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Una pagina al giorno: L'arrivo dello zio d'America, di Francesco Chiesa

di Francesco Lamendola - 14/04/2009


Abbiamo già avuto occasione di occuparci della letteratura italiana della Svizzera, in questa stessa rubrica «Una pagina al giorno», prendendo in considerazione il libro di Giuseppe Zoppi «Presento il mio Ticino» (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Riprendiamo ora questo angolo un po' nascosto (o, meglio, un po' dimenticato) della nostra letteratura, scegliendo una pagina di quello che è considerato il maggiore autore italiano del Canton Ticino: Francesco Chiesa (Sagno, Canton Ticino, 1871- Lugano, 1973).
Dal romanzo di Francesco Chiesa, «Tempo di marzo», del 1925: felice elegia dell'infanzia lontana, abbiamo scelto di presentare le pagine di apertura, fresche e vivaci come la risata argentina di un bimbo (Torino, Società Editrice Internazionale, 1969, pp. pp. 3-9):

«L'anno delle disgrazie (tristemente famoso nelle cronache della mia famiglia) cominciò così. Una mattina sul principio di maggio, stavamo seduti, il babbo, la mamma ed io, sotto il portico di casa; i piccini giocavano nel cortile. La mamma coglieva e componeva in forma di mazzo le foglie di gelso da tritare per i bachi da seta, che cominciavano a nascere. Il babbo, nell'attesa della posta che gli portasse il giornale nuovo, cercava nel giornale del giorno prima qualche cosa che avesse ancora un sapore. Io, seduto alla tavola, attendevo a sciogliere un quesito d'aritmetica.
Il tempo era bellissimo. Di tanto in tanto un soffio d'aria allegra veniva con un odore di campagna così delizioso e forte, che avrei pagato non so quanto per poter lasciar lì penna e quaderno e darmela a gambe.
Ma proibito uscire: due o tre giorni prima era morto di vaiuolo un ragazzetto del paese; un altro si trovava tra vita e morte e avevano chiusa la scuola. Ottima idea questa, ma guastata dal divieto di andar per i fatti propri e dall'obbligo (almeno in casa mia) di eseguire ogni giorno un lavoro d'italiano o d'aritmetica.
- Che cos'è, in fondo, l'aritmetica? Un giuoco, e uno dei giuochi più divertenti che siano stati inventati. -
In altre circostanze, mi sarei ribellato a quella definizione paterna; ma, Dio mio! Perduta la libertà, tutto il resto conta poco e può perfino accadere che, senza volerlo, così per disperazione,  si trovi un principio di divertimento nel dividere un numero per un altro e nel fare la prova.
Ed ecco la Cleofe della posta.  Il solito: "Siamo qui!", il solito preambolo di chiacchiere: e i bachi, e il vaiuolo e quel gnocco di dottore che non ha capito niente, e la borsa delle lettere che diventa tutti i giorni più pesante… Finalmente aprì la famosa borsa, con l'aria di uno che s'accinge a regalare per pura bontà qualche cosa del suo e consegnò al babbo, insieme col giornale, una lettera giallognola. Il babbo afferrò la lettera con una specie di sussulto e non si decideva ad aprirla; la voltava, la rivoltava…
- Viene da Genova! - mormorò con una vice soffocata, come se dicesse chissà che terribile cosa. O che c'era da commuoversi tanto perché una lettera vien da Genova?
Poi si decise a lacerare la busta, ne cavò un fogliaccio pieno zeppo d'una scrittura grande, arruffata come un bosco; lesse sottovoce, ripiegò il foglio, lo posò sulla tavola, vi mise sopra gli occhiali e disse:
- Adesso possiamo stare allegri. -
Poi repentinamente, riprese la lettera e la porse alla mamma. Ma non le lasciò il tempo di leggere tutto: picchiò un pugno sulla tavola, rosso come un peperone.
- Ah, Madonna santa! - esclamò la mamma. - Anche questa ci doveva capitare! -
Riuscii finalmente a capire. Lo zio Rístico (il suo vero nome era Aristide), il fratello minore di mio padre, quel favoloso personaggio di cui avevo udito tante volte parlare sotto la cappa del camino, ritornava a casa… Lui, la moglie, il figlioletto, tutti quanti. Da parecchi anni non s'era fatto più vivo: si sapeva che era in America, in qualche parte dell'America. La mamma era solita chiamarlo, secondo i casi, "quel povero disgraziato" oppure "quel bel mobile, quel banderale". Il babbo raccontava di lui cose dell'altro mondo, ma in un modo curioso, ridendo, come se dicesse su delle prodezze.
