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Da Chagall a Majakovskij, gli artisti annientati dal regime che avevano esaltato

di Sergio Romano - 03/04/2009




Nella tragedia del popolo rus­so, come Orlando Figes ha intitolato il suo grande libro sulla rivoluzione fra il 1891 e il 1924, esiste un capitolo al tempo stesso tragico e paradossale. È quello sugli straordinari movimenti di avan­guardia che fiorirono in Russia nei pri­mi decenni del Novecento e fecero di quel Paese una ribollente fucina di in­novazioni e sperimentazioni in tutte le arti, dalla letteratura alla poesia, dalla pittura alla scultura, dal teatro al cine­ma, dall’architettura alla musica.

Nello Stato dell’autocrazia, dei po­grom, della grande proprietà agraria, dell’analfabetismo diffuso e della indis­solubile unione fra potere politico e po­tere religioso, gli scrittori e gli artisti godevano di una invidiabile libertà cre­ativa e possedevano una sfrenata im­maginazione. Erano rivoluzionari, na­turalmente.
Ritenevano di essere le pat­tuglie avanzate di una grande trasfor­mazione politica e accolsero l’Ottobre rosso con grande entusiasmo divenen­do immediatamente, ciascuno nel pro­prio campo, i corifei del potere bolsce­vico. Da Andrej Belyi a Vladimir Majakovskij, da Nikolaj Gumilëv, mari­to di Anna Achmatova, a Maksim Gorkij, tutti gli scrittori dell’età d’ar­gento, come fu definita la stagione let­teraria russa agli inizi del Novecento, si misero al lavoro per dare al regime una politica culturale. I grandi registi teatra­li e cinematografici, da Konstantin Sta­nislavskij a Vsevolod Mejerchol'd, da Sergej Ejzenštejn a Vsevolod Pudovkin crearono spettacoli rivoluzionari. I pit­tori, i fotografi, gli architetti costruttivi­sti — Kazimir Malevic, Aleksandr Ro­dcenko, Vladimir Tatlin — disegnaro­no alcuni fra i più originali manifesti di propaganda dell’epoca e si dedicarono alle arti applicate per reinventare, con stile e significati rivoluzionari, tutti gli oggetti della vita quotidiana. Marc Cha­gall divenne commissario per le Arti a Vitebsk. Vasilij Kandinskij collaborò con il governo per la riforma dell’inse­gnamento artistico nelle scuole del nuovo regime.
Questo grande sciame di api rivolu­zionarie aveva due grandi protettori: Anatoliij Lunacharskij e Maksim Gorkij. Il primo, commissionario per l’Educazione, era un menscevico, quin­di intellettualmente estraneo ai furori ideologici della componente bolscevi­ca del partito. Il secondo, Maksim Gorkij , si compiaceva di esercitare sul­la intelligencija russa una funzione pontificale. Insieme e con l’aiuto di Bo­gdanov, i consoli dell’arte sovietica vi­gilarono affinché gli intellettuali e gli artisti potessero esprimere liberamen­te il loro talento.
Questo innaturale idillio tra le avan­guardie russe e il regime sovietico du­rò fino alla seconda metà degli anni Venti, quando la cappa del realismo so­vietico e i detestabili gusti estetici di Stalin chiusero, una dopo l’altra, le fine­stre che le grandi avanguardie russe avevano aperto nella cultura del loro Paese. Quasi tutti i protagonisti della grande rivoluzione artistica del ventennio precedente uscirono di scena, alcu­ni tragicamente.
Chagall, Kandinskij e Natalia Gon­charova scelsero la strada dell’emigra­zione. Sergej Esenin e Majakovskij si suicidarono, il primo nel 1925, il secon­do nel 1930. Malevic fu arrestato nel 1930 e morì nel 1935.
Izaak Babel sopravvisse penosamen­te fino al 1940. Mejerchol'd fu tortura­to, processato e ucciso nello stesso an­no. Quelli che sfuggirono alla morte do­vettero adattare il loro stile ai canoni imposti dal regime. I vecchi esponenti dell’arte anti-borghese divennero così cortigiani della nuova borghesia sovie­tica.
All’origine della loro sorte vi era un tragico errore. Nel 1917, quando i bol­scevichi presero il potere, gli intellet­tuali e gli artisti delle avanguardie era­no convinti di essere rivoluzionari. Era­no invece il raffinato prodotto del gran­de sviluppo economico della Russia dalla fine dell’Ottocento all’inizio del Novecento e della nuova borghesia che ne era protagonista. Odiavano i borghe­si che avevano comprato le loro opere e incoraggiato le loro energie creative. Amavano la rivoluzione che li avrebbe uccisi, cacciati dal loro Paese o, nella migliore delle ipotesi, zittiti.