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Educazione siberiana

di Claudio Ughetto - 22/04/2009


Nicolai Lilin è nato nel 1980 a Bender, in Transnistria, una regione dell’ex URSS proclamatasi indipendente ma tuttora non riconosciuta dalla Comunità Internazionale. Da qualche anno vive in provincia di Cuneo. Del suo esordio letterario, scritto direttamente in Italiano, si è parlato abbondantemente nelle ultime settimane. Merito anche dell’ampia presentazione che Roberto Saviano ha scritto per La Repubblica il giorno dell’uscita nelle librerie e che ha trasformato un libro d’indubbio valore in un bestseller. Le prime 28000 mila copie sono state esaurite in due giorni e l’Einaudi è subito partita con la seconda edizione. Al momento il libro figura al settimo posto tra i dieci titoli più venduti in Italia.[1]
Viene spontaneo chiedersi se Educazione siberiana, caratterizzato dalle asperità linguistiche che impreziosiscono le opere di quegli autori che scelgono la lingua d’adozione per esprimersi, costretti quindi a sorvegliare la prosa riuscendoci solo in parte, per cui le parole sembrano esplodere sulla pagina in modo inedito, avrebbe venduto altrettanto, dando al suo autore la stessa notorietà, se Saviano non ci avesse messo del suo. Probabilmente sì, perché il libro ha un suo indiscutibile valore letterario. Pur non avendo un successo così immediato, si sarebbe imposto gradualmente. È evidente che Einaudi ha deciso di investire fin dal principio su quest’esordio, altrimenti l’autore di Gomorra non avrebbe potuto leggere il libro in anticipo, appassionandosene. Eppure la sua presentazione, sebbene generosa (onesta, direbbe Nicolai) ha rischiato d’essere fuorviante, come ha già rilevato la scrittrice Michela Murgia sul suo blog[2], in una recensione in cui paventa quella che a suo avviso sarebbe la “sventura peggiore” per Nicolai Lilin: “passare per il Saviano siberiano, perché lui le cose non le denuncia, le racconta”. Nicolai, trasmettendoci la “sua” verità, è ben lungi dal vedere solo gli aspetti negativi della “comunità criminale” in cui è cresciuto. Egli è tuttora molto legato alla cultura che il suo popolo, gli Urka, ha tentato di preservare nonostante le deportazioni e le vessazioni perpetrate dal governo centrale sovietico. Per gli Urka, religiosissimi, non era certo un peccato uccidere un poliziotto, ma nelle pagine del libro è subito evidente come i metodi della polizia e dei militari sovietici verso i civili, le donne, i disabili e i malati psichici (dei quali Nicolai ci parla con toccante empatia), erano ben più aberranti. Scrive Nicolai Lilin: “… nella nostra comunità il diritto alla parola ce l’avevano tutti, anche le donne, i minorenni, i disabili e i vecchi”; e aggiunge altrove: “… bisognava rispettare tutti gli esseri viventi, categoria in cui non rientravano i poliziotti, la gente legata al governo, i bancari, gli usurai e tutti coloro che avevano tra le mani il potere del denaro e sfruttavano le persone semplici”. Da una parte c’era un governo totalitario, centralista e giacobino che deportava intere popolazioni servendosi della forza e uccidendo con assoluta indifferenza; dall’altra una comunità di “criminali onesti”, secondo l’ormai celebre definizione di Lilin, piena di rapinatori e anche di assassini, eppure tenuta insieme da valori e regole che hanno formato la personalità del narratore nel rispetto dell’unica giustizia possibile in quei luoghi. Gli Urka detestavano il denaro e rifuggivano sia l’uniformazione comunista che i feticci statunitensi. “Ma come mai vanno tutti in America dicendo che cercano la libertà?” si chiedeva lo zio Kuzja, parlando col piccolo Nicolai. “I nostri antenati si sono rifugiati nel bosco, in Siberia, mica sono andati in America. E poi perché fuggire dal regime sovietico per finire in quello americano? Sarebbe come se un uccello scappato dalla gabbia andasse volontariamente a vivere in un’altra gabbia”. Sembra di sentire il Ribelle jungeriano.
