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La vita non è frutto del caso ma di un disegno intelligente e benevolo

di Francesco Lamendola - 09/04/2009


Che cos'è la vita?
Secondo un fisiologo francese dell'Ottocento, Xavier Bichat, la vita si può definire come «l'insieme delle forze che contrastano la morte».Una definizione che, sul momento, fece scalpore e diede esca a infuocate polemiche; ma che, a ben guardare, è assai meno banale e lapalissiana di quel che potrebbe sembrare di primo acchito.
Tutte le forme viventi, dalle più semplici alle più complesse, mantengono - come osservava Emanuele Padoa, ordinario di anatomia comparata all'Università di Firenze - un certo ricambio con l'ambiente e conservano un certo metabolismo basale, il cui scopo è quello di mantenere integre le strutture e le funzioni dei vari organi, delle singole cellule e degli organuli subcellulari, che mai riposano del tutto. Quando tale attività viene meno, subentra la morte, più o meno rapida, a seconda della natura dell'organismo: come se, appunto, cedessero le forze che facevano argine  alla morte. Allora la fabbrica dell'organismo si altera, e all'ordine subentra il disordine.
Se noi ci guardiamo intorno in una belle giornata di primavera, la vita ci sembra un fenomeno assolutamente normale, al punto che faremmo fatica ad immaginare un solo angolino di terra, una sola zolla di campo, in cui la vita non sia presente; ma, naturalmente, non è così. Una breve riflessione ci persuade rapidamente del contrario; sicché viene fatto di chiedersi se, al livello dei sistemi solari e delle galassie, la vita non costituisca che una rara eccezione alla regola, estremamente fragile e continuamente minacciata.
Oppure no?
Noi sappiamo che comete, meteoriti, perfino la polvere stellare, sono in grado di trasportare organismi unicellulari, i quali conservano intatte, pur a quelle estreme temperature, le loro funzioni vitali; così come sappiamo che perfino tra i ghiacci dell'Antartide e quasi a contatto con la lava incandescente di un vulcano, virus, batteri e organismi unicellulari sono in grado di sopravvivere e di dar luogo, non appena le condizioni ambientali si facciano un po' meno ostili, a forme di vita sempre più complesse, dalle alghe, ai funghi, alle briofite, e poi, su su, verso forme maggiormente organizzate, pteridofite, fanerogame, animali inferiori, e così via.
Chi può dire se la vita sia davvero una eccezione alla regola della non-vita, o se non sia invece la regola dell'universo, per quanto disseminata su distanze astronomiche e, frequentemente, «congelata» allo stato latente, in attesa delle condizioni idonee di luce, calore e umidità, che le permettano di svilupparsi pienamente?
E, poi, chi siamo noi per dire dove la vita incomincia e dove finisce; per dire che un cristallo, che pure si accresce indefinitamente (sino a quando non viene limitato da un altro cristallo o da un qualunque ostacolo), che un corso d'acqua, che una montagna, che una stella o un pianeta, non sono a loro volta degli esseri viventi, se pure si sviluppano secondo leggi talmente diverse da quelle inerenti al nostro organismo, che non riusciamo ad afferrarle?
Non stiamo scivolando verso divagazioni oziose: moltissime culture umane, e non solo quelle cosiddette primitive, ma anche alcune delle cosiddette superiori, hanno creduto fermamente che i fiumi, i monti, gli astri, siano creature viventi, dotate di anima: pensiero che non ha proprio nulla di puerile; e che suole apparirci tale, semmai, solo a causa del nostro incorreggibile - quello sì, davvero puerile - antropocentrismo.
D'altra parte, se dare una definizione biologica della vita è un diritto e un dovere degli scienziati, chiedersi che cosa essa sia, è un diritto sacrosanto dei filosofi, al quale essi hanno, recentemente, abdicato, solo per una forma di timidezza e per un complesso di inferiorità nei confronti di quelli, in un'epoca in cui solo la scienza sembra offrire conoscenze certe e verificabili.
Strano capovolgimento, invero: per Platone, la vera scienza non poteva essere quella della natura, che si riferisce a una realtà continuamente mutevole e, inoltre, contingente; ma quella delle cose eterne, ossia quella riguardante l'essere.
Sia come sia, sarebbe ora che i filosofi superassero i propri complessi, e ritornassero a porsi quelle grandi domande che appartengono alla nobile tradizione metafisica; e, tra esse, la domanda su che cosa sia la vita è, certamente, una delle più importanti.
Infatti, dal tipo di risposta che ad essa intendiamo dare, dipende anche la risposta circa il senso da attribuire al fenomeno «vita» in rapporto al fenomeno «morte».
In altre parole: siamo stati fatti perla vita o per la morte? Qual è la nostra vocazione autentica, quale il nostro ultimo destino: vivere o morire?