Parlava ben diverso, il giorno che dico. Non l'avevo mai veduto così, il mio buon padre, tanto mite e scherzoso e amante dei discorsi gioviali e pronto a trovare una pezza per tutto!
- Ah! Vuol tornare a casa, dunque! - diceva masticando, e ci guardava con una ciera [sic], che pareva ce ne avessimo colpa noi. - A casa vuol tornare! Come se non avesse portato via tutto quel poco di buono che c'era e lasciate le croste!… Senza contare quello che aveva mangiato, l'animale, nel tempo che se ne stava qui a fare il lazzarone; e nessun mestiere gli conveniva, e nessun posto era abbastanza nobile per lui! Un giorno dice: "Vado in Russia". "E tu va in Russia; va magari al mondo della luna." "Ma ho bisogno d'un po' di denari, subito, per l'avviamento. Un'occasione magnifica. Fra dieci ani, sono milionario!…". Io, asino, gli metto lì dinanzi in pila quei quattro soldi che i nostri vecchi hanno lasciati indietro. Ma non bastano. E io, asino, bestia, ci aggiungo un pizzico de' miei, miei sacrosanti, guadagnati da me, col sudore della mia fronte… Ma non bastano ancora; e si vende il bel bosco di Dosso Verde; si vende il prato giù ai Mulini. E se ne va; e io resto con queste quattro spanne di terra che rendono giusto per pagare le imposte; con questi quattro coppi, tanto per tirarci sotto quando piove. Ma almeno, dico, se ne è andato e non ci si pensa più… Difatti, una sera, "tach tach"… chi è? Lui, il caro fratello: biotto come questa mano, affamato come un cane. E dice (già, già!, l'aveva in bocca fin d'allora, la famosa frase) dice: "Ho pensato di tornare a casa. Gli affari mi sono andati male; c'è crisi da quelle parti…". Buttarlo in istrada? Eh, quando si è fabbricati in una certa maniera… Per dirgliene, gliene abbiamo dette; ma poi… Poi, tra me e la zia Lia, si mete insieme un altro migliaio di franchi e gli si rifà la scorta e gli si compera un biglietto per l'America. Silenzio per un anno o due; poi comincia la tempesta delle lettere. Una lettera dal Brasile, una dall'Argentina, una dal Cile, una dal Paraguay…Ho avuto campo di imparare più geografia, io, dell'America meridionale,, che qualunque professore. E tutte le lettere finivano s'intende, con la solita giaculatoria:  mandar denari!…
- Ma sì, lo sappiamo - interruppe la mamma. - Cose vecchie!
- Lascia dire. Bisogna bene che sappia anche questo ragazzo… Mandar denari. Mandar denari perché il socio è fuggito portandosi via tutto… manda denari perché gli è bruciata la casa… Mandar denari perché si è rotta una gamba cadendo da cavallo… Che ti fossi rotto l'osso del collo!… Mandar denari perché si sposa…
Già, si sposava. Quel giorno, tirai su un poco il fiato perché, pensavo, se si sposa vuol dire che ha trovato una speranza, un avviamento, che so io?, una spanna di terra, buona da metterci le radici. Da queste parti, se Dio vuole, non lo rivediamo più. E gli mando, come regalo di nozze, qualche cosa ancora. Per sei anni, sei anni intieri, ci ha lasciati in pace. Siamo fuori di pericolo, dicevo. Invece…
Invece, - proseguì il babbo inforcando gli occhiali e chinandosi con una specie di cattivo sorriso sulla letteraccia, - invece "carissimo fratello, dopo tante avventure e disgrazie, torno ai patri lari con la mia buona moglie e col mio adorato figlioletto e spero di passare tranquillamente il resto della mia vita nella casa lasciataci dai nostri amatissimi genitori…" Vigliacco! -
Che mezzi abbia tentati mio padre per impedir che lo zio ed il suo seguiti ci cadessero sulle spalle, non so. Forse s'accontentò dello sfogo. Fatto sta che, una settimana dopo, gli Americani (così cominciammo a chiamarli allora e il titolo rimase) erano arrivati, signori e padroni loro di tutta la casa, fin dal primo entrarvi.
