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Che colpa ne ho se il nemico ha ragione?

di Fiorenza Licitra - 03/04/2009

Cabaret Voltaire


“Che colpa ne ho se il nemico ha ragione?”

Drieu la Rochelle


Ecco un buon libro da cui prendere spunto per riflettere ancora una volta, su ciò che ci circonda, o meglio, su ciò che non ci circonda.
Il libro in questione è Cabaret Voltaire, l’autore è il catanese Pietrangelo Buttafuoco, giornalista, scrittore, ed ex professore di liceo.
Buttafuoco analizza l’Occidente attraverso la lente dell’Islam, considerato  nemico capitale, proprio come può esserlo un peccato.
L’Islam di Muhammad (Colui che è da lodare), e non quello che gli abbiamo affibbiato di Maometto (da Mahommed “Colui che non è da lodare”), è visto come nemico, o meglio come terrorista: non tanto per gli attentati dei fieri e disperati kamikaze, quanto perché se ne infischia del nostro buon costume –il cui unico valore è la firma di qualche altisonante stilista, perentoriamente gay-, e dell’avvolgente, e sempre più stritolante, pensiero unico.
Una risma di pensiero, che trova i suoi paladini della giustizia internazionalista  nella democrazia e nel liberalismo, assunti come principi assoluti a cui tutti -indistintamente e senza ritegno-  hanno, non la possibilità, quanto l’obbligo di aderire.
Gli umma dei credenti non sono moralmente intercettabili dalle nostre linee tim e vodafone, che offrono la massima convenienza al minor prezzo possibile: non cedono alle lusinghe di questo bieco mercato pop-porno, adatto alle aspiranti veline senza veli; non soddisfano la sete d’infinito con una lattina di Coca-Cola, e non sono soggetti né agli inviti demagogici  dei politicanti, privi di una vera appartenenza ideologica, né alle promesse terra terra firmate occidente.
I musulmani la loro promessa l’hanno trovata, e ben custodita, in Allah; la loro è una promessa d’infinito, tutt’altro che terra terra.
Inoltre, ritengono che “la fede non sia un fatto privato, ma pubblico”, e -più ortodossi di noi- del cristianesimo stimano i preti in abito talare, il recupero delle messe in latino (per mezzo delle quali il Mistero resta intatto), e il Santo Padre della Tradizione, che non è quello del dialogo interreligioso a tutti i costi.
Al nostro vuoto semantico rispondono i sufi, i mistici musulmani medievali, che amano il loro unico Dio con la semplicità di chi crede, e con la sensualità, la dedizione e la dolcezza degli amanti fedeli.
Ai nostri bisogni commerciali, incontinenti e transeunti controbatte la necessità ancestrale, e imperitura, di quel popolo dalla dignità e l’onore saldi.
Le donne islamiche -come spiega bene Fatima Mernissi nel suo libro L’harem e l’Occidente- occupano cariche politiche, amministrative e di potere, senza dubbi sulle loro capacità d’intendere e di volere. E, se è vero, che le donne musulmane hanno delle forti restrizioni, legate allo spazio o a degli spazi a loro inaccessibili, è vero anche che non sono confinate nel tempo, come lo sono le donne occidentali, destinate a restare giovani e fresche come eterni frutti acerbi.
E’ chiaro, come ciò che appare superficialmente più limitante per loro, sia invece alquanto relativo rispetto ai limiti (per natura impossibili) e allo scarso valore intellettuale, subiti e accettati dalle nostre donne.
Cabaret Voltaire non è però solo l’elogio al popolo islamico, che Allah lo preservi, ma una critica mirata a quello che è diventato il nostro modus vivendi, privato della propria identità, della propria fede, del proprio onore.
Probabilmente queste parole susciteranno, oltre che sgomento, il solito sospetto di una certa nostalgia, dalle fosche tinte fasciste, per i tempi perduti.
Probabilmente chi pensa questo vive ancora in quei tempi e non riesce proprio a recidere quel cordone ombelicale.
Tanto è vero che, oggi come oggi, può dirsi blasfemo - paradossalmente alla costante pretesa di laicità- parlare d’identità, di spiritualità, di patria, di famiglia e di onore: tutte queste belle parole sembrano esser state definitivamente marchiate e condannate all’esilio.
E’ più facile e fa meno male, demonizzare questi valori politicizzandoli in un contesto storico, che non esiste e che non esisterà più, anziché provare a pensare che appartengono ontologicamente alla categoria dell’animo umano,
Chi ha dato forma e sostanza alla nostra civiltà non sono stati né i pacifisti né i no-global –figli legittimi della globalizzazione- ,bensì  l’Iliade omerica con i suoi eroi paganamente tragici, i quali andavano incontro alla morte per dare un senso compiuto alla vita.
Proveniamo da quegli spavaldi e coraggiosi spartani, per cui rinunciare a tutti gli agi significava permettersi il lusso più grande: l’onore dell’uomo libero.
