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L'uomo post-moderno è il figlio della dilatazione illimitata del desiderio

di Francesco Lamendola - 26/04/2009


 

Dopo l'uomo greco, nel quadro della civiltà occidentale, viene l'uomo cristiano: che non è la semplice negazione del precedente, ma la fusione con esso, il punto d'incontro delle loro rispettive visioni del mondo (come è testimoniato dalla fortuna di Aristotele e Platone nell'ambito della filosofia cristiana; oppure - il che è lo stesso, da questo punto di vista - dall'assorbimento del pensiero cristiano all'interno della filosofia greca).
La prima, profonda rottura si verifica con la comparsa di un terzo tipo umano: quella del borghese. Questi non ha curiosità filosofiche né tensioni religiose; o, se le ha, le inquadra all'interno di una nuova "Weltanschauung" basata sull'accumulo dei beni, sul calcolo, sulla quantificazione. La rottura si esprime specialmente nel fatto che l'uomo greco, dominato dal Fato, e l'uomo cristiano, avvolto nella Provvidenza, sono tuttavia entrambi in balia del bisogno: la malattia, la fame, la morte precoce li minacciano continuamente; mentre l'uomo borghese ha sconfitto il bisogno mediante una serie di tecnologie appropriate, che gli conferiscono un potere enormemente accresciuto sulla natura ("sapere è potere", come teorizzava Francesco Bacone).
Poi, anche il terzo uomo ha dovuto cedere il passo a un nuovo tipo umano: l'uomo post-moderno. Il borghese credeva fermamente nel progresso; il quarto uomo non crede più in nulla, è apparentemente aperto a ogni credenza ed esperienza, ma, in realtà, è agnostico o scettico. Ha oltrepassato a tal punto la fase della liberazione dai bisogni, che è entrato in una nuova era: quella della continua invenzione dei desideri. Avendone soddisfatti la gran parte, si ingegna di crearsene sempre di nuovi e di più raffinati, per trastullarvisi fin da bambino (come i videogiochi o i telefonini cellulari multifunzionali).
Nell'uomo post-moderno si sono spente sia la genuina curiosità intellettuale, sia la tensione metafisica, sia la stessa fiducia nel progresso scientifico illimitato (benché egli apprezzi oltremodo ogni nuovo ritrovato tecnologico). La verità è che non crede più in niente e in nessuno e, se pure è tentato di cercare dei punti di riferimento spirituali, se non altro per sentirsi un po' protetto contro l'incognita della morte (che non è stata eliminata, cosa che lo ha sorpreso e deluso alquanto), preferisce affidarsi a credenze generiche e pensieri "deboli".Oppure, al contrario e con caratteristica mancanza di senso della misura - egli si abbandona fideisticamente alle sette e alle credenze più integraliste e bizzarre.
Ha orrore della Verità, non vuol sentir parlare dell'anima, e gli secca riconoscere una dipendenza originaria dall'Essere; preferisce concepirsi come puro frutto del caso. Diffida a tal punto delle certezze del passato, ricordando che hanno prodotto degli eccessi, da essere diventato allergico all'idea stessa di certezza, che gli appare quasi blasfema (per quanto ciò sia un atteggiamento religioso, ma della religiosità secolarizzata post-moderna, sincretista, confusa, che ben si esprime nel fenomeno della New Age).
Così, egli ha deciso di buttare via il bambino insieme con l'acqua sporca: duemilacinquecento  anni di metafisica gli appaiono come un lungo, pensoso errore, come un vaneggiamento infantile. In quanto alla fede religiosa in senso forte, la considera semplicemente un residuo del passato, come lo sono le favole che si raccontano ai bambini; anzi, che si raccontavano: perché l'uomo post-moderno non racconta più le favole ai suoi bambini. Preferisce parcheggiarli davanti al computer o ai videogiochi:  un generedi attività che - del resto - egli stesso trova piacevolissima.
A quest'uomo post-moderno, che per non credere più a nulla finisce con il credere a tutto, e specialmente alle incredibili mistificazioni del sistema consumistico su cui l'onnipresente potere economico si regge, non resta che cercare di realizzarsi in una illimitata dilatazione dei propri desideri, contrabbandata sotto l'ingannevole etichetta di "libertà".
