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La ripresa non è il ritorno dell'uguale, ma il procedere ricordando in forza del religioso

di Francesco Lamendola - 09/04/2009



«La ripresa», definita da Kierkegaard «un saggio di psicologia sperimentale», viene pubblicata dal filosofo danese con lo pseudonimo di Constantin Constantius, nel 1843: un anno veramente prodigioso per la sua produzione letteraria, dato che in esso vedono la luce anche «Aut-Aut» (a firma di Victor Eremita), «Timore e Tremore» (di Johannes de Silentio)» e «Nove discorsi edificanti».
L'anno prima egli aveva rotto il fidanzamento con Regina Olsen, l'evento più importante della sua vita di uomo e di pensatore; e «La ripresa» ne è il riflesso, "a caldo", e, al temo stesso, l'espressione di una ferma volontà di superamento, ma nel senso specificamente kierkegaardiano del "procedere ricordando".
Al di là, comunque, del significato biografico di quest'opera, e di tutto quel che è stato detto - anche troppo - sul complesso rapporto di amore fra Kierkegaard e Regina Olsen, ci sembra che il concetto della ripresa sia uno di quei lampi di luce che, di tratto in tratto, rischiarano con felice intuizione e con straordinaria potenza la buia notte del pensiero moderno; e che, in tale senso, esso abbia ancora molte cose da dire agli uomini del nostro tempo, anche se ignorato dai più.
In un certo senso, Kierkegaard ha esaminato, e scartato, l'idea del ritorno dell'uguale, molto prima che Nietzsche la mettesse al centro della sua dottrina dell'Eterno ritorno; e l'ha scartata, sia per ragioni di ordine logico (sul piano del finito, nulla può tornare identico a se stesso), sia per ragioni di ordine etico (il ritorno dell'identico sarebbe qualche cosa di insignificante, nel senso etimologico di "privo di significato").
I due aspetti, quello logico e quello etico, trovano il loro punto d'incontro  nelle riflessioni svolte da Kirkegaard sulla figura biblica di Giobbe. Giobbe, infatti, come premio della propria fedeltà a Dio  nel momento della prova più terribile, ritrova i beni perduti, ma non può ritrovare anche i figli che gli sono stati rapiti dalla morte. Anche Abramo, che stava per sacrificare il figlio Isacco, alla fine dell'episodio della prova cui è sottoposto, lo ritrova, ma non è lo stesso Isacco: fra il «prima» e il «poi», c'è di mezzo una eternità.
Così, nella prospettiva del cristianesimo, le cose non possono ritornare identiche a se stesse nel piano del finito, ossia nelle medesime condizioni spazio-temporali; possono, però ritornare sul piano dell'assoluto, mediante un movimento volontario, che è reso possibile, appunto, «in forza del religioso»: un balzo formidabile dal contingente all'eterno, che permette di scavalcare tutte le aporie della vita, a cominciare dallo scarto temporale tra presente e passato e tra presente e futuro.
Come ha efficacemente osservato Salvatore Spera (in: «Kierkegaard», Bari, Editori Laterza, 1983, 1986, p. 80):

«Sono i presupposti di una filosofia della storia dove il "momento" (passato-presente-futuro) dà un significato nuovo alla temporalità,  tra realtà e possibilità, necessità e libertà».

Ecco perché Kierkegaard sostiene che la ripresa è, nello stesso tempo, l'interesse ed il limite della metafisica, nonché il compito della libertà: infatti, mediante la ripresa, la libertà umana si pone davanti al compito di passare dal non essere all'Essere, alla non verità alla Verità; ossia, in altri termini, di portarsi sul piano della trascendenza.
E qui si verifica il secondo «salto» dell'itinerario kierkegaardiano verso Dio; il primo era stato quello dalla sfera estetica a quella etica; ora si palesa quello tra quest'ultima e la sfera del religioso. È solo quest'ultima, infatti, che rende possibile la rinascita dell'uomo, giunto a confrontarsi con l'impossibilità di realizzare la ripresa sul piano del finito.
«La malattia mortale» (pubblicata nel 1849, a firma di Anti-Climacus), ossia la disperazione, nasce dalla percezione di quel salto, di quella discontinuità, e rappresenta lo smarrimento dell'anima davanti all'incommensurabilità del compito che le viene richiesto; e solo abbandonandosi alla categoria del religioso (e, quindi, all'aiuto divino) può compiere l'ultima e decisivo salto verso la salvezza.
Solo chi riesce a compiere quel salto, riesce a realizzarsi realmente come uomo; perché l'uomo, in quanto tale, non è altro che una possibilità.
Kierkegaard lo dice nel modo più esplicito proprio nelle prime righe de «La malattia mortale» (titolo originale: «Sygdommen Til Döden»; traduzione di Meta Corssen, Milano, Edizioni di Comunità, 1965, 1981, p. 19)