Discendiamo dai romani che -sebbene inizialmente fossero ben lontani dalla filosofica e intrepida Atene, in quanto semplici contadini- già radicalmente così legati alla loro terra e alle loro leggi scritte, erano capaci di morire altrettanto bene dei loro vicini, per mantenere in vita il loro sacro principio d’appartenenza.
Quando iniziarono a formare l’impero, gli uomini disponibili in Italia venivano chiamati a fare i soldati, ma non erano i mercenari di Annibale, ma i romani dallo spirito guerriero. E, sebbene l’Impero avesse la pretesa di conquistare il mondo, concedeva alle province sottomesse (qualora avessero pagato i tributi) la libertà di conservare la propria lingua e la propria religione: la propria identità.
Oggi, invece, certe potenze -più economiche che politiche- ,in virtù dello spirito democratico-liberale, non ammettono alcuna pretesa colonialista, ma, a osservarli bene, si capirà che la loro mira è rivolta ad appiattire ogni sorta di pluralità, e a far si che il resto del mondo si converta all’unica lingua e all’unica fede (nel laicismo) di loro competenza.
Attraversando ancora la nostra storia, incontriamo quell’unico uomo, Gesù Cristo, che, facendosi mettere in croce per troppo amore dell’umanità, ci mostrò come la pietà vinca, con la forza propria della grazia, qualsiasi resistenza, specie quella della ragione.
Cosa ne è stato del nostro epico retaggio storico e culturale? Com’è accaduto che, in un tempo relativamente breve, abbiamo rimosso, o quasi, la nostra civiltà, cioè noi stessi?
Com’è che, a differenza del nostro falso nemico, ci siamo lasciati irretire dagli  abbagli delle vetrine luminose, con tanto di specchietti per le allodole?
La caduta nell’Ade è iniziata con la rivoluzione industriale, a seguire quella francese con i suoi falsi miti di uguaglianza, di fratellanza e di libertà: niente di più lontano dalla condizione umana!
L’era dei lumi ha oscurato il principio di sacralità, vanificando il vero centro trascendente dell’uomo, la sua origine, e celebrando la periferia, con i suoi bisogni superficiali  e meccanici.
Il secondo dopoguerra, per l’Europa e non solo per l’Italia, è stato poi un vero e proprio trampolino di lancio verso il baratro.
Ha ragione Buttafuoco quando dice che “ci comportiamo come se la fisiologia della vita sociale non fosse un disegno divino, ma un rimbalzo casuale di mode e di abitudini nell’impazzimento del libero arbitrio. L’idea della vita in Occidente è marketing, devozione indotta, e noi non siamo più la prosecuzione dei nostri morti.”
E ancora l’autore afferma che “abbiamo lo stesso sussulto morale con cui le mucche al pascolo guardano passare i treni: scorgiamo l’erba sotto i piedi e caliamo le corna.”
Chi ci difenderà da noi stessi? Forse la politica, quella che Platone definiva la scienza della spiritualità?
Le risposte latitano se scrutiamo la sinistra, che da sempre ha cercato di sradicare l’uomo dalla sacralità, di scrollarsi dalle spalle il superstizioso peso della Tradizione, e di mistificare le masse sotto il segno progressista e razionalista della democrazia.
La sinistra non è riuscita ad andare fino in fondo, ma basta rovesciare la medaglia e troviamo la destra, che ha paradossalmente perseguito ed eseguito quelle che erano le laiche (e laide) intenzioni della sinistra.
Infatti la destra, storicamente e ideologicamente, coltivava aspramente la critica alla massificazione e alle oligarchie finanziarie, proponeva riferimenti elitari, verticali e aristocratici, e preservava il senso trascendentale dell’esistenza come punto focale di un principio originario e spirituale, che si manifesta nella Tradizione.
La vera Tradizione non ha a che fare con ciò che è considerato vecchio e stantio, ma con ciò che nell’esistenza è permanente.
Norberto Bobbio nel 1975 scriveva: “Uno dei tratti caratteristici della cultura italiana è l’assenza di una seria cultura di destra”; figuriamoci oggi!
Quel che rimane della destra non è che una scimmiesca caricatura del modello made in USA: sotto mentite spoglie, non fa altro che rovesciare tutti i suoi  eterni principi, per andare incontro all’analfabeta occidentalizzazione globale.
Niente più Dio, quindi, niente più patria, niente più famiglia: solo le sragioni dell’efferato consumismo hanno ragione d’esistere.
E noi tutti saremo presto consumati, a nostra volta, perché “non esiste, e non può darsi, civiltà atea”.
Dostoevskij dice che, solo nella disperazione, l’uomo è più vicino a Dio, ed è allora, nel fondo di questa disperazione –quando l’uomo si accorge e  si vergogna del male commesso-  che gli è dato sperare.
E’ necessario un risveglio, una presa di coscienza su cosa stiamo diventando e su chi non siamo più.
Buttafuoco suggerisce che “non occorre essere degli uomini buoni, basta solo essere degli uomini”, e -per divenire ciò che si è- la posizione più consona è quella con i piedi ben piantati a terra, nelle nostre radici, e lo sguardo rivolto al Cielo.