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Ogni persona che abbiamo amato è una pianta che stormisce al vento nel giardino della nostra anima

di Francesco Lamendola - 23/04/2009


Che ne è dell'amore che noi proviamo per un altro essere umano, quando passano i mesi e gli anni, quella persona è ormai lontana, forse in un luogo che nessuno può dire di conoscere, perché si trova oltre le porte della vita?
E che ne è dell'amore che quella persona ha provato per noi?
I sentimenti si dissolvono nel tempo, così come un gas si dissolve nell'aria, o l'acqua di un fiume si confonde con quella del mare e vi si perde per sempre?
Oppure continuano ad esistere, eternamente, sia nella vita terrena che dopo di essa?
E - per limitarci, in questa sede, alla vita presente - dove vanno a finire, quando una grande distanza di tempo, di spazio e, forse, di nuovi sentimenti, magari anche di segno opposto, scorrono e si sovrappongono a quel sentimento originario?

Prima di affrontare tale questione, ci piace riportare una pagina del bellissimo romanzo di Shôhei Ôoka «Nobi»,  titolo assai infelicemente modificato in italiano con l'anonimo «La guerra del soldato Tamura» (solo perché il protagonista è un soldato di nome Tamura - trasparente proiezione dell'Autore -, che visse una esperienza analoga, disperso sui monti delle Filippine, verso la fine della seconda guerra mondiale).
Si tratta di un momento particolarmente drammatico nella vita del giovane: perché, esausto per la denutrizione e abbandonato dai commilitoni, in quanto malato di tubercolosi, una notte, sotto la luce argentea della luna e nella gran pace della foresta, egli pensa di uccidersi, ponendo così fine ai propri tormenti fisici e morali.
In quel momento di prostrazione e di angoscia, subentra - però - nel suo animo, un senso quasi inspiegabile di attaccamento alla vita (che ricorda, fra parentesi, il clima psicologico e spirituale della poesia «Veglia» di Giuseppe Ungaretti); e gli tornano alla mente le donne da lui amate, o che lo hanno amato, parendogli quasi di vederle nelle sagome frondose degli alti alberi di cocco ondeggianti nella brezza notturna.
Da «Nobi», di Shôhei Ôoka (traduzione italiana di Giuseppe Morichini, Torino, Einaudi, 1957; Milano, Mondadori, 1964, pp. 62-65):

«La luna.
Passarono ancora alcune notti. La luna, che quando mi ero allontanato dalla mia compagnia, era una falce sottile, era a poco a  poco aumentata in grandezza e in luminosità. Si affacciava, come volesse spiare, sopra la cresta di un'altura, attraversava rapidamente lo stretto spazio di cielo sovrastante la valle e si nascondeva ben presto dietro la cresta della parte opposta. Solo il suo chiarore rimaneva a lungo sull'altro versante. Quella sua marcia regolare attraverso il firmamento mi sembrava una beffa.
Da un lato il pendio s'interrompeva e s'apriva una valle trasversale; le acque che ne defluivano venivano a ingrossare quelle del torrente, il cui letto si faceva più largo. Sul triangolo in pendio formato dalla confluenza crescevano folti alberi di cocco e sulla loro sommità, alla base delle foglie, s'allineavano le rotonde noci, grosse come la testa di un bambino. Ma i tronchi erano alti e non ero in grado di arrampicarmi su di essi, così stremato di forze com'ero.
Le larghe foglie a ventaglio stormivano al vento. Mi distesi sull'erba al piede degli alberi e chiusi gli occhi, non ascoltando altro che quel rumore. Sentivo i morsi della fame e, afferrando le prime erbe a portata di mano, ne masticai le radici, che m'empirono la bocca di un sapore amaro.
Sopraggiunta la notte, la luna faceva scintillare come tante punte di spade le estremità delle foglie, fra le quali appariva il limpido turchino scuro del cielo su cui stava sospesa alta e gelida la luna, ormai quasi piena.
