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Che fine ha fatto la mucca pazza?

di Anastasia Scotto - 15/04/2009

Nel 2001 l’epidemia scoppiata in Inghilterra ha fatto tremare tutta l’Europa, oggi nessuno parla più della Bse e dei tanto temuti prioni infetti. Ma possiamo davvero stare tranquilli?


 

mucca
Nessuno parla più del morbo della mucca pazza. Ma davvero non siamo più in pericolo?
Bistecche abbandonate sugli scaffali dei supermercati, fiorentina vietata fino a data da destinarsi, ministri inglesi che, in diretta tv, mangiano tranquilli il loro hamburger.

 

Chi non ricorda il panico da “morbo della mucca pazza”?

Sono passati solo pochi anni dall’epidemia che ha colpito l’Inghilterra nel 2001 e che ha portato sotto la luce dei riflettori una malattia neurodegenerativa in grado di trasmettersi da mucca a uomo portando rapidamente alla morte.

L’agente scatenante è il prione, una proteina cellulare che, per ragioni ancora sconosciute, all’improvviso modifica la sua struttura ed è in grado di indurre un cambiamento di forma in tutte le altre sue simili con le quali viene in contatto.

La proteina malata riesce così a “infettare” anche gli altri prioni sani. La rapida espansione del prione infetto porta alla degenerazione del tessuto cerebrale, forse a causa della scomparsa della proteina sana che ha funzione neuroprotettiva.

Solo otto anni fa gli specialisti preannunciavano un’epidemia globale, oggi nessuno parla più della mucca pazza, ma nei laboratori si continua a fare ricerca, perché il rischio di contrarre la malattia non è zero e i prioni sono un rompicapo che la biologia moderna vorrebbe risolvere.

“La malattia di Creutzfeldt-Jakob è la variante umana dell’encefalopatia spongiforme bovina o Bse”, ci spiega Stefano Benvegnù, dottorando alla Scuola Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste che studia i prioni. “È una patologia rara che colpisce una persona su un milione, ma non è comparsa nel 2001, quello è stato un flash mediatico, la malattia c'è sempre stata e c'è ancora. La patologia nel 9% dei casi è causata da una mutazione genetica, nel 90% ha insorgenza sporadica, e non si conoscono ancora le cause, e nell’1% è di origine infettiva. Non è ancora chiaro come sia passata dalla mucca all’uomo.

 

ovini
I primi casi di malattia da prione furono identificati nel 1700 negli ovini
I primi casi di malattia da prione furono identificati nel 1700 negli ovini, ma non esistono prove di trasmissione diretta da pecora o capra all’uomo. La causa più probabile del passaggio tra specie diverse è stata l’utilizzo di mangimi destinati ai bovini contenenti farine derivate da carcasse di pecore o capre infette. Tramite mucca il prione infetto è riuscito ad arrivare a colpire l’uomo.

 

Dopo l’allarme lanciato nel 2001, i controlli sono stati molto intensificati, esistono test specifici, le macellerie non possono più vendere alcune parti della mucca e, se in un allevamento viene ritrovato un animale malato, il terreno viene chiuso al pascolo perché il prione è una proteina non degradabile che può accumularsi nel suolo e colpire altri animali”.

Ma non sono solo gli standard di controllo ad essere cambiati, anche i fondi per la ricerca non sono più quelli di un tempo e risultano di fatto molto ridotti. “Il problema è che non c’è mercato – ci spiega Benvegnù – dal punto di vista biologico è interessante capire come una proteina possa diventare un agente infettivo, ma è una malattia letale con un periodo di incubazione dai 2 ai 40 anni e non esiste una cura. L’unica cosa su cui si cerca di intervenire, e che noi studiamo, è come sviluppare delle terapie farmacologiche che agiscano a livello cellulare bloccando il contatto tra prione malato e proteina sana allungando così il più possibile la vita del malato”.

Una malattia senza cura: per scongiurare il pericolo l’unica via è intensificare i controlli, e non solo sugli animali.

 

prione
Il prione non è espresso solo nel cervello ma è presente ovunque nell’organismo
Come ci racconta Benvegnù, il prione non è espresso solo nel cervello ma è presente ovunque nell’organismo e ci sono stati casi di trasmissione da uomo a uomo avvenuti attraverso le trasfusioni o le donazioni di sangue.

 

E per i trapianti? “I controlli vengono fatti sulla base della storia familiare dei donatori”, spiega Pier Maria Fornasari, direttore della Banca dell’Osso dell’Istituto Rizzoli di Bologna, la più grande in Europa. “Vengono esclusi dalla donazione tutti i soggetti i cui parenti siano morti per Creutzfeldt-Jakob, quelli che mostrano sintomi di malattie neurodegenerative o che abbiano soggiornato in Inghilterra durante il periodo dell’epidemia. Sui tessuti da trapiantare, invece, non viene fatto alcun controllo per rilevare la presenza di possibili prioni infetti. In effetti esiste il rischio che, visto il lungo periodo di incubazione, ci si trovi di fronte a un donatore malato che non ha ancora manifestato i sintomi della Creutzfeldt-Jakob. Fino a oggi, però, non è stato dimostrato alcun caso di infezione tramite trapianto”.