«L'uomo è spirito. Ma che cos'è lo spirito?  Lo spirito è l'io. Ma che cos'è l'io?  È un rapporto che si mette in rapporto con se stesso oppure è, nel rapporto, il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso; l'io non è il rapporto, ma il fatto che  il rapporto si mete in rapporto con se stesso. L'uomo è una sintesi dell'infinito e del finito, del temporale e dell'eterno, di possibilità e necessità, insomma, una sintesi.  Una sintesi è un rapporto fra due elementi. Visto così l'uomo non è ancora un io.»

Ma ecco come Kierkegaard si esprime circa il concetto filosofico della ripresa (che alcuni traducono, secondo noi poco felicemente, con il vocabolo «ripetizione», ne «La ripresa» (titolo originale: «Gjentagelsen», traduzione italiana di Angela Zucconi, Milano, Edizioni di Comunità, 1983, pp. 15-17 e 32-33):

«Come i greci insegnavano che conoscenza è reminiscenza, così la filosofia moderna insegnerà che tutta la vita è una ripresa.  Leibniz è il solo filosofo moderno che ne abbia avuto il presentimento. Ripresa e reminiscenza rappresentano lo stesso movimento ma in direzione opposta,  perché ciò che si ricorda è stato, ossia si riprende retrocedendo, mentre la vera ripresa è un ricordare procedendo.  Perciò la ripresa, ammesso che sia possibile, rende l'uomo felice, mentre la reminiscenza lo rende infelice, a condizione però che l'uomo  si dia tempo per vivere e non cominci appena nato a trovare un pretesto per riandarsene, magari con la scusa  di aver dimenticato qualcosa.
Il solo amore felice è l'amore-ricordo, ha detto un certo scrittore [cioè lo stesso Kierkegaard in "Enten-Eller"]. Bisogna convenire che è giusto, purché non si dimentichi che esso al principio ha reso l'uomo infelice. L'amore-ripresa è in verità il solo amore felice, perché non porta con sé, al pari dell'amore-ricordo, l'inquietudine della speranza, né la venturosa trepidazione della scoperta, né la commozione della rimembranza, ma soltanto la felice certezza del momento. La speranza è un vestito nuovo fiammante, che non fa pieghe né grinze, ma non puoi sapere se ti va, né come ti va, perché non l'hai mai indossato. Il ricordo è come un vestito smesso, per quanto bello non puoi indossarlo, perché non ti entra più. La ripresa è una veste che non si può consumare, che non stringe né insacca, ma dolcemente aderisce alla figura. La speranza è una bella fanciulla che ci guizza via dalle mani. La ricordanza è una bella vecchia che non ci offre mai quel che ci serve nel momento.  La ripresa è una sposa amata di cui non accade mai di stancarsi, perché ci si stanca solo del nuovo, mai del vecchio e la presenza delle cose a cui si è abituato rende felici. Ma riesce ad essere interamente felice soltanto chi non si inganna col pensiero che la ripresa debba dargli qualcosa di nuovo; chi si inganna con questo pensiero ben presto si stanca della ripresa. È necessaria la giovinezza per poter sperare, giovinezza per ricordare, ma è necessario il coraggio per volere la ripresa. Chi vuole soltanto sperare è vile; chi vuole soltanto ricordare è un voluttuoso; chi vuole la ripresa è un uomo, tanto più degno di questo nome quanto più vigorosamente ha saputo proporsela.  