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Liberarsi dallo squallore spirituale per tornare ad essere delle belle persone

di Francesco Lamendola - 31/03/2009


Abbiamo già sostenuto, in parecchie occasioni, che nella vita di una persona consapevole dovrebbero essere comprese una continua vigilanza e una continua lotta per difendere se stessa dalle potenti forze, esterne ma anche interne, che continuamente minacciano il suo equilibrio e la sua integrità spirituale (ad esempio negli articoli «Dobbiamo rompere l'assedio della bruttezza e della stupidità» e «L'ecologia ella mente come presupposto dell'equilibrio spirituale», consultabili entrambi sul sito di Arianna Editrice).
Abbiamo, inoltre, insistito molto sul fatto che è essenziale, per conservare l'incanto del mondo, superare la delusione, generatrice di amarezza («La delusione esistenziale è la «malattia mortale» che produce amarezza, cinismo e disperazione»), mediante la sua trasformazione ontologica in elemento positivo per la nostra vita («Oltrepassare la delusione per non sciupare la bellezza del mondo»); e che, per far questo, è necessario sia riconoscere la propria vocazione e la dimensione soprannaturale della propria vita, sia affidarsi all'aiuto della Grazia («Per poter scegliere se stessi, occorre prima sapersi riconoscere»; «La persona si realizza se riconosce e sceglie la propria vocazione»; e «L'amore di carità ispirato dalla Grazia è il fulcro della nostra vita soprannaturale»: tutti consultabili sul sito di Arianna Editrice).
Ora vogliamo tornare su questo argomento, partendo da un altro punto di vista: e cioè osservando quanta tristezza e quanto squallore generino, nella nostra vita, quelle forze disordinate, egoistiche, irrazionali e cieche, che ci lusingano con false promesse di felicità e ci seducono con il miraggio di un appagamento nella sfera del finito chiusa in se stessa.
Dicevamo che il nostro equilibrio spirituale (e non semplicemente psicologico, come vorrebbe una scienza puramente materialista e, perciò, incapace di dare un reale sollievo ai mali dell'anima) è costantemente minacciato sia da forze esterne, sia da forze interne. Potremmo anche dire che le prime sono in larga misura il prodotto delle seconde, su scala sociale: nel senso che nessuna forza esterna, positiva o negativa che sia, potrebbe diventare realmente determinante, se non operassero segretamente in suo favore - come i Greci acquattati nel cavallo di legno entro la città di Troia - delle forze presenti nell'intimo della persona umana.
Certo, allo scenario complessivo appartengono anche delle forze «esterne», nel senso di soprannaturali, sia benefiche che malefiche; ma, ripetiamo, la loro capacità di incidere in maniera determinane nella nostra vita sarebbe limitata, se non trovassero, nel profondo della nostra anima, un assenso più o meno esplicito, un richiamo e un appello.
Pertanto, sarà sempre motivo di stupore, per quanti non valutino bene questo aspetto, il divario enorme che esiste fra quel che pensiamo di essere e quello che, di noi, manifestiamo nella nostra vita: un divario che, nella stragrande maggioranza dei casi, non gioca a nostro favore, ma sottolinea in modo impietoso tutta la nostra inadeguatezza e tutta la nostra umana meschinità.
Non diciamo: «il divario tra l'agito e il percepito», come dicono, di solito, gli psicologi; perché gli altri, di noi, possono anche percepire in modo impreciso, e perfino del tutto erroneo, la nostra natura e le nostre disposizioni; come accade quando una persona appare gioviale, benevola e altruista, mentre è segretamente rosa dall'invidia, dalla malevolenza e dalla cattiveria. No: diciamo «il divario fra ciò che pensiamo di essere e quello che, di noi, manifestiamo nella nostra vita»: perché gli altri possono facilmente ingannarsi sul nostro conto, sia in bene che in male; ma assai più grave è quando noi ci inganniamo su noi stessi, perché ciò dà luogo ad un vero e proprio corto circuito, e ad una  conseguente spaccatura, fra le nostre aspettative, le nostre emozioni e il nostro senso della giustizia, da una parte, e la nostra vita di relazione, così come essa viene delineandosi attraverso i nostri atteggiamenti, le nostre scelte, i nostri atti, dall'altra.
Quello che vogliamo dire è che essere fraintesi dal prossimo è, certamente, una cosa spiacevole, o per noi stessi (se l'equivoco è a nostro sfavore), o per gli altri (se l'equivoco è a nostro favore); ma non sarà mai così grave, come lo è il fraintendimento di se stessi. La persona che si crede nel giusto, mentre è ingiusta; che si crede altruista, mentre è ferocemente egoista; che si crede disinteressata, mentre non farebbe mai nulla senza un preciso tornaconto: una tale persona è, alla lettera, una mina vagante, non solo e non tanto nei confronti degli altri - i quali, prima o dopo, finiranno, probabilmente, per comprendere il suo vero gioco - quanto nei confronti di se stessa.