Pensai che quello era il momento di porre fine alla mia vita. Sul mio capo pendevano frutta dal fragrante succo e dalla polpa succulenta e io me ne stavo sdraiato là sotto, inerte, a morire di fame. Se non mi fossi allontanato da quel posto, ben presto avrei dovuto esalare il mio ultimo respiro laidamente avvinghiato al tronco di uno di quegli alberi. Non era meglio fare ciò che potevo fare finché mi rimaneva ancora la forza di scegliere fra le mie azioni?
Il cielo invaso dallo splendente chiarore lunare infuse nei miei occhi un nuovo desiderio. Conoscevo quella sensazione. Quel desiderio può facilmente chiamarsi "attaccamento alla vita", e nella sensazione sorta entro di me mi parve di riconoscere qualcosa che già avevo conosciuto nella mia serena esistenza passata. Più di una volta m'era avvenuto di contemplare un simile cielo, sotto differenti latitudini, con sentimenti analoghi.
Volli frugare nel mio passato, accertarmi di avere realmente sperimentato dei momenti simili; ma la memoria non mi assisteva affatto.  In quel momento mi avvidi che gli alberi di cocco che mi attorniavano avevano mutato aspetto.
Assomigliavano ad alcune donne che, in varie epoche del mio passato, avevo diversamente amato. Il giovane albero di cocco dalle foglie rialzate, che sembrava una danzatrice, era una ragazza che s'era allontanata da me senza corrispondere al mio affetto; l'altro da cui le foglie pesanti pendevano come una capigliatura e sotto cui si addensavano ombre profonde, era una donna di età avanzata che era stata resa infelice dall'amore per me; quell'altro ancora  che superbamente stendeva in lungo e in largo il suo fogliame, era una orgogliosa donna dalla quale, benché ci amassimo, avevo dovuto distaccarmi, perché non aveva acconsentito a confessare neanche a se stessa il suo amore per me. Mi sembrò che queste donne fossero apparse là per accertarsi coi loro stessi occhi del mio ultimo istante.
Mi tornarono alla mente gli attimi di godimento che avevo condiviso con loro. Erano state diversissime l'una dall'altra; ma il meccanismo fisico del mio corpo prossimo alla morte non riusciva a farmi tornare alla mente il giusto del piacere provato e non ricordavo altro che il desiderio che lo aveva preceduto.
Mi avvenne di pensare che la mia sete ardente per quel cielo su cui si diffondeva il chiarore lunare assomigliava a ciò che avevo provato quando una certa donna s'era distaccata dame prima che fossi stato io ad allontanarmi da lei. Avevo arso di una intensa passione per la semplice ragione che non avevo potuto raggiungere l'animo e il corpo di una donna che era andata in un luogo per me irraggiungibile.
A ben considerare, se adesso mi struggo di desiderio per questo cielo, probabilmente è perché so che mi è difficile raggiungerlo. Credo di essere attaccato alla vita PERCHÉ STO VIVENDO; ma in realtà non potrebbe darsi che io languisca di quel desiderio PERCHÉ sono già morto?
Questa paradossale conclusione mi confortò; sorrisi lievemente e, con la ferma convinzione che, non appartenendo più a questo mondo, non c'era ragione che mi uccidessi, m'addormentai.»

Tralasciando altri aspetti, sia pure notevoli, di questa intensa e quasi struggente pagina di prosa, tutta pervasa dal mistero possente della vita e della morte, vogliamo riprendere l'immagine delle donne amate dal protagonista, le quali gli appaiono trasfigurate nelle sagome degli alberi che piegano dolcemente le fronde al vento della notte tropicale.
Non è, crediamo, una immagine unicamente poetica, nel senso di un puro e semplice artificio letterario, avente lo scopo di adornare la narrazione; a noi sembra che essa contenga un significato molto più vasto e molto più profondo.
Se il corso della nostra vita è paragonabile a un giardino (o a un bosco, una foresta, quel che si vuole; per qualcuno, magari, una steppa o un deserto…), allora le erbe e i cespugli sono l'immagine della folla anonima, o semi-anonima., che ci sfioraoccasionalmente; mentre le piante più grandi e gli alberi più belli raffigurano coloro con i quali abbiamo avuto una relazione profonda o che, comunque, molto abbiamo amato e molto ci hanno amati.
