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Berlusconi e le "città di fondazione". Intervista ad Antonio Pennacchi

di Alessandro Calvi - 09/04/2009



Il presidente operaio ci ha preso gusto. E, da operaio, si è promosso a presidente fondatore. D'altra parte, il vecchio amore - il mattone - non si può dimenticare. Ed ecco servite le new town. Era dai tempi di Mussolini che un capo di governo non annunciava un programma di costruzione di città nuove, da zero. Torna a farlo ora Silvio Berlusconi. «Ma per cortesia, non bestemmiamo. Mussolini era una cosa seria», si inalbera Antonio Pennacchi. E, citando Marx, spiega: «quando la storia si ripete, si ripete come farsa».
«L'idea di fare una L'Aquila 2 mi sembra una grande fesseria», sostiene Pennacchi. E tanto dovrebbe bastare perché davvero Pennacchi è un'autorità in materia. Nella sua vita da fasciocomunista - come recita il titolo di uno dei suoi libri - ha attraversato la storia di questo paese. E il suo Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce - edito da Laterza - è un libro imprescindibile, uno di quelli - come anche Roma moderna di Italo Insolera - che, con la scusa di raccontare città, finiscono per raccontare tante storie e, in fondo, una soltanto: quella di come questo paese è diventato ciò che è oggi. Dalla lettura di quelle pagine, ciò che emerge è che le città - nuove o vecchie che siano - sono soprattutto una cosa: il popolo e le relazioni delle quali una città vive. E non si fa pregare per ripeterlo, non prima, però, di aver fatto una premessa.
«Costruire una città nuova significa costruire una città dove non c'era nulla. Durante il fascismo questo lavoro viene fatto perché, soprattutto nel centro-sud, avviene la riconquista delle grandi pianure abbandonate». Oggi, però, è diverso e «si dovrebbe scindere l'emergenza terremoto dal piano casa». Inoltre, Berlusconi parlando dell'Aquila «ne ha parlato come di una sostituzione, non come una espansione». Ieri, però, ha parlato di «case in più». «Ecco, se stanno parlando soltanto di realizzare un quartiere nuovo, non ci facciano perdere tempo». Se invece si tratta davvero di città nuove, il discorso può proseguire.
«Questo - dice riferendosi a Berlusconi - promette, sbandiera, fa vedere fotografiee aeree. E parla di new town senza neppure sapere cosa siano. Lui conosce Milano 2 - dice - ma quella è tutta un'altra cosa». «Me ne frego del laghetto e del verde se mancano le relazioni umane», prosegue. E spiega: «La qualità di un insediamento urbano non si misura solo dalla quantità di verde ma soprattutto dalla capacità che ha il manufatto di costruire relazione tra le persone».
Altro che città di fondazione, dunque. Altro che «largo respiro di petto romano» con il quale il Duce dava forma alle città di là da venire e, intanto, assestava colpi di piccone al centro di Roma, demoliva interi quartieri traslocando nelle nuove borgate i residenti, sbancava colline per mettere in mostra i gioielli di un presunto Impero e dava un volto nuovo alla capitale. Anche le "case rapidissime" di allora - quelle destinate agli sfollati provocati da quegli sventramenti - «erano meglio dei progetti di oggi», dice Pennacchi.
«Nulla a che vedere con i ghetti che ci sono negli altri Paesi», garantiva ieri Silvio Berlusconi. Già, però, osserva Pennacchi, «se le cose non si fanno per bene, poi, il rischio è quello di dare vita a dei mostri». E avverte che «città ghetto non sono soltanto quelle dei poveri ma anche quelle dei ricchi» perché, insiste, «la città non è soltanto palazzi e strade ma soprattutto le persone che ci stanno dentro e la stratificazione delle persone, le generazioni che si sono alternate». Dunque, il modo migliore per realizzare città è evitare la separazione delle funzioni. L'esempio è il quartiere Prati, a Roma, «con i palazzi e subito i negozi, il falegname, il bar, la piazza dove ti incontri con la gente. Non i residence in cui ti chiudi nel tuo box e per fare qualsiasi cosa devi prendere l'automobile». Per questo, dunque, sarebbe meglio «ricostruire la città dove era, dove è sempre stata». «Altrimenti - avverte - si fa Gibellina che è un posto invivibile». Oppure, «Salle, sempre in Abruzzo, costruita nel 1931 dopo che fu distrutta da un terremoto. Oggi i ragazzi si stanno organizzando per tornare a Salle vecchia».
Insomma, altro che "Capoccione". «Mussolini - conclude Pennacchi - ci portò alla guerra ma era di un'altra statura, era animato dalla convinzione di poter essere auctor dello Stato. Quello - e il riferimento è ancora a Berlusconi - sta lì soltanto perché noi della sinistra ci siamo suicidati».