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La matrice della crisi è geopolitica

di Giovanni Petrosillo - 16/04/2009

 

L'usciita dalla crisi economica sarebbe ormai a portata di mano. Lo dice espressamente il Presidente Obama il quale già vede dei barbagli di luce tra le fosche nubi della debacle sistemica globale che, in questi mesi, ha oscurato il sole dei mercati mondiali e di quello statunitense in particolare.

Ma chi crederebbe alle parole di un ex senatore dell’Illinois da sempre sostenuto e sponsorizzato proprio da quelle merchant bank (GP Morgan, Goldman Sachs ecc. ecc.) responsabili di aver attivato i meccanismi di una certa “finanza champagne” ed oggi nell’occhio del ciclone per l’eccessiva speculazione?

Qualcuno, evidentemente, è ancora disposto a farlo, considerato che le sue affermazioni riecheggiano per il mondo spandendo speranza e ottimismo sul prossimo futuro. Il palco del G20 è stato appunto il luogo privilegiato per amplificare questa orgia di fiducia generale (che sa tanto di presa per il culo, soprattutto per chi la crisi comincia a sentirla sulla propria pelle e di belle parole non sa più che farsene) e per ridare slancio ad una nuova stagione di partnership collaborativa tra le varie formazioni sociali dell’area occidentale, fintamente disposte ad aprirsi anche alle potenze emergenti.

Insomma, il 2010, secondo i "calcoli" dei decisori mondiali, dovrebbe essere l’anno buono per un periodo di espansione ed i segnali di tale possibile ripresa si starebbero moltiplicando giorno dopo giorno. Facile da dirsi difficile da credersi considerato che questa crisi non ha natura economica, come vorrebbero farci credere, ma politica.

Si tratta quindi di un pretesto per prendere tempo. Il trucco c’è e si sente, nel senso che la crisi finanziaria dopo essersi rovesciata sull’economia reale comincia a mordere i salari, l’occupazione e il tenore di vita della gente. Dunque, per ora, a nulla sono serviti i piani predisposti dai governi nazionali per temperare la stessa. Eppure, negli States si sostiene che il peggio è sicuramente alle spalle poiché le banche hanno quasi ripristinato i loro bilanci e potranno, nel breve periodo, con rinnovato senso di responsabilità e più bassa propensione all’azzardo borsistico, tornare a finanziare le imprese che producono ricchezza reale. In realtà, il governo americano, dopo aver fatto la voce grossa con alcuni attori finanziari, ha nuovamente allentato le sue briglie consentendo a molte banche di continuare a servirsi degli strumenti della cosiddetta finanza creativa. Gli Istituti sono stati infatti autorizzati a dare, in maniera del tutto arbitraria, un valore ai loro titoli spazzatura semplicemente sofisticandoli, cioè contabilizzando nel proprio bilancio non il valore reale di mercato del debito tossico posseduto ma quello atteso in un periodo più lungo. Ci risiamo, il lupo perde il pelo ma non il vizio…

Sia chiaro che, come abbiamo più volte ripetuto, la crisi finanziaria è il riflesso di un mondo che sta cambiando nei suoi principali assetti di potere, per cui siamo convinti che dalla stessa non si verrà fuori finché non si sarà ridato un altro “ordine” al mondo. Gli Stati Uniti sono ancora una grande superpotenza e probabilmente lo resteranno per molto tempo ma non costituiscono più il polo centrale intorno al quale ruota tutto il resto. La novità sta nel fatto che, con l’affacciarsi sullo scacchiere internazionale di altre potenze, emergenti e riemergenti, i precedenti equilibri geopolitici si stanno sbilanciando in un senso ad essi tutt’altro che favorevole. Gli americani sono così corsi ai ripari concentrando i loro sforzi militari in quelle zone ritenute di massima importanza strategica. L’occupazione e il controllo della cosiddetta Heartland è fondamentale per ricostituire, su basi rinnovate, il proprio predominio sebbene dovendolo gestire, da adesso in poi, con l’aiuto di altre formazioni tradizionalmente affini (ma da mantenere in posizione subordinata in barba agli innumerevoli proclami paritari e collaborativi). Oggi l’Heartland si identifica, almeno secondo la strategia statunitense, con la zona tra Afghanistan e Pakistan, area sulla quale sta per essere convogliata tutta la spinta militare di cui lo Zio Sam è capace. Non è un caso che Obama, influenzato da Brezinsky, abbia chiesto un maggiore coinvolgimento degli alleati proprio in quella parte del mondo, senza però mettere in discussione l’assoluto comando americano di tutte le operazioni. In questo senso vi è una continuità lapalissiana tra la politica dell’ex presidente G.W. Bush e l’attuale amministrazione democratica, sebbene i media stiano spacciando il soft power con il quale il presidente americano ha deciso di affrontare i problemi geopolitici sugli altri scenari caldi del pianeta come un cambiamento di rotta. Non è questa ad essere mutata ma la prospettiva nella quale gli Usa guardano al loro futuro.