È chiaro che, alla fine, la bellezza, il profumo e la freschezza di tutto il giardino dipendono, in primo luogo, da quella delle piante e degli alberi più eleganti e maestosi, i quali imprimono - per così dire - il carattere fondamentale dell'insieme; così come, in un paesaggio, sono le pianure, i fiumi, le colline e le montagne a caratterizzarlo maggiormente, e non i singoli sassi o i singoli ciuffi d'erba, i quali, pur essendo innumerevoli, sfuggono a una visione generale.
Dunque, se il nostro giardino è un giardino fragrante, armonioso, sprigionante vitalità e gioia di vivere, ciò dipende essenzialmente dalle piante più vistose che lo adornano, ossia dalla qualità degli incontri affettivi che hanno caratterizzato la nostra vita di relazione.
Certo, ogni atto della nostra vita è, in ultima analisi, un atto di relazione. Anche Robinson Crusoe, il quale - tutto solo nella sua isola sperduta sul mare - prende in mano la Bibbia e vi cerca conforto e consolazione, si mette in relazione con Dio; e potremmo proseguire facendo moltissimi altri esempi, per porre in evidenza questo concetto: che noi non siamo mai veramente soli, e meno ancora lo siamo quando siamo soli fisicamente: perché sono proprio quelli i momenti nei quali, finalmente, dedichiamo un po' di tempo a parlare con noi stessi, oppure con Dio.
Ciò premesso - premesso, quindi, che la condizione fondamentale perché il giardino sia bello e rigoglioso, è che il giardiniere, cioè il nostro io, abbia una discreta confidenza con se stesso e concepisca il proprio lavoro come un continuo sforzo per migliorarsi e per trascendersi -, resta il fatto che il tono generale del giardino sarà dato dalla qualità degli alberi che vi crescono e lo avvolgono nella propria ombra.
Ora, sappiamo tutti benissimo che non sempre il giardiniere è libero di scegliere le essenze che vuole e di coltivare le piante a suo completo talento. Alcune non potrebbero crescere e prosperare in quel tipo di terreno; altre non si adatterebbero al clima, se non attraverso complessi e pazienti accorgimenti, come la costruzione di una serra; altre ancora, non sono reperibili, e tanto meno si possono seminare, perché appartengono a specie esotiche molto rare e molto costose, e al giardiniere mancano i mezzi per procurarsele.
D'altra parte, una volta che egli abbia fatto le sue scelte e seminato o piantato determinate qualità, non potrà poi lamentarsi o pentirsi, perché sarebbe inutile; e dovrà solo alla propria costanza e alla propria perizia se le essenze da lui scelte cresceranno bene e gli daranno ricche soddisfazioni, o se cominceranno a deperire, ad ammalarsi, a morire.
Inoltre, può accadere che il vento porti nel guardino dei semi inattesi, e che delle piante non cercate  né voluti prendano a crescere all'interno di esso, mescolandosi alle altre; talune con rapidità sbalorditiva, fino a sommergere la vegetazione originaria. A quel punto, starà al giardiniere valutare se queste intruse meritino di essere estirpate completamente o se, invece, in virtù di certe loro caratteristiche estetiche o funzionali, non valga la pena di lasciarle crescere e, magari, perfino di sostenerle e accudirle, al pari delle altre.
Così, non tutti gli incontri importanti della nostra vita dipendono da noi; non tutti gli incontri: siano essi con delle persone, con dei libri, con delle opere d'arte, con delle composizioni musicali, con delle idee, con degli animali. Può accadere che siano loro a cercare noi,  attraverso delle vie misteriose, che gli scettici attribuiscono puramente al caso; mentre vi è motivo di pensare che il caso non esista affatto, ma che sia soltanto il nome che la nostra ignoranza attribuisce a ciò che non siamo in grado di capire.
Sia come sia, talvolta è l'altro che bussa alla nostra porta.
