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Sull’utilità e il danno della storia per la vita

di Marco Managò - 02/04/2009

 

 
Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Friedrich Nietzsche
 



Il filosofo tedesco è l’autore di questo saggio (edito da Adelphi), in cui si affronta l’eccessivo ricorso alla storia e al suo perdurare nel presente, fonte di infelicità per il genere umano proprio per la stessa triste natura del ricordo. Egli, pur dimostrandosi in parte insoddisfatto al termine della realizzazione del testo, credo, invece, lasci ai posteri un’opera di indubbio valore.
Nietzsche ricorda come la storia possa essere al servizio della vita, quando non se ne faccia un pericoloso abuso e non si resti ancorati al ricordo; l’impossibilità del dimenticare, naturale all’uomo e non all’animale, tende a soverchiare il primo inducendolo all’inazione. Solo il bambino vive in senso non storico, finché comincia a maturare il valore passato e si vincola per sempre a quella sofferenza di voler capire l’imperfezione e l’incompiutezza della propria natura.
La felicità, quindi, è proprio insita nella capacità di ergersi dinanzi al peso della storia, di non sentirne i contraccolpi.
Il rischio di un uomo, parimenti di una società, è quello di perire sotto i colpi del passato, al quale non vuol rinunciare, in parte non vivendo del presente. La capacità di sopravvivere muta da soggetto a soggetto e da civiltà a civiltà, quanto più si riesca a dimenticare crescendo in modo proprio e incorporando il passato.
Scrive l’autore “La storia, pensata come pura scienza e divenuta sovrana, sarebbe una specie di chiusura e liquidazione della vita per l’umanità. L’educazione storica è invece qualcosa che è salutare e promette futuro solo al seguito di una forte corrente vitale nuova, per esempio di una cultura in divenire, cioè solo quando viene dominata e guidata da una forza superiore e non quando è essa stessa a dominare e a guidare.”
La storia monumentale è quella che occorre al vivente per ricordare epoche, eroi e fasti di un tempo che può tornare; colui che non si rassegna alla mediocrità dilagante rivolge lo sguardo al passato, con l’idea di missione salvifica universale, convinto che una grandezza passata se fu possibile una volta può esserlo di nuovo. Egli cerca l’effetto in sé dell’evento, più che il tessuto storico stesso e la concatenazione degli episodi, anche perché questo tenderebbe a dimostrare l’impossibile integrale ripetizione del fatto storico.
Se, però, ammonisce Nietzsche, a prevalere su altre visioni della storia è quella monumentale, scevra dalla critica, si rischia di giungere al fanatismo, alla vacua e ingannevole emulazione, al conflitto.
La storia definita “antiquaria” è quella che ci lega alla tradizione, alla stirpe, alle proprie radici e ci fa membri di una comunità, con devozione estesa ai luoghi d’origine. Anche in tale visione del passato si scorge una limitatezza: quella di non poter scorgere oltre il fatto singolo, oltre la soggettività del ricordo. Quando il presente non ravviva più tale ricerca si sconfina nel puro collezionismo, di conservare senza generare, di sottovalutare “… sempre ciò che diviene, in quanto non ha per esso alcun istinto divinante – come per esempio ha la storia monumentale.”
Appare temerario chi si oppone a tal ristagno, al pensiero che sol ciò che è vecchio sia automaticamente immortale e scevro da imperfezioni, dalle quali comunque procediamo. Altro conto è, quindi, considerare il passato sotto un profilo “critico”, interrogando di continuo il fatto storico e ponendolo dinanzi a una sorta di tribunale, al servizio della vita. Eccellente la descrizione di Nietzsche riguardo all’uomo moderno e alla sua peculiare contraddizione <<… lo strano contrasto di un interno a cui non corrisponde nessun esterno, e di un esterno a cui non corrisponde nessun interno, un contrasto che i popoli antichi non conoscono. Il sapere che viene preso in eccesso, senza fame, anzi contro il bisogno, oggi non opera più come motivo che trasformi e spinga verso l’esterno, ma rimane nascosto in un certo caotico mondo interno, che l’uomo moderno designa con strana superbia come l’“interiorità a lui propria.”
Un antico Greco non tarderebbe a definire l’uomo moderno come un’enciclopedia ambulante e vuota, spettatore anonimo di una realtà che non possiede, del tutto scollato dall’evento.