Lo zio Rístico era un uomo alto, maestoso e ben vestito. I suoi modi erano imponenti, da gran signore, ma affabili. Calvo come un ginocchio, portava però una bella barba a riflessi dorati, che gli pendeva dal mento come una cosa di gran lusso. Le guance rase a perfezione, mostravano una pelle bruna, ma lustra e pulita come le castagne appena uscite dal riccio. Camminava piano, con la testa alta, fermandosi di tanto in tanto a rotolare una sigaretta: operazione così scorrevole fra le sue magiche dita, che io non sapevo credere ai miei occhi. Faceva spesso l'atto d darsi con l'indice un buffetto su di una manica, sul risvolto dell'abito, per cacciar via qualche busca. Parlava lento e grave, con un sorriso da buon papà di tutti, che sa capire e compatire. Spesso mescolava italiano e spagnuolo con una naturalezza che, a udirlo, si restava convinti che avesse tutte le ragioni lui di parlar così. Anzi quel po' di spagnuolo confuso nei suoi discorsi, a me fece subito l'effetto di una cosa rara e squisita. Quasi quasi mi pareva di sentirvi l'odore di quei paesi dell'altro mondo e di veder gli alberi della cioccolata e le grandi piume dei Pellirosse. E più lo rimiravo e l'ascoltavo, meno riuscivo a capacitarmi delle definizioni ci avevan date di quel bellissimo zio. Straccione? Binda? Mangia pane a tradimento?.. Come si fa a parlare così?
La zia, piuttosto! Quella, davvero, piaceva poco anche a me. Era una donnetta minuta e patita, con un broncio perpetuo stampato in faccia, con i capelli lisci coloro camomilla che scappavano da tutte le parti, con un certo corpetto di seta verdina che lasciava indovinar gli stecchi del busto. Parlava anch'ella un linguaggio misto, ma un po' diverso da quello dello zio, assai meno facile e digeribile. Poiché la zia Clotilde era d'origine francese, lei! E se ne vantava, nella maniera più aggressiva. A proposito di tutto e di tutti.
Ricordo il bel complimento della zia al momento di entrar in casa nostra. Loi zio s'era precipitato giù dalla carrozzella e caro di qua, "cherido" di là, ci aveva abbracciati e baciati alla rinfusa; poi, ricominciato a capo, ma con calma ed ordine: primo il babbo, ultimo il servitore Giosuè. La zia venne giù adagio, di malavoglia, attenta più al suo marmocchio infagottato che non a noi. Si fermò in mezzo al cortile dinanzi alla casa e disse alo zio:
- Ah, "este" è lo grandioso "palasio" che tu me cantavi? -
Ma lo zio magnanimo turò anche a lei la bocca con la sua barba dorata; fece un gran gesto verso la casa e disse:
- È la magion de' miei padri! -»
Poi salirono in camera: nella bella camera dei forestieri che il babbo aveva voluto fosse loro destinata, contrariamente alla fissazione della mamma, la quale insisteva che per quegli strapanati fosse fin troppo la camera della povera zia Lia. Mi accorsi allora del debole che mio padre aveva per il suo fratello d'America e capii che le parole acerbe del giorno ch'era giunta la lettera non volevano dire gran che.
- Del resto, - osservava il babbo, - quella è la camera dei forestieri. E cosa sono i nostri Americani? Forestieri o no?
- Forestieri, - rispondeva la mamma con un amaro sorriso, - che sono venuti per una visita piuttosto lunga… Scommetto che un bel giorno si diventa noi i forestieri, in questa casa…
- Non dire stupidaggini! - interrompeva il babbo con una veemenza eccessiva.