È un altro essere umano che s'innamora di noi, a nostra insaputa e senza che noi lo abbiamo cercato: ed ora ci offre il suo amore, come un dono prezioso ma imbarazzante, perché ci coglie alla sprovvista; e, forse, in quel dato momento, giunge inopportuno, mentre in un altro momento avremmo potuto accoglierlo con gioia.
Oppure è un libro che qualcuno ci ha dato in prestito, e ci spalanca davanti, con forza sconvolgente, una nuova prospettiva sulla realtà, gravida di profonde implicazioni.
Oppure è una musica d’organo che ci rapisce con le sue note nella chiesa in cui siamo entrati un momento e che ci trattiene, estasiati, imprimendo nella nostra anima un’impressione indelebile, che rimarrà per sempre.
Oppure, ancora, è una cagnetta bastardina che ci segue per la strada e non se ne vuole andare via; e che, se decidiamo di accoglierla nella nostra casa, si rivelerà, magari, un’amica affettuosissima,  commuovendoci con la sua fedeltà e con la sua assoluta, totale dedizione.
Certo, noi possiamo anche dire «no» a queste offerte di coinvolgimento; possiamo farlo per tutta una serie di motivi, che vanno dalla diffidenza alla paura, dall'indifferenza all'amore smodato di noi stessi; o, qualche volta, a un certo grado di pur doverosa prudenza verso persone o situazioni che non ci convincono del tutto, o che contrastano con altri impegni, con altri legami, con altre scelte di vita, contratti in precedenza.
Ad ogni modo, sia che diciamo di «sì», sia che diciamo di «no» a tali incontri e a tali occasioni, oppure che siano essi a dire di «sì» o di «no» nei nostri confronti, a ciascuna di tali affermazioni o di tali negazioni corrisponde una modificazione nel paesaggio del nostro giardino; e l'insieme di tali modificazioni, poco a poco, anno dopo anno, stravolge completamente la sua fisionomia originaria - in bene o in male, questo è da vedere.
Può essere che il bel giardino, invidiato da tutti, lentamente si trasformi in una boscaglia orrida e angosciosa, tale da rendere sbigottito il suo stesso giardiniere. Ma può anche verificarsi il caso opposto: che un terreno arido e spoglio, ingombro di sassi, un poco alla volta, sotto l'azione metodica e ispirata del bravo giardiniere, finisca per assumere l'aspetto ammirevole di un giardino ben curato, fresco ed ombroso, rallegrato dal suono argentino di fontane zampillanti e dal canto di innumerevoli uccelli ed insetti, che vi hanno trovato il luogo ideale per  vivere e prosperare.

Ma che ne è delle piante - da qui eravamo partiti - che abbiamo molto amato, ma che non hanno ricambiato il nostro amore; oppure delle quali siamo stati proprio noi a stancarci, ora per delle ragioni plausibili, ora per motivi talmente meschini, che proviamo vergogna al solo ricordarli: insomma, di quelle piante che abbiamo finito per lasciar perdere, disinteressandocene, o che non hanno risposto alle nostre cure e si sono inaridite, seccandosi tutte?
Sarebbe un errore pensare che, essendo uscite dall'ambito della nostra vita interiore, esse non contino più nulla, come se non fossero mai esistite; perché la legge fondamentale della vita interiore è che, da essa, nulla mai entra che poi possa uscire per sempre: tutto rimane, per sempre, anche se noi non lo crediamo, e ci comportiamo come se fosse vero il contrario.
Si prenda il caso dell’albero più bello del giardino, il quale, un brutto giorno, venga colpito dal fulmine e troncato di netto; oppure che un vento furioso afferri e sradichi, gettandolo al suolo. E si prenda, viceversa, il caso di un giardiniere il quale, scoprendo che il suo albero più amato è affetto da una grave malattia, dopo aver tentato ogni genere di rimedio, si veda costretto ad abbatterlo; o, anche, il caso di un giardiniere incostante e capriccioso, il quale, dopo aver tanto amato un certo albero, se ne stanchi improvvisamente, e decida di tagliarlo per far posto a un’altra pianta, che ora gli sembra infinitamente preferibile.
