso da questo punto di vista più di quanto possa essere considerata tale la più spregevole delle sue creature. E non mi preoccupo molto del fatto che queste essenze sfuggano alla mia conoscenza: poiché io mi mantengo fermo nella convinzione che ciò che alla infinita bontà non è piaciuto rivelarci, o abbiamo capacità sufficienti per scoprire da soli, o non abbiamo affatto bisogno di comprenderlo.»

Quest'ultima è la classica conclusione maggiore delle premesse.
Ciò che Toland ha dimostrato, o ciò che crede di aver dimostrato, è che noi non possiamo conoscere l'essenza reale di alcuna cosa, dunque nemmeno di Dio o dell'anima, ma dobbiamo accontentarci della sua essenza nominale.
La conclusione alla quale salta è che quanto Dio non ha inteso rivelarci, o possiamo scoprilo da soli, o non è importante che noi lo comprendiamo.
Qualunque lettore vede quale sia la sproporzione, logica e quantitativa, che corre fra i due enunciati; e come sia impossibile ricavare il secondo dal primo.
Non solo: qualunque lettore non prevenuto dovrebbe convenire circa il fatto che la conclusione di Toland è, non solo assai maggiore delle premesse, ma anche intrinsecamente pochissimo persuasiva: perché, se dovessimo prenderla sul serio, ne ricaveremmo che Dio, direttamente o indirettamente, ha inteso renderci edotti, per via razionale, di tutto quel che occorre per stare al mondo e vivere soddisfatti di quanto sappiamo. Il che è quanto dire che Dio, a quel punto, cesserebbe di essere tale: anzi, che la sua esistenza cesserebbe di avere un qualunque peso o significato nell'economia della creazione.
Di più ancora: per la religione cristiana - poiché è di questa che Toland sta parlando, e non della religione in quanto tale, della religione in astratto - cesserebbero di avere un qualunque significato sia l'Incarnazione, sia la Rivelazione, sia la Grazia. Nessuna di queste cose sarebbe più un mistero;  nessuna di esse diverrebbe indispensabile per accedere alla fede e alla salvezza.
Bisogna essere onesti: da simili posizioni non esce affatto un cristianesimo razionale; esce fuori la distruzione totale e definitiva del cristianesimo. Posizione filosofica che può essere legittima quanto qualunque altra: ma bisogna avere il coraggio di chiamarla con il suo nome. Il deista Toland dovrebbe dichiarare che il suo obiettivo è dimostrare l'inutilità e, peggio, l'assurdità del cristianesimo; non la possibilità di intenderlo razionalmente.
Così pure, le sue affermazioni che «l'idea dell'anima è sotto ogni punto di vista altrettanto chiara e distinta di quella del corpo», dal momento che «sappiamo certamente dell'anima altrettanto, se non di più, di qualsiasi altro oggetto», e che «ci formiamo i concetti più chiari del pensare, conoscere, immaginare, volere, sperare, amare e delle analoghe operazioni mentali», sono basate su un evidente gioco di parole: perché ciò che egli qui chiama «anima» non è nulla di diverso dalla somma delle operazioni mentali e affettive di cui la persona umana è suscettibile.
Con Toland, pertanto, vediamo gli inizi di quel riduzionismo concettuale e ontologico, culminato nel materialismo e nel pragmatismo contemporanei, secondo i quali l'anima non è che la mente, si identifica interamente con essa: ed è, pertanto, null'altro che la vita fisico-psichica dell'individuo, legata alle sue funzioni vitali e alla sua dimensione naturale.
Anche qui, ciò che viene sottaciuto è che si esclude che un ordine soprannaturale possa presiedere all'ordine naturale; per dirla tutta: che esista o che abbia rilevanza un ordine soprannaturale; dato che la ragione umana - come poc'anzi abbiamo visto - è giudicata in grado di comprendere e di spiegare tutto quello che merita di essere compreso e spiegato.
Siamo qui al principio di quella linea di pensiero che, scaturita dal «cogito» cartesiano, arriva fino alla pazzia furiosa dell'idealismo, secondo il quale non il pensiero deriva, come ogni altra cosa, dall'essere, ma l'essere deriva dal pensiero, è una creazione del pensiero (cfr. il nostro precedente articolo: «Hegel, il gran sofista, è stato anche il vate del Nulla», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Inoltre, la pretesa di Toland di espungere dalla religione la categoria del mistero, esprime la caratteristica «hybris» della modernità, la quale ritiene che ogni mistero possa essere ridotto alla misura di un mero «problema», ossia qualche cosa che la ragione umana, in un arco di tempo adeguato, sarà in grado di affrontare e di risolvere.
Ne abbiamo già parlato nel nostro saggio «In  un mondo  dominato  da  problemi  tecnici l' esigenza  ontologica  si  affievolisce  e  muore» (sempre sul sito di Arianna Editrice). In quella sede, avevamo sostenuto che, in una società dominata dal funzionalismo, finiscono per inaridirsi quelle che il filosofo Gabriel Marcel chiama «le potenze della meraviglia»; mentre i due misteri per eccellenza, quello della nascita e quello della morte, non potranno mai essere ridotti a semplici problemi.
Quello della morte, in particolare.
La morte ci sfida: nessuna spiegazione razionale di essa può lasciarci interamente appagati, interamente persuasi.
È questo che pensatori come John Toland, per quanto considerati «liberi» dai loro contemporanei, non possono capire: che anche il cuore ha i suoi interrogativi, non meno importanti di quelli della ragione; e che, se quest'ultima non è in grado di rispondere ad essi, forse sarebbe più onesto riconoscere che i misteri esistono; che hanno un senso; che quel senso eccede le capacità della ragione stessa.
E, quindi, che bisogna cercare altrove le risposte: in qualche cosa che non sta fuori della ragione o contro la ragione, ma al di là e al di sopra di essa: proprio quello che John Toland credette di aver confutato una volta per tutte.