Non c'è forse vocabolo, oggi, più indegnamente abusato di questo: "libertà"; anche perché esso viene sempre sbandierato come una libertà da qualche cosa, mai presentato come una libertà per qualche cosa; e, di conseguenza, come una libertà assoluta, egoistica e distruttiva, e non già come parte di un disegno complessivo di libertà che abbracci tutti i soggetti e che offra uno sbocco a tutte le potenzialità veramente umane.
Ciò, del resto, è inevitabile: perché l'uomo post-moderno ha cancellato dalla propria mappa concettuale l'idea di persona, sostituendola con quella di individuo. La persona è relazione con l'altro e apertura al trascendente: dunque, presuppone la possibilità e la doverosità di operare una scelta precisa fra il bene e il male. L'individuo, al contrario, è una monade chiusa in se stessa, tutta rivolta a soddisfare le esigenze del proprio io, indipendentemente dalla relazione con il tu e rifiutando aprioristicamente l'apertura alla trascendenza. Per lui, dunque, non si dà alcuna scelta tra bene e male, ma solo tra differenti gradi di interesse; egli non mira a realizzare dei valori, ma unicamente a soddisfare sempre nuovi desideri.
È inevitabile, pertanto - date le premesse - che l'uomo post-moderno, il cosiddetto "quarto uomo", non possa concepire la libertà se non in negativo, ossia come libertà da qualche cosa e contro qualche cosa; nonché in astratto, ossia non come libertà che deve armonizzarsi con le altre libertà, ma come sforzo dell'io onde affermarsi secondo la linea dei propri desideri, senza ammettere alcun limite al di fuori della propria legge.
Tutto il dibattito della cosiddetta cultura laica, che si sta svolgendo proprio in questo momento, sui temi del testamento biologico e della morte assistita, ruota intorno a un simile malinteso: quello, cioè, di considerare la libertà dell'uomo - pardon, dell'individuo - come assoluta; e, pertanto, tale da includere in sé anche il "diritto" a por fine alla propria vita. Senza badare al fatto che la vita non è nostra, nel senso che né possiamo darcela da soli, né possiamo pensare di interromperla - e sia pure in circostanze drammatiche - senza tenere conto dei numerosi legami d'ogni tipo, ma specialmente affettivi, che esistono fra la vita che abbiamo ricevuto in custodia, e tutte le altre che la intersecano e la corrispondono.
Solo se si ammette che l'essere umano non è un semplice individuo, gettato a caso in mezzo ad altri individui, e sottratto a ogni responsabilità all'interno di un disegno complessivo, si può pervenire a una visione superiore, che riconosca in lui una persona: sostanza spirituale capace di libere scelte e, quindi, dotata di diritti e di doveri; di libertà, ma anche di necessità.
Vi si può pervenire, cioè, solo se - a dispetto del Vangelo darwiniano - si riconosce, almeno come ipotesi di lavoro, che l'uomo non è solo un primate evolutosi a caso da un fenomeno "vita" che sarebbe comparso, altrettanto a caso, un bel momento, da un fantomatico e improbabilissimo "brodo primordiale" (cfr. il nostro precedente articolo, "L'idea biologica del "brodo primordiale" è una banale ripetizione dell'errore antropocentrico", consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice, in data 17 marzo 2008).
Ora, una società ove ciascun essere umano concepisca se stesso come un semplice individuo, come un aggregato casuale di atomi, il quale non deve rispondere ad alcuno della propria vita e delle proprie scelte; in una società dove i valori "forti" sono stati banditi in nome della relatività dei punti di vista e della eguale dignità di ogni possibile tipo di "verità" (sentita sempre come relativa e provvisoria), i legami di coesione, solidarietà e naturale benevolenza finiscono, inevitabilmente, per incrinarsi e, alla lunga, per cedere, sotto le spinte distruttive dell'edonismo, del pragmatismo, dell'utilitarismo sfrenati; e diventa quella foresta paurosa, ove - per dirla con Hobbes - "homo homini lupus", l'uomo è simile a un lupo verso l'altro uomo.