Gli Urka non assomigliavano ai camorristi descritti da Saviano, arricchitisi grazie alla cultura della droga e con la testa imbottita dall’ideologia del consumo. Eppure degli Urka bisogna parlare al passato, perché non esistono più. Nicolai Lilin ce li descrive com’erano, prima che la loro lotta per la libertà fosse definitivamente annientata non dal regime comunista, ma dai soldati della Russia democratica e dal capitalismo selvaggio subentrante al capitalismo di stato. Difficile resistere alla cultura del consumo, e i giovani criminali ne saranno plagiati: le vecchie regole, adatte alla sopravvivenza della comunità, perderanno d’importanza, per lasciare il posto al sopruso e al nichilismo. “Non riuscivo a capire i meccanismi che mandavano avanti il mondo normale, dove le persone alla fine rimanevano divise, senza avere niente in comune, senza provare il piacere di condividere le cose”, scrive Nicolai verso la fine del libro. Ecco la sua descrizione dei russi degli anni ’90: “Macchine belle, preferibilmente straniere, vestiti uguali per essere come tutti gli altri, sabato sera al bar del paese per farsi belli, bere una birra in lattina prodotta in Turchia, raccontare agli altri che tutto è a posto, che gli affari vanno bene, anche se sei solo un umile lavoratore sfruttato e non sei capace di vedere la verità della tua vita”. Da queste considerazioni si capisce benissimo che se Nicolai denuncia qualcosa, quel qualcosa non è certo la cultura “criminale” nella quale è cresciuto.
Proprio perché ci parla del passato attraverso gli occhi di un ex ragazzo che ha vissuto cose terribili e straordinarie, ma che neppure manca di buone letture[3], Educazione siberiana non andrebbe letto esclusivamente per soddisfare la nostra morbosità. A mio avviso, le pagine migliori non sono quelle delle risse e degli accoltellamenti, o delle sparatorie con morti ammazzati di cui è protagonista Nicolai stesso. Che senso ha chiedergli se ha ucciso e come, dopo che lui si è raccontato nel libro e continuerà a raccontarsi nel probabile seguito, quello della guerra in Cecenia? Educazione siberiana non è un film di Tarantino, e nemmeno un romanzo di Corman Mc Carthy. Non deve importarci se le cose siano andate come Nicolai le racconta: con le stesse modalità, in modo così “romanzesco”. Certe scene d’azione, come quelle della seconda parte del lungo episodio Il giorno del mio compleanno, potrebbe raccontarle un regista americano in un film come The Warriors. Invece siamo di fronte all’opera di uno scrittore persino colto, ben consapevole dei suoi strumenti, che ha fatto tesoro della narrazione orale degli anziani, dello zio Kuzja e di altri, per trasformare in letteratura ciò che ha visto e sentito. Letteratura nel senso più alto del termine: è grazie a queste pagine se veniamo a conoscenza di un mondo e di una cultura, se i nomi delle persone che l’hanno costituita ci afferrano per trascinarci piacevolmente fin dentro la pagina. Zio Kuzja e l’anziana sorella, l’imbestialito ma simpatico Mel, zia Katja e il suo rifugio di vecchi criminali, il sanatorio con i pazienti affamati di sigarette e il negozio di Bosja vivono grazie a questo libro e alla straordinaria empatia del narratore. E sono le pagine migliori, quelle che partono come una digressione e vorremmo che non finissero mai. È straordinaria l’empatia con cui Nicolai Lilin riesce a descriverci i suoi amici disabili, malati psichici, che tra gli Urka sono considerati “Voluti da Dio”. Con altrettanta empatia riesce a descriverci il loro spaesamento di fronte alla morte e al dolore, togliendoci il fiato. Come succede a Boris, freddato una notte dai militari: “Teneva il suo cappello da macchinista ancora stretto tra le mani. (…) per morire si era messo come i neonati, le ginocchia al petto stringendosi tutto. (…) Gli occhi erano spalancati e gelidi, conservavano una paura disperata che si trasformava in una specie di domanda: - Perché mi sento così male?”. Qui, davvero, la letteratura arriva dove la psicologia e la psichiatria si fermano.
Mi piace pensare a Educazione siberiana come a un’elegia anomala, poiché è delle elegie raccontare vicende morali e sentimentali senza per questo scadere nel moralismo o nel sentimentalismo. Il soldato Nicolai, nel pieno della guerra cecena, ha bisogno di recuperare ciò che ha perduto e farne tesoro, trattenendo in sé le persone che gli hanno insegnato ad amare la libertà. Meglio delinquente che borghese, diceva Ernst Jünger con una frase ormai desueta, o forse diventata impresentabile perché politicamente scorretta. Meglio “criminale” che corrotto, ci dice invece Nicolai Lilin. A patto d’intendersi sulle parole.

NOTE

[1] LA STAMPA, Tuttolibri n. 1661, 18 aprile 2009.
[2] michelamurgia.altervista.org/content/view/333/2/
[3] Sarà un caso che tra i nomi degli scrittori letti in gioventù, Nicolai Lilin mette anche quello di Dickens, maestro nel mostrare delle realtà terribili e vitali attraverso occhi di bambini destinati a crescere troppo in fretta?