Io, a dir la verità, non trovavo di mio gusto quella opposizione astiosa della mamma. Se si fisse trattato solo della zia Clotilde, oh, allora!… Poiché la zia Clotilde, niente le andava a verso e ci trattava come se fossimo stati fatti con i piedi. La nostra buona polenta era, secondo lei, una pasta "por engrassar puercos"; la nostra buona mortadella aveva un villano colore e le donava il male "al cuor"; le belle lenzuola filate dalla nonna, dalla zia e dalla mamma le facevano subir "la rossor" al suo fisico; i miei fratelli e la sorellina, appena facessero un po' di chiasso, erano degli "insopportabili odiosi gossi"; il paese era un "tasso di ordure"; l'acqua troppo fredda, il sole troppo caldo, le strade piene di sassi, i monti stupidi… E un giorno che la mamma la pregò con la miglior grazia e nel migliore italiano, di non più rovesciar dalla finestra il contenuto della catinella perché era proibito e il sindaco aveva minacciato una multa, lei troncò a mezzo brontolando: - Io non comprendo vostri linguaggio "de gauci". -
Già, la zia Clotilde non era simpatica; e neppure quel piccolo macaco di Leon, degno figlio di lei, che non c'era modo di farlo sorridere; sempre affogato nei mocci, smorto e cascante che, a volerlo tener su, era come reggere in piedi un baco da seta.
Ma lo zio era tutto bellezza e bontà, e compensava largamente il resto; la sua allegria riempiva da sola l'intiera casa; la sua sciccheria mi metteva indosso un orgoglio meglio ancora di quando il babbo due anni prima, era stato eletto sindaco di Vico. Ogni giorno ne avevo una più meravigliosa dell'altra da riferire ai miei amici: e che mio zio possedeva una pipa di schiuma regalatagli dal sultano di tutta l'America; e che mio zio aveva scoperto una cava d'oro; che, non avendo lì pronti piccini, badili ed uomini, ci aveva messo una certa pietra sopra come segnale, e che un giorno ci sarebbe tornato e anch'io con lui… E che, in ispagnuolo, l'olio si chiama aceto, e il burro "manteca"; e per dire specchio, si dice luna, e per dire brodo, si dice caldo…
- E quando il brodi diventa freddo?
- Si dice caldo lo stesso! - »

Come si vede, una prosa fresca, frizzante, cordiale, ma senza enfasi e senza ammiccamenti; una sintassi fluida, un lessico schietto, con frequenti dialettismi: insomma, una pagina ben scritta, che si fa leggere volentieri.
Abituati (e forse male abituati) alla letteratura del Novecento come a qualche cosa che deve essere per forza cerebrale, ardua e irta di male di vivere, abbiamo un po' disimparato ad apprezzare la limpida naturalezza dello scrivere bene e senza fronzoli, senza pretese intellettualistiche, senza crucci pirandelliani e astruserie metafisiche e inquietudini inconfessabili e freudiane nevrosi o complessi o istinti ferini e pulsioni di morte. 
In particolare, ci siamo scordati che la letteratura per l'infanzia non è un genere di serie di B; che non esistono generi di serie B, ma solo scrittori e romanzi di serie B; che un libro ben scritto è sempre di serie A, ossia che è sempre una forma di buona letteratura; e che non ha alcun bisogno, per giustificarsi, di ricorrere a tutto l'armamentario delle angosce post-moderne, della tribolazioni e degli onanismi cerebrali e degli esitenzialistici sconforti, nausee, vomiti e rigetti, che si direbbero il corredo irrinunciabile dello scrittore contemporaneo.
Tutto questo non significa che uno scrittore come Francesco Chiesa sia uno scrittore, come avrebbe detto Benedetto Croce, senza problema letterario, o, addirittura, uno scrittore senza problema. Un vero scrittore è sempre un uomo fra gli uomini, che osserva la vita, la comprende, la riflette, vi s'immerge; non si può essere dei veri scrittori e non sporcarsi mai le mani con il colore della vita - con il suo fango, anche, talvolta.
Ma uno scrittore come Francesco Chiesa non ha bisogno di atteggiarsi a profondo, perché la profondità non dipende dall'argomento che si tratta, ma da come lo si tratta; non ha bisogno di atteggiarsi a serio, perché la serietà della scrittura, come quella della vita, emerge dalla forza stessa delle cose dette e fatte, e non dalla circostanza che qualcuno abbia conferito loro il diploma di serietà o, magari, di seriosità.