Ecco perché è necessario porre un limite alla crescita illimitata dei desideri; ma non sarà possibile farlo, se l'uomo post-moderno non riscoprirà, innanzitutto, il senso del limite entro se stesso; che è, poi, l'altra faccia del senso del mistero.

Scrive Ignazio Sanna nel suo saggio "Persona e libertà tra moderno e postmoderno: la problematizzazione antropologica della libertà" (all'interno del volume antologico "Un mondo di libertà. Le professioni tra individualismo e responsabilità", a cura di R. Balduzzi e I. Sanna, Roma, Editrice AVE, 2005, pp. 108-110):

"Fra le tante categorie che vengono utilizzate per descrivere i mutamenti dell'antropologia  contemporanea ce ne sono due che ritengo particolarmente  efficaci: il "quarto uomo" e "l'uomo radicale". La caratteristica principale del quarto uomo è la dilatazione del desiderio, mentre quella dell'uomo radicale è la concezione dell'uomo come individuo e non come persona. […]
Nietzsche, nella sua opera "Così parlò Zarathustra" annunciò con esultanza la nascita del
SUPER-UOMO, una specie di creatura i cui connotati corrispondevano più a quello che l'uomo non è e non deve essere, che a ciò che l'uomo concretamente è in realtà. Per cui possiamo affermare che qualcosa è certamente scomparso, è morto, ma non sappiamo ancora bene che cosa sia nato. Di sicuro, però, si è estinto un certo tipo di uomo, incarnato dalla cultura greca e da quella cristiana. Scrive il Morra che "il primo uomo della razionalità, prodotto dal miracolo greco insieme con la filosofia, orientato dall'ordine del cosmo e sicuro dell'eterno ritorno dell'identico, si era congiunto  con il secondo uomo della fede, prodotto dalla rivelazione ebraico-cristiana insieme con la religione, orientato alla provvidenza e teso a una meta escatologica." Questi due uomini avevano costituito una sintesi armonica di ragione e fede, di storia e metastoria. Sarà il terzo uomo, il borghese calcolatore e asceta, a rompere tale sintesi.  Egli volgerà le spalle al sapere religioso e al sapere filosofico per privilegiare il sapere scientifico. Alla scienza, intesa sin dall'inizio come strumento tecnologico per il dominio del mondo, il terzo uomo subordinerà la filosofia come semplice metodologia del sapere scientifico e la religione  come atteggiamento etico che accompagna la realizzazione del "Beruf" nel lavoro.
Dopo che, con l'andare del tempo, si è progressivamente dissolto anche questo terzo uomo, un uomo diverso ha preso il suo posto. È nato il quarto uomo, senza religione [senza filosofia?], senza storia, vittima del desiderio e non del bisogno, senza ansia per la verità, senza religione. È nato l'uomo dell'epoca postmoderna, incapace ormai di ateismo sostitutivo e capace di realizzarsi con i suoi strumenti tecnologici ed i suoi media, nei quali, come nel flipper e nei video-giochi, scienza e magia coincidono.
Il passaggio dal secondo al terzo uomo può essere caratterizzato come il passaggio dalle tecnologie dei bisogni alle tecnologie dei desideri. ha fede nel progresso e nella tecnologia, in quanto essa sconfigge i miti atavici del primo e del secondo uomo: malattia, morte improvvisa e precoce., freddo, fame, bisogni. L'uomo postmoderno non ha più bisogni da soddisfare, ma solo desideri da inventare. La forma tecnologica più adeguata è quella dei media audiovisivi.. Essi sono del tutto sottratti al bisogno e alla finalità; non sono fini, ma mezzi. Realizzano ciò che Kant indicava come caratteristiche del giudizio estetico: il "piacere senza interesse" e la "finalità senza scopo".
Il quarto uomo "non vive più in termini drammatici l'antitesi tra verità e falsità, al punto che per lui non esistono più ERRORI, ma solo ERRANZE, (nel doppio senso del verbo errare, che significa sia vagare sia sbagliare), e di conseguenza non sperimenta più forti conflittualità nelle scelte etiche, ma riesce ad estetizzare ogni oggetto di conoscenza. L'eclissi del sapere religioso e di quello filosofico, con i loro concetti obsoleti di Dio, Essere, Verità, ha condotto alla coincidenza di storia e favola, di volto e maschera. Il mondo dei media realizza un "continuum" tra oggetto e favola, al punto che neppure la  favola può ancora esistere."
