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Francesco. Ottocento anni dopo

di Franco Cardini - 15/04/2009

 

Foto di Giliola Chistè, www.giliolachiste.com

Successe, pare, ottocento anni fa: anche se la cronologia non è proprio chiarissima.

Nei suoi palazzi lateranensi, quella primavera dell’anno del Signore 2009, Lotario dei conti di Segni – gran signore della campagna romana e grande giurista, papa col nome d’ Innocenzo III -, nonostante fosse il vicario del Cristo, doveva avere un diavolo per capello. Le cose della Cristianità non andavano per nulla bene. Il Sacro Romano Impero era in pezzi e non si riusciva a trovar un signore abastanza energico in grado di cingerne la corona; a Costantinopoli, regnava un monarca francese che aveva sostituito gli imperatori greci alla fine di una crociata (la quarta, come dicono i manuali) che avrebbe dovuto liberare Gerusalemme e si era invece abbattuta sui cristiani ortodossi; e nello stesso Occidente europeo serpeggiava la rivolta religiosa ma anche politica guidata da pallidi predicatori venuti da oriente che praticavano duri digiuni e insegnavano alla gente che la Chiesa era degenerata, che aveva tradito e dimenticato il messaggio evangelico e che sul trono pontificio sedeva l’Anticristo.

Fu allora che alla corte pontificia si presentò un insolito e nemmeno troppo pittoresco gruppo di “penitenti” che venivano dalla città umbra di Assisi, vestivano il rozzo camicione dei contadini stretto alla vita da una povera corda e portavano le grache, come i pellegrini e i viaggiatori. Li guidava un giovane nion più giovanissimo, quasi trentenne, figlio di un facoltoso mercante assisano che lo aveva ripudiato (o era stato lui a ripudiare il padre…) e che aveva abbandonato da non molto gli eroici sogni d’eroismo cavalleresco fino a poco prima cullati.

Quel che la strana compagnia chiedeva al papa era l’autorizzazione a poter condurre, con il consenso ufficiale della Chiesa, un’inedita esperienza: vivere in povertà seguendo alla lettera l’insegnamento evangelico. Di poveri volontari, la Chiesa del tempo era piena: monaci, canonici, membri di istituzioni religioso- militari. Tutta gente legata sì a un voto di rigorosa povertà personale, ma legata a regole monastiche o canonicali nell’ambito delle quali si viveva ben protetti dalle immense ricchezze e dal grande potere dei rispettivi Ordini. Ora, quei nuovi venuti volevano qualcosa d’altro: essere autorizzati a condividere seriamente e concretamente la povertà dei poveri involontari, i rischi e gli stenti di un’esistenza miserabile e randagia nella quale essi erano decisi a portar la luce del magistero del Cristo e della Sua parola.

Nonostante le molte, perfino troppe biografie di Francesco d’Assisi a lui più o meno coeve, nulla di sicuro sappiamo su quella visita. Le poche cose certe, è Francesco stesso a dircele in un documento scabro, sconvolgente: il Testamentum nel quale, poco prima della morte, egli lasciò dettate in un latino semplice e duro le sue ultime volontà ai suoi fratres, ai “fratelli” che avevano condiviso la sua proposta cristiana e la sua testimonianza. Un documento ch’è tutto meno che ambiguo: nel quale anzitutto si rivendica la diretta ipsirazione personale e divina (“Il Signore mi dette”, “il Signore m’indicò”); e quindi s’indica il nucleo della vocazione, la volontà di seguire strettamente il modello del Cristo non re e giudice trionfante – è così che il grande medieovo l’aveva fino ad allora concepito – bensì povero e nudo. C’era un segno, all’origine di ciò: i lebbrosi, gli ammalati della più terribile, ripugnante e disonorante malattia di quel tempo, un segno esteriore perentorio della maledizione divina. Il giovane Francesco, che sognava l’amore e la gloria cavalleresca, aveva sempre avuto orrore della vista stessa di quei miserabili ammalati: ma una volta toccato dalla conversione quel che prima gli pareva amaro – è proprio in questi ternimini che lo dice – gli si era rivelato come dolcissimo. Aveva imparato a frequentare i lebbrosi, a viver insieme con loro, a servirli. Lui, l’aspirante cavaliere, il figlio del ricco mercante abituato alle morbide vesti e ai cibi delicati di cui era goloso.

Quel ragazzo assisano leggermente invecchiato era esattamente quel che serviva alla Chiesa del tempo: c’era bisogno di dimostrare agli eretici “catari”, che predicavano contro la Chiesa potente e mondana, che si poteva vivere in perfetta povertà e al tempo stesso non venir meno all’obbedienza dovuta alla gerarchia. Francesco stava offrendo al papa il modo di dimostrare la possibilità di quest’ardua quadratura del cerchio.

Innocenzo III era uomo d’intelligenza e di energia straordinaria. Capì che bisognava accordar fiducia a quel convertito e ai suoi seguaci. Certo, non volle impegnarsi legittimandoli con un documento ufficiale, una bulla redatta nelle dovute forme cancelleresche. Quella, la fraternitas del poveri penitenti di Assisi avrebbe dovuto aspettar ancora quattordici anni prima di ottenerla: e sulla base di una regola accuratamente scritta e riveduta.

Ma quel lontano episodio resta ancora una data nodale e fondamentale nella storia della Chiesa cattolica e di tutta la cultura occidentale: Giotto e Dante sono lì a ricordarcelo per sempre. Eppure, al di là dei rischi di formalizzazione retorica, d’ingessamento e d’incensamento d’una grande figura della storia e di un momento altissimo di spiritualità, qualcosa continua a turbarci: i conti non tornano. Francesco piace sempre a troppi, a tutti. Eppure, rimase per tutta la vita rigorosamente fedele a un progetto di vita non solo estremamente duro, ma anche fondamentalmente “antimoderno” e “antioccidentale”.

Il “nostro Occidente” si è sviluppato sull’affermarsi vorticoso della civilta del danaro e del sistema creditizio, sul rapporto fra ricchezza e potere, sulla scienza, sulla Volontà di Potenza. Francesco ha insegnato esattamente il contrario di tutto questo: il rifiuto non solo della ricchezza, ma anzitutto e soprattutto di qualunque forma di avere e di potere. Anche della conoscenza, della scienza, che sono forme di potenza. La povertà e l’umiltà francescane non hanno nulla di remissivo, di strisciante, d’ipocrita. Sono dure e dritte come una spada. Quel che distingueva Francesco dagli eretici del suo tempo è compendiato in due punti: primo, la rigorosa obbedienza alla gerarchia della Chiesa (per i francescani, l’obbedienza è ancora e sarà sempre una virtù); secondo, l’assenza di ogni pretesa di generalizzazione. Francesco sapeva bene che la sua formula d’imitazione del Cristo era la via maestra per salvare il cristianesimo sulla terra: ma era non nmeno limpidamente cosciente che quella era esclusivamente la sua strada, ch’egli non ha mai preteso d’imporre alla società cristiane del suo tempo globalmente intesa. Ed essa infatti, a partire dal suo stesso Ordine (e almeno in parte quasi subito, all’indomani del suo transito da questa vita nel 1226), si è in un modo o nell’altro ben guardata dall’intraprenderla a sua volta. Ma il risultato di questo rifiuto e stato la decristianizzazione progressiva della societa occidentale, che ormai da almeno oltre due secoli non e piu una Cristianita. Chi se ne dispiace o se ne scandalizza, sappia che questo è stato il prezzo da pagare per la Modernità. Se e in quale misura ciò sia stato un bene o un male, non sta a me dirlo. Ma constatarlo bisogna.