Scrive Guido Calgari nel suo ampio volume «Le quattro letterature della Svizzera» (Milano, Sansoni-Accademia, 1968, pp. 337-38):

«Rivivono dunque in queste opere [«Racconti puerili», «Tempo di marzo», «Racconti del mio orto»] ambienti e ricordi del Ticino, del mendrisiotto e del luganese;  un paesaggio veramente felice, una natura delle più sorridenti e variate, e abitazioni costumanze modi di vita gesti e linguaggio tra i più cordiali della civiltà italiana; in siffatto ambiente, lo scrittore ritrova la propria immagine di ragazzo, i giuochi d'una volta, le gioie le monellerie  le sofferenze d'un'età lontana, e i personaggi che infondevano affetto o incutevano timore al ragazzo: gli adulti, babbo, mamma, gli zii e le loro domestiche, il curato, i maneggioni del paese e i gervasi, i superiori del collegio, le autorità vicine e meno vicine; poi in "Racconti del mio orto" e in "Scoperte", sono le creature della stessa età, la moglie, i vicini, i passanti, i curiosi, l'uomo che - ignoto fino a ieri - incontra una certa sera e ti apre l'animo, la donna che a un tratto svela un suo intimo dramma, e sono i figli, ma più grandi, con una loro personalità e capacità  di contrastare e di contraddire. Un mondo.  Una realtà vissuta, concreta, di vibrata plasticità, con le virtù e i vizi, gli egoismi e le infingardaggini, il coraggio e la vigliaccheria, la dabbenaggine e l scaltrezza degli uomini vivi,  quindi una materia di costante vitalità, d'inesauribile interesse. Nei primi libro, al centro è il "fanciullo-poeta" che ricorda, interpreta, giudica, o che semplicemente riferisce, preferendo lasciar giudicare al lettore; e tutto il racconto si muove con una freschezza di rappresentazione che è pienamente riuscita; e ritratti d'uomini, gesti, visioni improvvise di paesaggio offrono lo spunto ad associazioni felici, a immagini fresche che il ragazzo trova immancabilmente  nel regno della natura. Nelle altre opere,  al centro è l'uomo disincantato e fatto saggio dalla vita (con qualche impennata bizzarra)che annota le miserie del prossimo, ma che sa ritrovare gli occhi del "fanciullo-poeta" e consolarsi nel lavoro e nella contemplazione della natura. Sempre, in tutti i libri, un buonsenso sereno, moraleggiante, una sconfinata ammirazione per il proprio paese e grande carità verso gli uomini, carità che si esprime talvolta con accenti di moralismo inquieto, ma anche spesso con improvvise punte di umorismo.»

Sì, proprio così: «un buonsenso sereno, moraleggiante»: moraleggiante.
Da quando in qua un libro, per essere considerato valido e poter essere apprezzato dai signori critici, deve spogliarsi di ogni contenuto morale?
Del resto, «Tempo di marzo» è figlio della civiltà contadina; ed il mondo contadino era moraleggiante in ogni sua manifestazione: dai proverbi alle canzoni popolari, dal gesto di benedire il cibo prima di mangiare, alla nicchia con l'immagine sacra sul muro esterno della casa in pietra;  e così via.
Anche Manzoni, secondo certi signori critici, si lascia andare un po' troppo al moralismo; ma forse essi dovrebbero capire la differenza tra moralità e moralismo.
Non è un caso che, per trovare un corrispettivo a questo libro di Francesco Chiesa, bisogna andare nelle letterature dell'Europa centro-orientale: in quella romena, ad esempio, con gli splendidi «Ricordi d'infanzia» di Ion Creanga.
Le letterature dell'Europa occidentale, dopo l'avvento della modernità, si sono vergognate della schiettezza del mondo dell'infanzia; hanno bandito, come una forma di indebito moralismo, la moralità del contenuto; hanno tacitamente sentenziato che parlare dei bambini è cosa da bambini, a meno che si descrivano fanciullezze funestate da traumi psicologici che solo i santoni della psicanalisi potrebbero arrischiarsi a scandagliare…
Peccato: perché, in questo modo, qualche cosa di bello si è perduto.
Qualche cosa di fresco, di pulito, di importante: libri gentili, come questo «Tempo di marzo», che ci restituisce, al tempo stesso, il profumo dell'infanzia e il respiro - ormai perduto per sempre - della nobile civiltà contadina.