Feroce e prolungata è l’invettiva del filosofo nei riguardi del proprio popolo, reo di esser protagonista del divario incolmabile tra contenuto e forma, esaltando quest’ultima a metro insindacabile di condotta di vita. Un grigiore tedesco che colma ogni aspetto della vita, nell’assoluta devozione alla forma e alla convenzione, profittando di una ridicola emulazione di ciò che proviene dall’esterno rendendola propria tradizione. Ciò annulla la propria personalità a tutto vantaggio di un anonimato di cui si veste l’individuo, giovandosi, se possibile, di posizioni istituzionali di prestigio dalle quali pontificare. La stessa Filosofia soffre di tale condizione e non trova elementi edificanti, se non nelle sporadiche affermazioni degli uomini dissociatisi da tale uniformità; la speculazione filosofica è anche limitata da precetti e moniti di carattere laico e religioso.
La cultura storica ufficiale e concessa, risulta condizionata da “omuncoli” che ne dettano i confini pur non essendo degni di rappresentarla, né di esser ricordati nei secoli; la critica storica che prospettano è senza efficacia ed è rivolta in un’abbarbicata, stucchevole, ripetuta e ossessionante analisi su se stessa.
L’appello del filosofo di Röchen è quello di valutare il passato sulla scorta dell’empirismo presente, rivolti al futuro. Spiega efficacemente in una frase “Formate in voi un’immagine a cui il futuro debba corrispondere, e dimenticate la superstizione di essere epigoni”. Ecco allora l’invito a costruire il futuro, con i metodi che fornisce il mondo attuale, senza scimmiottare il passato e le sue spire edonistiche, depositarie della verità a danno dell’invenzione e dell’uomo coraggioso che osa innovare.
A volte l’eccessiva celebrazione e devozione per la storia rischia di far passare in secondo piano l’amore per la vita, impedendo, quindi, una sana evoluzione della personalità e una doverosa maturazione, singola e collettiva.
La frenesia stessa in cui viene proiettato il giovane studente, attraverso l’ingozzamento di nozioni e secoli, rischia di essere un vacuo corollario di informazioni e di fragile cultura.
L’unica maturazione verificatasi è proprio nella consapevolezza dell’uomo alla propria resa, passiva quanto ancor più certa della fine e dell’unico rifugiarsi nell’infinito sapere di ciò che è stato.
A proposito della religione Nietzsche osserva “Una religione che di tutte le ore di una vita umana ritiene l’ultima la più importante, che predice una fine della vita sulla terra […] stimola certamente le forze più profonde e nobili, ma è ostile a ogni nuova coltivazione, ogni ardito esperimento, ogni libero desiderio; si oppone a ogni volo nell’ignoto, poiché là non c’è amore né speranza per lei; solo controvoglia essa si lascia imporre ciò che diviene, per scartarlo o sacrificarlo al tempo giusto come qualcosa che seduce all’esistenza, come qualcosa che mente sul valore dell’esistenza”.
La devozione alla storia paralizza l’individuo nel suo agire quotidiano, sino a impedirgli di volgere al futuro con azioni e novità, come mero epigono. Altra farsa del momento, tipica del popolo tedesco, è quella relativa al decantato “processo storico”, una sorta di giustificazione dei tempi moderni e della loro parziale mediocrità, sostituendo la storia all’arte e alla religione, allo spirito. Si pone, così, un limite all’agire umano e si giustifica anche l’eventuale morte prematura di un genio, in quanto lo stesso, espressa tutta la magistrale genia, vivendo di più non avrebbe aggiunto altro di significativo. Tutto ciò moralmente eccepibile.
Una cinica e crepuscolare concezione della storia, giustificatrice d’ogni cosa, alla quale si contrappone l’individuo isolato e deriso.
“Quanti pochi vivi hanno mai, di fronte a tali morti, il diritto di vivere!” Queste le sferzanti parole dell’autore.
Dinanzi a tale eroico individuo si pone la massa indistinta (imposta come allegoria principale nell’evoluzione storica) alla quale, comunque, ogni Stato politicamente avveduto rilascia generosamente (e machiavellicamente) un pizzico di cultura e di sapere storico, contribuendo all’affermazione del presente effimero e dell’egoismo reale.
Antistoricamente parlando, l’uomo eviterà di distaccarsi sempre più dal profilo di un ampio orizzonte e, certo di non esser saggio, non perirà nella sua meschina scaltrezza.
L’esperienza che il giovane tedesco deve maturare non può esser frutto soltanto della somma di quelle dei suoi predecessori, ma va sviluppata anche in maniera personale e autonoma, senza dosi massicce di nozioni; non occorre l’uomo scienziato prontamente disponibile e in grado di pontificare a tuttotondo, bensì l’individuo colto.
Il trentenne Friedrich lascia, in conclusione, un testo attualissimo in cui, non negando la validità del senso storico, ne denuncia gli abusi e l’idolatria acefala che gli intellettuali e gli scienziati (in particolare del suo paese) esercitano nei confronti soprattutto delle giovani generazioni, svilendo il divenire del presente, dell’autentico, e dell’originalità dell’uomo veramente vivo, libero e felice.