Ebbene: è proprio vero che l’albero abbattuto dal caso o tagliato per una precisa volontà del giardiniere, uscirà per sempre dalla sua vita?
Se il giardiniere lo ha molto amato, non continuerà forse a dolergli ancora a lungo, pur non essendo più, così come l’arto amputato continua a dolere a colui che ha dovuto lasciare il proprio braccio o la propria gamba nel corso di un’operazione chirurgica?
Ora, un grande amore è molto di più di un braccio o di una gamba, per colui che lo ha vissuto con intensità e con sincerità: è divenuto una parte fondamentale della sua vita, della sua anima; e da esse non potrà mai venir scacciato, anche se è stato interrotto da un contrasto, da una partenza - o dalla morte.
Se ad interromperlo è stato un contrasto, esso continuerà ad ardere sotto la cenere, magari - talvolta - trasformandosi in un implacabile rancore: il quale altro non sarà che il segno inequivocabile della inconfessabile e invisibile persistenza dell’amore (invisibile per il soggetto, beninteso: perché tutti gli altri vedono benissimo quale sia il reale significato di un odio così grande e tenace).
Se, poi, ad interrompere un grande amore è stato un evento esterno o, addirittura, è stata la morte, nemmeno in questo caso bisogna pensare che ciò vi abbia posto realmente la parola fine: gli amori veri non finiscono, mai. Noi viviamo con essi; e, poiché noi siamo l'insieme degli atti della nostra anima e della memoria che vi si deposita, ne consegue che noi siamo la nostra capacità di amare: e che da noi nessun legame affettivo profondo e sincero potrà mai cadere, per quanto possano mutare le circostanze esterne o il nostro stesso orientamento interiore.

E adesso, torniamo al povero soldato Tamura, morente di fame e di malattia su quelle montagne dimenticate, solo, abbandonato, privo di risorse e sospinto ad accarezzare l’idea del suicidio dagli stenti e dalla solitudine, quando già si trova sul limitare della follia (sopravviverà, infatti, alla  guerra, ma solo per essere ricoverato in manicomio, tormentato dai fantasmi di quei mesi allucinanti trascorsi fra le montagne delle Filippine).
Torniamo alla sua visione degli alberi di cocco che ondeggiano nel chiarore lunare, muovendo le fronde al venticello notturno. Esse recano i frutti saporiti che potrebbero sfamarlo e salvarlo dalla morte imminente, ma egli non ha più la forza per salire sui tronchi e raggiungerli.
Non è anche questa, forse, una immagine simbolica?
Gli incontri preziosi della nostra vita non se ne vanno mai del tutto, restano a far parte del nostro paesaggio interiore, anche se la nostra coscienza ne è a stento consapevole; però può accadere che noi non siano in grado di dissetarci e di ristorarci per mezzo di essi, perché li abbiamo dimenticati o perché, pur ricordandoli, li pensiamo unicamente come delle cose morte del passato, che non torneranno mai più e che nulla possono aggiungere alla nostra esistenza presente, alle nostre necessità, alla nostra indigenza.
Ma non è così.
Le esperienze profonde della nostra vita sono diventate carne e sangue del nostro spirito: sono diventate parte di noi stessi. Noi siamo quello che siamo, perché siamo passati attraverso di esse; sarebbe più facile, per noi, decidere di amputarci un braccio, o una gamba, che riuscire a strappare via dalla nostra anima gli incontri e gli affetti che ci hanno fatto diventare, nel bene e nel male, quello che noi ora siamo.
Ne consegue che il modo più giusto di rapportarci con i grandi incontri della nostra vita affettiva e spirituale è quello di non rinnegarli, di non ripudiarli, di non instaurare con essi un rapporto nevrotico; e, a maggior ragione, di non lasciarli cadere nell’indifferenza e di non ripagarli con l’ingratitudine.
Noi dobbiamo essere grati ad essi perché, nel bene e nel male, hanno fatto di noi degli uomini e delle donne più veri, più maturi, più consapevoli.
O, almeno, ce ne hanno fornito l’occasione: e, se non abbiamo saputo coglierla, la colpa non è stata loro, ma solo e unicamente nostra.