Ci siamo già occupati di queste domande in diversi precedenti articoli, e specialmente in «L'ultimo nemico ad essere sconfitto sarà la morte»; «La vocazione alla vita degli esseri si realizza attraverso il paradosso della morte»; e «Riflessioni sulla morte: prepararsi a un congedo sereno, senza rimpianti» (tutti consultabili sul sito di Arianna Editrice).
Rimane l'enunciazione di San Paolo, coraggiosa, inquietante, apparentemente paradossale (Prima Lettera ai Corinzi, XV, 12-28):

«Noi dunque predichiamo che Cristo è risuscitato dai morti. Allora come mai alcuni tra voi dicono che non vi è risurrezione dei morti? Ma se non c'è resurrezione dei morti, neppure Cristo è risuscitato! E se Cristo non è risuscitato, la nostra predicazione è senza fondamento e la vostra fede è senza valore. Anzi finiamo per essere falsi testimoni di Dio, perché, contro Dio, abbiamo affermato che egli ha risuscitato Cristo. Ma se è vero che i morti non risuscitano, Dio non lo ha risuscitato affatto. Infatti se i morti non risuscitano, neppure Cristo è risuscitato.  E se Cristo non è risuscitato, la vostra fede è un'illusione, e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche i credenti in Cristo che sono morti sono perduti. Ma se abbiamo sperato in Cristo solamente per questa vita, noi siamo i più infelici di tutti gli uomini.
Ma Cristo è veramente risuscitato dai morti, primizia di risurrezione per quelli che sono morti. Infatti per mezzo di un uomo è venuta la morte, e per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione. Come tutti gli uomini muoiono per la loro unione con Adamo, così tutti risusciteranno per la loro unione a Cristo.  Ma ciascuno nel suo ordine. Prima Cristo che è la primizia, poi, quando Cristo tornerà, quelli che gli appartengono. Poi Cristo distruggerà ogni Principato, Dominazione e Potenza, e consegnerà il regno a Dio Padre: allora sarà la fine. Perché Cristo deve regnare, finché Dio abbia messo tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico a essere distrutto sarà la morte. Infatti la Bibbia afferma: «Tutto ha posto sotto i suoi piedi» [quest'ultima citazione si riferisce al Salmo 110, 1, e al Salmo 8, 7].
Ma quando dice che tutto gli è stato assoggettato, è chiaro che si deve eccettuare colui che gli ha assoggettato ogni cosa. E quando avrà assoggettato a lui tutte le cose, allora il Figlio stesso farà atto di sottomissione a Colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti.»