Ma chi non comprende che la vita è una ripresa, e che in questo consiste tutta la bellezza della vita, merita soltanto il destino che lo attende: perire. Perché la speranza è un frutto che tenta e non sazia, il ricordo una stentata moneta che non basta al bisogno, ma la ripresa è il pane quotidiano che generosamente soddisfa. Chi ha navigato i mari della vita può dire che possiede, o meno, coraggio di capire che la vita è una ripresa e se ha disposizione a compiacersene. Chi non ha conosciuto quei mari ancor prima di cominciare a vivere, non arriverà mai a vivere. Chi li ha conosciuti e ne è rimasto saziato, ha una costituzione cattiva; soltanto chi ha scelto la ripresa vive. Costui non corre come un bambino dietro le farfalle, né sta in punta di piedi a guardare le meraviglie del mondo, perché le conosce; non se ne sta in poltrona filando come una vecchia la ricca del ricordo, ma segue fiducioso il suo cammino lieto della ripresa. Se non esistesse la ripresa, che cosa sarebbe la vita? Chi vorrebbe essere una tavola sulla quale il tempo a ogni istante scrive una nuova frase o prende a ogni istante nota di quello che è passato? Chi vorrebbe essere in balia di tutte le fugacità, , di tutte le novità, che continuamente rinnovandosi vengono a blandire e a svagare l'anima? Se Dio stesso non avesse voluto la ripresa, il mondo non sarebbe mai stato. Egli avrebbe seguito allora i facili piani della speranza oppure avrebbe ritratto tutto a sé, conservandone soltanto la memoria. Ma poiché Dio non fece né l'una né l'altra, il mondo esiste ed esiste come ripresa. La ripresa è la realtà della vita, è la serietà della vita. […]
La ripresa è una nuova categoria che deve essere ancora scoperta.  Chi ha una certa conoscenza della filosofia moderna e non è del tutto digiuno di filosofia greca, vede facilmente che proprio questa categoria spiega il contrasto  tra gli eleati ed Eraclito; che la ripresa è ciò che per errore fu chiamato mediazione. Non si può credere come la filosofia hegeliana abbai gonfiato la parola mediazione e quante chiacchiere vane sotto quell'insegna abbiano goduto fama ed onore. Bisognerebbe piuttosto tentare una revisione del concetto di mediazione  e rendere giustizia ai greci. Lo sviluppo greco della dottrina dell'essere e del nulla, dell'attimo e del non essere, e così via, mette fuori gioco Hegel. "Mediation" è una parla straniera, "Gjentagelsen" (ripresa) è una buona parola danese ed io mi congratulo con la lingua danese  per la bontà di questo termine filosofico. Nessuno dei moderni  ha spiegato come avvenga la mediazione, se risulti dal moto dei due momenti e in che senso  la mediazione sia già contenuta in essi o se essa costituisca piuttosto un nuovo elemento  e in che modo questo nuovo elemento intervenga. Sotto questo riguardo l'esame al quale i greci sottoposero il concetto di χίνησις corrispondente alla moderna categoria di "passaggio" è degno di ogni considerazione. La dialettica della ripresa è facile, quello che si può riprendere è già stato, altrimenti non si potrebbe riprendere, ma proprio in questo essere già stato consiste la novità della ripresa. Quando i greci dicevano che conoscenza è reminiscenza, intendevano: tutto questo che è, è stato. Quando si dice che la vita è una ripresa, si intende: quel che è stato, sarà. Per chi non possiede la categoria della reminiscenza o quella della ripresa, tutta la vita si dissolve in uno strepito vano e vuoto. La reminiscenza rappresenta la concezione pagana della vita, la ripresa la concezione cristiana. La ripresa è l'interesse della metafisica e al tempo stesso l'interesse sul quale la metafisica si arena; la ripresa è la chiave di ogni concezione etica, la ripresa è la "conditio sine qua non" di ogni problema dogmatico.»