Infatti, colui che non ha saputo o, per meglio dire, non ha mai voluto guardarsi dentro onestamente e leggere nelle profondità della propria anima, dei propri moventi, delle proprie aspirazioni, è, nel senso letterale della parola, «posseduta», vale a dire afferrata e tenuta in ostaggio da forze profonde che le impediscono qualunque uscita dal vicolo cieco in cui s'è cacciata, qualunque prospettiva di redenzione dal male in cui, eventualmente, cade; e, quindi, disperata, anche se - forse - ella ignora di esserlo.
Essere disperati e non saperlo, equivale a una condizione esistenziale di tipo infernale: perché propria dell'Inferno è la perdita di ogni speranza di redenzione; e la persona che si dibatte nelle spire della disperazione, senza esserne consapevole, sarà portata a moltiplicare i propri sforzi in direzione non della propria liberazione, ma della propria, ulteriore schiavitù. Un individuo del genere è pericolosissimo non solo per gli altri, ma anche per se stesso: tenderà a divenire un vampiro psichico, per sottrarre agli altri la forza vitale che dissipa in continuazione, e, per di più, nel vano sforzo di individuare un responsabile della propria infelicità,  riuscirà a sviluppare un'astuzia veramente diabolica nel dissimulare il proprio risentimento contro tutto e contro tutti, per poter colpire indisturbato; a meno che non finisca per autodistruggersi, ad esempio mediante il suicidio, per porre fine alle proprie sofferenze.
Ora, la constatazione dalla quale si deve partite, nell'accostarsi a questo tipo di problematica, è che nessuno è garantito in partenza; nessuno deve pensare che solo agli altri possa accadere di ridursi nella condizione di demoni autodistruttivi: perché, anche se la lealtà verso se stessi e la fiducia nella Grazia sono degli aiuti formidabili, il nemico più insidioso è proprio quello dal quale ci si guarda di meno: il peccato di superbia.
Nessuno, pertanto, deve presumere di essere, in partenza, migliore degli altri; nessuno deve sentirsi superiore alla tentazione dell'autosufficienza ontologica, che è la via privilegiata attraverso cui si insinua il veleno della superbia e, insieme, il pericolo di cadere vittime dell'ignoranza di se stessi e, quindi, dell'infelicità causata dalla disperazione e dalla tendenza distruttiva.
Ciascuno di noi, nella propria vita, avrà incontrato, o anche conosciuto, delle persone di un tal genere: persone che seminano maldicenza, rancori e sofferenze tutto intorno a sé, credendosi, al tempo stesso, bene intenzionate, giuste e, magari, perfino compassionevoli. Ebbene, quelle persone non sanno di essere divenute dei demoni; o, meglio, lo sa soltanto la loro parte nascosta, sepolta nel profondo; non la loro parte vigile e razionale.
Anche a noi, quindi, potrebbe accadere di fare questa fine: vivere, cioè, come sdoppiati in due personalità totalmente diverse, l'una che sente, pensa e agisce credendosi buona e generosa, l'altra che, di fatto, vive immersa in un'aura mefitica, spargendo una nube tossica tutto intorno a sé e contaminando tutto quello che tocca, anche quando si tratta delle persone che crede di amare.
Il pericolo diminuisce sensibilmente se noi ci immergiamo in un bel bagno quotidiano di umiltà; se prendiamo l'abitudine di guardare dentro noi stessi, nella maniera più onesta possibile; se abbiamo la capacità di chiedere aiuto all'Essere dal quale discendiamo, e di invocare il sostegno premuroso della sua Grazia.
Ma come si giunge a diventare dei posseduti, dei demoni inconsapevoli?
Non di colpo: si tratta di un percorso lento, graduale, quasi insensibile. Lo stato che precede la caduta nell'abisso della disperazione è caratterizzato da una quiescenza delle nostre facoltà migliori, più nobili; che potremmo definire, con riferimento alla sua dimensione estetica, lo stato dello squallore.
Una persona si riduce in uno stato di squallore allorché, per pigrizia morale ed egoismo, lascia che si atrofizzino in lei tutte le attitudini più belle, tutte le forze più generose, tutte le inclinazioni al bene; quando si lascia sopraffare dal disincanto del mondo, permettendo che una lugubre cortina si frapponga fra i suoi occhi e la bellezza del reale; quando si abitua a temporeggiare, ad essere spettatrice passiva del male altrui, a perseguire con ogni mezzo il proprio quieto vivere e il soddisfacimento delle proprie ambizioni private.
Dal momento che si tratta di una condizione largamente diffuso, specialmente nella odierna società di massa, si sarebbe portati istintivamente a sottovalutarne la gravità. «Mal comune, mezzo gaudio»: così ragiona il cosiddetto senso comune. Sarebbe come dire che, se il novanta per cento dell'umanità fosse colpita da una malattia mortale, non vi sarebbe di che preoccuparsi, perché la malattia, a quel punto, diverrebbe la norma, e la salute sarebbe la rara eccezione. Ma questo è, evidentemente, un ragionamento assurdo: eppure, quasi noi tutti siamo portati ad adottare un simile punto di vista, allorché ci poniamo di fronte al fenomeno dello squallore umano.