Delle due, infatti, l'una: o noi siamo fatti per la vita, oppure siamo fatti per la morte.
D'altra parte, la morte non è l'antitesi della vita; l'antitesi della vita è l'assenza di vita, è la non-vita. La morte non è l'antitesi della vita, ma il suo corrispettivo logico e fisiologico. Dove c'è vita, c'è morte; solo dove non esiste la vita, non è presente neppure la morte.
Tutto questo può sembrare ovvio e scontato, ma non lo è.
La maggior parte delle persone pensa alla morte come a ciò che si contrappone alla vita, non come a un evento della vita stessa. E ciò avviene perché, con il naturalista Xavier Bichat, in genere si pensa la morte come categoria biologica, e non «sub specie aeternitatis».
Apparentemente, si direbbe che anche San Paolo condivida tale prospettiva, poiché parla della morte come di un «nemico», e sia pure un nemico destinato alla sconfitta finale. Ma., se essa è riconosciuta come un nemico, allora vuol dire che vita e morte lottano ad armi pari, sul medesimo terreno: che è, evidentemente, quello biologico.
Questo, almeno, si direbbe il senso esteriore delle sue parole.
Ma è proprio così?
A noi sembra che l'affermazione di San Paolo divenga intelligibile solo collocandola in un contesto ed in una prospettiva diversi da quelli della vita intesa esclusivamente come fenomeno fisico-biologico.
Ci sembra che la vita di cui parla San Paolo non si riduca, puramente e semplicemente, alle funzioni vitali del corpo, allo scambio di materia ed energia con l'ambiente circostante (luce, aria, acqua, sostanze nutritive) e al metabolismo basale. No, la vita di cui parla San Paolo non è solo la vita come insieme di fenomeni organici, ma la dimensione assoluta della vita, la vita gloriosa del corpo trasfigurato mediante la Grazia; è la partecipazione salvifica allo splendore dell'Essere e, quindi, alla sua dimensione totale e incorruttibile.
Ecco, allora, che la contrapposizione vita-morte viene ad essere inglobata (e superata) nella contrapposizione vita - non vita, al centro di uno scenario cosmico ove la vita non è un evento storico e, per di più, casuale, ma la manifestazione assertiva dell'Essere, l'esplicazione della sua radicale «inseità» sul piano del manifestato.
In questa prospettiva, potremmo spingerci fino ad adottare il punto di vista secondo cui tutto ciò che è manifestazione dell'Essere, in quanto partecipe della sua autosufficienza ontologica, è vita e non può essere null'altro che vita: tutto, tutto, tutto.
Non esistono cose manifestate che non siano vita, che non rechino in se stesse un riflesso o una scintilla di quella Vita assoluta che promana dall'Essere, come la luce e il calore si sprigionano dal fuoco.
La conclusione di questa nuova maniera di porre il problema della dialettica fra vita e morte è che la morte (dei corpi) non è la fine della vita, ma un passaggio necessario, che scandisce la modalità del ritorno degli enti alla loro sorgente, a quell'Essere che è tutto in tutti.
Tutto è vita, dunque; e la morte è la via d'accesso da una vita manifestata come fenomeno biologico - e, dunque, contingente - ad una vita ricongiunta e riconciliata con l'Essere, che, in quanto realtà unica e totale, garantisce il fine e lo scopo delle singole esistenze individuali.
Ne consegue che non esistono vite accidentali, vite, per così dire, insignificanti: né a livello di specie, né a livello di singoli individui: partendo dall'uomo e andando fino al più piccolo organismo unicellulare.
Ora, nel mondo del manifestato la vita si alimenta della morte (altrui), come la mosca che fornisce nutrimento al ragno, o la gazzella al leone; ma ciò discende dalla natura dei corpi, i quali devono crescere e mantenersi mediante l'assunzione di sostanza vivente.
Ma la vita assoluta e gloriosa dell'Essere, non risolvendosi unicamente sul piano del manifestato, bensì oltrepassando quest'ultimo e tornando ad alimentarsi della propria autosussistenza originaria, non scaturisce dalla morte, bensì ancora e sempre dalla Vita stessa, dalla Vita che non conosce corruzione, perché non conosce nascita, crescita e sviluppo.
E che, non alimentandosi di ciò che è perituro, non perisce mai.
È questo, crediamo, il concetto che Gesù cercava di spiegare alla Samaritana (Vangelo di Giovanni, 4, 13-14), allorché le diceva:

«Chi beve di quest'acqua [quella, cioè, del pozzo] tornerà ad avere sete; chi invece berrà l'acqua che gli darò io, non avrà più sete in eterno; ma l'acqua che io gli darò diventerà in lui  sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna.»