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Per liberare l'Iraq, la resistenza deve colmare lo spartiacque confessionale

di Seumas Milne - 09/04/2009


Come riconoscono i leader che lottano contro l'occupazione, gli Usa potrebbero ancora sfruttare le loro divisioni nel tentativo di compensare la propria sconfitta strategica



In un tentativo estremo di salvare una qualche minima credibilità dalla guerra più catastrofica fra quelle combattute dall'Occidente nell'epoca moderna, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti sta prendendo piede la storia secondo cui, dopo sei anni di orrore, l'Iraq si sta finalmente avviando sulla buona strada. Questa interpretazione favorevole degli eventi è diventata così rapidamente verità accettata che adesso politici ed esperti insistono regolarmente nel dire che, se solo al Generale Petraeus verrà consentito di operare la magia della sua surge sull'Afghanistan, tutto potrebbe andar bene anche in quella terra sopraffatta dalle tenebre. Un articolo pubblicato di recente sul Sunday Telegraph è arrivato a sostenere che i 4.000 soldati britannici che ancora sono a Bassora vengono considerati "eroi e liberatori" dagli iracheni, ora che la loro missione da 8 miliardi di sterline è stata finalmente "compiuta".

Mentre domani inizia il settimo anno dell'occupazione dell'Iraq guidata dagli Usa, i fatti sul terreno raccontano una storia molto diversa. La settimana scorsa, più di 60 persone sono state uccise in due attacchi suicidi contro obiettivi della polizia e dell'esercito iracheni a Baghdad, mentre tre giorni fa una ragazzina di 12 anni è stata colpita a morte da soldati americani in un incidente a un checkpoint nella provincia di Ninive. E' vero che la violenza è notevolmente diminuita rispetto al suo picco sanguinoso di un paio d'anni fa, e che la fornitura di energia elettrica si sta avvicinando  – al livello che gli Stati Uniti avevano promesso di raggiungere cinque anni fa, circa il 50% della domanda. Ma in media un giorno sì e uno no viene ucciso un soldato Usa, poliziotti e soldati iracheni muoiono a un ritmo assai più elevato, e le morti di civili iracheni di cui si viene a sapere viaggiano sulle oltre 300 al mese.

Ma il discorso sul successo e la diminuzione graduale [delle truppe] verso il ritiro si è talmente radicato, che di tali eventi si parla a malapena nei Paesi occupanti. I media occidentali per lo più si sono stancati da molto tempo dell'Iraq e delle sue tribolazioni inflitte dall'Occidente. Nel frattempo, gli Stati Uniti e il governo iracheno alle loro dipendenze tengono tuttora in carcere decine di migliaia di prigionieri senza processo; corruzione e tortura dilagano; la condizione delle donne si è nettamente deteriorata sotto la tutela statunitense e britannica; e oltre 4 milioni di rifugiati iracheni sono tuttora impossibilitati a tornare a casa – o a votare nelle elezioni non proprio libere.

Non c'è da stupirsi che, secondo gli ultimi sondaggi di opinione, la maggior parte degli iracheni non condivida la visione rosea del Sunday Telegraph sul ruolo delle truppe britanniche; i risultati mostrano inoltre che gli iracheni continuano a opporsi all'invasione originaria e vogliono che tutte le truppe straniere se ne vadano. Tuttavia, secondo il piano del presidente Obama, il ritiro statunitense è tutt'altro che sicuro: fino a 50.000 soldati rimarranno dopo l'agosto del prossimo anno (senza contare i contractor e i mercenari), e non esiste alcuna garanzia di un ritiro totale nemmeno entro fine 2011. E, anche se gli attacchi della resistenza sono diminuiti – in parte per effetto della creazione delle milizie sunnite dei Consigli del risveglio appoggiate dagli Usa, in parte a causa della riduzione dei pattugliamenti statunitensi, e in parte per la smobilitazione dell'Esercito del Mahdi sciita – molti prevedono che la diminuzione sia transitoria.