La saggezza della vita, recita un altro adagio di filosofia a buon mercato, consiste nell'accontentarsi del possibile e nel farsi una ragione della necessità  dei compromessi. In questa affermazione vi è, non vogliamo negarlo, una parte di verità; ma solo una parte. Se essa viene intesa come un modo per indulgere cinicamente alla rassegnazione nei confronti di ciò che, invece, è suscettibile di perfezionamento, allora diviene il contrario della saggezza: diviene una forma di stoltezza.
Non che accontentarci sempre e comunque dell'esistente, noi dovremmo, al contrario, imparare ad essere molto più esigenti, a cominciare da noi stessi e, per finire, anche con gli altri. È così che si combatte lo squallore: mediante una tensione sempre rinnovata, sempre esigente, verso ciò che è meglio; in uno sforzo costante di oltrepassare i limiti angusti di un quietismo fatto di stanchezza, egoismo e scoraggiamento.
Dicevamo che allo stato dello squallore, preambolo di quello della disperazione, si arriva per gradi e in maniera quasi insensibile.
Esistono, tuttavia, delle strategie per premunirsi contro tale china fatale: saper vedere la bellezza del mondo; saper ringraziare la vita; conservare vivacità e curiosità per tutto quello che ci circonda, sia sul piano intellettuale, sia su quello propriamente spirituale. Allo squallore si giunge per gradi, attraverso l'inerzia, l'indifferenza, l'abitudinarietà, che svuotano la nostra vita del suo profumo, dei suoi sapori, di tutto quanto la rende lieta e desiderabile. Perciò, per risalire da quella condizione penosa e paralizzante, è necessario ridestare in noi e coltivare incessantemente l'interesse per il mondo delle cose, delle persone, dei valori, a trecentosessanta gradi.
Si osservi la straordinaria trasformazione, anche fisica, che si produce in un essere umano, allorché si sente amato e desiderato: perfino gli uomini e le donne più insignificanti diventano risplendenti di luce. Ebbene, la stessa cosa si verifica allorché ci si rende conto dell'infinita varietà, dell'infinita meraviglia, del fascino inesauribile, che avvolgono il mondo dal quale siamo circondati: diventiamo risplendenti di luce; la luce dell'interesse e del coinvolgimento. Non solo dovremmo sentirci coinvolti da tutto ciò che è umano, secondo il vecchio motto di Terenzio; ma da tutto ciò che esiste: animali, piante, fiumi, montagne, astri del firmamento; e naturalmente, da tutto ciò che esprime bellezza, spiritualità, luce interiore.
Dovremmo tornare ad essere degli individui completi, che vivono in sintonia con il mondo intero, dal più umile filo d'erba alla più smisurata galassia che brilla nel cielo notturno; che hanno curiosità, simpatia e benevolenza per tutto ciò che esiste; che provano compassione per chiunque soffra, uomo, animale o pianta; che si sentono interpellati da tutto ciò che accade, vicino o lontano; che intendono dare il proprio contributo al grande progetto benefico per cui l'Essere ci ha chiamati dal nulla all'esistenza.

Mentre sto scrivendo, una grigia cappa di nuvole copre il cielo e la pioggia cade minuta, insistente, da ore e da giorni.
Tutto sembrerebbe immerso nella malinconia; se non che, impalpabile e superbo come un prodigio evocato da un mago, uno spettacolo commovente rompe vittorioso l'uniforme monotonia del grigiore e della pioggia.
La cima delle montagne è avvolta dalle nubi; ma non proprio avvolta: è come fasciata da un involucro evanescente, fatto di pura luce; le rocce e la neve s'intravedono al di sotto, come attraverso una immensa teca di cristallo; e, proprio al di sotto delle nubi, scaturisce una tenue, leggiadra luminosità diffusa, quasi opalescente, che rischiara la plumbea pesantezza dell'orizzonte e conferisce al paesaggio una nota strana, delicatissima, quasi surreale, di vaporosa e impalpabile leggerezza.
Così possiamo essere anche noi, allorché decidiamo di rompere con il circolo vizioso della noia, della frustrazione, dell'impotenza e del rancore; allorché respingiamo la filosofia da disperati di un Gauguin, secondo la quale, una volta compresa cosa sia la vita, non si fa altro che sognare la vendetta.
Non c'è alcuna vendetta che ci potrebbe appagare, anche perché non c'è alcun torto che ci sia stato fatto dalla vita, oltre a quello - di cui siamo noi soli responsabili - di non saperne apprezzare tutto l'incanto.
La vita è la nostra grande occasione: l'occasione per dare tutto il meglio o tutto il peggio di cui siamo capaci; per scegliere se essere portatori di luce, o di tenebra; se unirci all'ineffabile armonia che la pervade, o essere delle note stridenti, fuori tono.