Infatti, la concezione circolare del tempo, che verrà ripresa da Nietzsche nella dottrina dell'Eterno ritorno, è la concezione propria del paganesimo, e la dottrina platonica della reminiscenza non ne è che un corollario (si ricorda ciò che è già avvenuto).
Anche la concezione giudaica, per Kierkegaard, rimane al di qua dell'orizzonte del finito: perché l'idea che Giobbe ritrovi tutto quello che aveva perduto, o che Abramo riabbia il figlio Isacco tale e quale com'era prima del sacrificio (e come era egli stesso) si colloca, secondo il filosofo danese, in un orizzonte immanente: è pur sempre questa vita che fa valere i suoi diritti, e sia pure quando tutto sembrava ormai perduto.
È solo con il cristianesimo, per Kierkegaard, che la categoria della libertà rende possibile all'uomo compiere il superamento del contingente e, quindi, il superamento del dramma della storia immanente e chiusa in se stessa; ed è in questo senso che egli sostiene il punto di vista secondo cui il concetto della ripresa compendia in se stesso tutta la serietà della vita e la ripresa è, in se stessa, la realtà della vita.
Ne consegue che solo una vita in cui l'uomo sia capace di eseguire il movimento dialettico della ripresa, ossia il procedere ricordando, è una vita realizzata; altrimenti, si tratterà ineluttabilmente di una vita mancata.
Possiamo domandarci, a questo punto, quante siano le vite mancate e le vite inautentiche, in quanto incapaci di eseguire il movimento della ripresa.
Nel precedente articolo «La "vita mancata" come problema filosofico» (consultabile anch'esso sul sito di Arianna Editrice) ci eravamo posti il problema, giungendo alla conclusione che una vita mancata (o fallita, o inautentica) è una vita che non ha saputo rispondere alla chiamata. E a chi  pensasse di poter liquidare la domanda sul perché di una tale mancata risposta, adducendo il richiamo smodato per il potere, il possesso, il piacere e simili, noi replicheremmo che ciò non fa altro che spostare i termini della domanda, che diventerebbe: per qualche ragione l'attrazione smodata verso il potere, il possesso, ecc. può impedire ad un essere umano di udire la chiamata e di rispondervi positivamente?
Per noi, non vi sono dubbi circa il fatto che, al di là dei modi in cui una vita può fallire, la causa ultima è, sostanzialmente, sempre una ed una sola: l'incapacità, da parte dell'essere umano, di ri-conoscersi come persona, ossia - per dirla, ancora, con Kierkegaard - come singolo e come interiorità.
È quando l'essere umano si scorda, o non si accorge, di essere molto di più che un aggregato di molecole e un prodotto di cause naturali, che si vengono a configurare le condizioni per il fatale ottenebramento della coscienza, che lo porterà a divenire sordo e cieco alla voce della chiamata e a rinchiudersi in un orizzonte esistenziale sempre più circoscritto ed asfittico, sempre più penosamente insufficiente; fino a morire - letteralmente - per mancanza di ossigeno.
Da ciò deriva, inoltre, che l'essere umano, quando si rinchiude in un orizzonte disperatamente immanentistico, che non lo appaga e che lo induce a rivolgere contro se stesso quelle energie spirituali che gli sono state date per realizzarsi e per trascendersi - giacché l'uomo, paradossalmente, si realizza solo andando oltre se stesso - non di rado tenta di comprimere la ferita che incessantemente lo fa sanguinare, reagendo con un accresciuto e mal diretto desiderio di potenza, grazie al quale sentirsi grande ed eroico.
La volontà di potenza di Nietzsche è un tipico esempio di questo tipo di reazione patologica e distruttiva.
Al termine di queste riflessioni, possiamo dire che il nostro rapporto con il passato è decisivo per la realizzazione della nostra vita. Un rapporto basato esclusivamente sul rimpianto è tanto fallimentare quanto un rapporto basato sulla eterna speranza nel futuro; sono due modi diversi di fuggire davanti alla stessa responsabilità: quella del presente.
La nostra vita è qui e ora, ma non si esaurisce nel qui e nell'ora. Diciamo che il qui e l'ora sono una sorta di trampolino da cui l'io può lanciarsi, mediante un atto di libera volontà, verso la dimensione dell'assoluto: dimensione in cui egli ritroverà, intatte, tutte le cose che ha amato, e anche quelle alle quali ha saputo rinunciare, se le sue scelte sono state motivate non dalla smania di afferrare tutto quanto era a portata di mano, ma da una gerarchia di valori riflettente la sua stessa natura essenziale: sintesi, come diceva Kierkegaard, di infinito e di finito, di temporale e di eterno, di possibilità e di necessità.