Alcuni giorni fa, in Medio Oriente, ho incontrato il leader, o "emiro", di uno dei maggiori gruppi della corrente principale della resistenza irachena, l'Esercito Islamico, in prevalenza sunnita. Nella sua prima intervista con un giornalista occidentale, lo sceicco Abu Yahya sosteneva che gli Usa hanno "subito una sconfitta storica in Iraq, non solo sotto l'aspetto militare, ma anche sotto quello politico e morale". E' fuori discussione, diceva, che la resistenza segua la strada della collaborazione intrapresa dagli estremamente instabili Consigli del risveglio, i cui membri per la maggior parte si sono arruolati solo a causa della povertà e della disoccupazione: "Continueremo a combattere finché l'ultimo soldato americano lascerà l'Iraq, a prescindere dal tempo che sarà necessario".

Tuttavia ha ammesso che la guerra confessionale totale scatenata nel 2006-7, di cui attribuisce la responsabilità a Stati Uniti e Iran, ha indebolito la resistenza e "diminuito la portata" della sconfitta americana. "La pulizia confessionale reciproca è avvenuta solo dopo l'arrivo di Negroponte", diceva Abu Yahya, riferendosi all'ambasciatore Usa in Iraq dal 2004 al 2005, che deve la sua pessima reputazione al ruolo di inviato in Honduras durante la sporca guerra contro i Sandinisti negli anni '80. "Riteniamo che quando gli Usa non sono riusciti a sconfiggere la resistenza sunnita, hanno deciso di lasciare che gli sciiti ci facessero la guerra per neutralizzare la minaccia".

Descrivendo come i soldati Usa arrivavano in una roccaforte della resistenza, cercavano armi, circondavano la zona con i carri armati, e poi permettevano alle milizie sciite armate dal governo di infiltrarsi e uccidere, Abu Yahya sottolineava: "Quando è iniziato il jihad, combattevamo solo gli americani – quando però sono arrivate le milizie, abbiamo dovuto combattere su due fronti". La creazione dei Consigli del risveglio ha provocato problemi ancora maggiori "perché venivano dall'interno ed erano in grado di passare particolari sulla resistenza".

La verità è che gli Usa hanno giocato la carta confessionale fin dai primi giorni dell'occupazione, creando una amministrazione e una Costituzione basate su una ripartizione etnica e confessionale dei posti di governo sul modello libanese - che, nel contesto del tessuto sociale iracheno complesso e già danneggiato, ha posto le basi per un vortice nazionale. Questo è stato alimentato dal brutale settarismo anti-sciita di al-Qaeda, portata in Iraq grazie all'invasione statunitense. Il virus dello scontro sunniti-sciiti successivamente si è diffuso in tutta la regione, alimentando la "guerra fredda" araba che ora divide libanesi, palestinesi, e Stati da un capo all'altro del Medio Oriente.

Si è trattato di una classica strategia divide et impera di tipo coloniale che ha fatto guadagnare tempo all'occupazione Usa e portato sofferenza agli iracheni. Adesso ci sono segnali che la febbre confessionale e inter-etnica in Iraq sta calando. Nelle elezioni regionali parziali di gennaio, diversi fra i partiti più confessionali e federalisti – come il Consiglio Supremo islamico di Abd al-Aziz al Hakim appoggiato dagli Usa e dall'Iran – sono stati ridimensionati, mentre le forze laiche e nazionaliste hanno fatto progressi significativi.

Tuttavia, come altri gruppi della resistenza, l'Esercito Islamico di Abu Yahya  non parteciperà a un processo politico che considera "illegittimo e corrotto", a meno che non vengano riformate le strutture confessionali come parte di un ritiro Usa negoziato. Finora, gli Stati Uniti mostrano scarso interesse nel ricompensare quelli che li hanno combattuti fino ad arrivare a una impasse negli ultimi sei anni – ma qualsiasi ritiro senza un accordo di questo tipo è una ricetta per la ripresa del conflitto.

E' incontestabile che gli Stati Uniti abbiano subito una sconfitta strategica in Iraq. Lungi dal fare del Paese una base di partenza per la trasformazione della regione sul modello occidentale, esso è diventato una dimostrazione globale dei limiti della potenza militare americana. Ma l'incapacità della resistenza a colmare lo spartiacque confessionale e a diventare un vero movimento nazionale è, come riconosce Abu Yahya, un tallone d'Achille che potrebbe ancora consentire agli Usa di recuperare vantaggi a lungo termine dai rottami. Se l'Iraq deve riacquistare la sua sovranità e il controllo delle sue risorse, e gli Stati Uniti devono lasciare completamente il Paese, questa debolezza dovrà essere superata.

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)

*The Guardian/Comment is Free,