Per quanto riguarda il rapporto dell'uomo post-moderno con la religione, egli non rifiuta la religione, come non rifiuta neppure la scienza e la filosofia; le considera altrettanti giochi linguistici, nel caleidoscopio pirotecnico di un sapere non più mitologico, ma pluralistico e dissipato. "La religione diventa un appello soggettivo e gratificante, che testimonia l'insufficienza della fede a produrre una certezza superiore alla soggettiva speranza.  L'uomo religioso d oggi non professa troppo volentieri delle verità certe ed assolute, ma preferisce rimanere aperto a una religiosità generica, imprecisa, che non comporta l'adesione a un determinato corpo di dottrine  e precetti, e può sconfinare sia nella più totale indifferenza del fatto religioso che nel sincretismo delle più disparate religioni.. Nel campo strettamente religioso, quindi, l'uomo di oggi "un insicuro, che al posti di una solida fede si ritrova ad avere  una speranza, un calcolo pragmatico, un'esigenza intima, o qualcosa del genere, niente comunque che assomigli alla confidenza  assoluta del suoi antenato veramente credente.  Egli non può "credere" in modo reale. L'approccio concludente alle verità rivelate non è realizzabile solo attraverso un atto di volontà o un'aspirazione ideale: per essere valido, deve avere una solida possibilità mentale. La quale non si dà più."

Concordiamo con gran parte di tali affermazioni e aggiungiamo, per parte nostra, che il cosiddetto "quarto uomo" rischia di essere anche l'ultimo, se non sarà in grado di trovare l'umiltà e la saggezza per ridare spazio alla propria voce interiore: la quale gli suggerisce il senso del limite ed il senso del mistero.
Egli è ormai divenuto simile a un bambino viziato e scontento, incapace di rigore e di onestà interiore, terrorizzato all'idea di fare silenzio intorno a sé, di cominciare a guardarsi dentro senza indulgenza e senza ipocrisia: non gli piacerebbe lo spettacolo della propria immagine. In compenso, può disporre di una tecnologia talmente poderosa e talmente sproporzionata al suo livello di evoluzione spirituale, che questo bambino viziato sarebbe in grado di distruggere se stesso ed il mondo in cui vive, il giorno in cui decidesse di farlo.
E perché non dovrebbe, dal momento che non ritiene di essere stato chiamato alla vita per svolgere un compito; né di avere dei precisi doveri verso se stesso e verso l'altro (natura compresa); né, infine, di essere tenuto a rendere conto del proprio operato a quell'Essere dal quale ha ricevuto ogni cosa, compresa la propria capacità di conoscere, amare e lodare?
Tremendi sono i fantasmi di morte che egli è nelle condizioni di evocare con la sua magia nera; tremende sono le ferite che può infliggere a sé stesso e agli altri viventi: e sembra proprio che nessuna lezione della storia sia capace di insegnargli qualcosa.
Per imboccare una strada di salvezza, pertanto, egli dovrebbe in primo luogo riconoscere la radice del proprio errore: la presunzione dell'autosufficienza. Dopo di che, dovrebbe ristabilire un patto di solidarietà con la creazione della quale egli è stato chiamato a far parte, non per devastarla e saccheggiarla irresponsabilmente, ma per custodirla, amarla e proteggerla.
Come si vede, siamo ancora al bivio di Adamo ed Eva: al bivio antichissimo della tentazione di volersi fare simile a Dio. La sua filosofia nichilista, la sua potenza tecnologica, la sua rincorsa dei desideri illimitati: tutto congiura a sospingerlo in quella direzione.
Per trovare la forza di modificare tale rotta sbagliata e pericolosa, sarebbe necessario che egli ricordasse di non essere il padrone della nave, ma solo - e temporaneamente - colui al quale essa è stata affidata. E, come il capitano saggio e prudente, invece di sfidare il Cielo e la Terra con il cuore gonfio di orgoglio, dovrebbe regolare il corso della navigazione secondo i venti e le correnti marine, docile strumento di un Disegno più grande di lui.