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La decrescita dell'immigrazione

di Giuseppe Giaccio - 27/04/2009

Da tempo, l’Italia non è più terra di emigrazione, ma di immigrazione. Attualmente, gli italiani residenti all’estero superano i tre milioni (secondo le stime più basse, sarebbero 3.106.152, secondo quelle più alte, 3.500.000). In buona misura, si tratta però o di persone anziane, o di figli di emigranti di seconda o terza generazione, i quali non possono nemmeno essere inseriti in senso stretto nella categoria degli emigranti, non essendosi mai spostati dal luogo in cui sono nati. Quelli di recente emigrazione, poi, sono perlopiù giovani laureati e professionisti che cercano, in genere con successo, uno sbocco lavorativo all’estero non riuscendo a trovare nell’asfittico mercato del lavoro italiano un’occupazione all’altezza delle loro aspettative. Poco più di 3000 laureati lasciano così l’Italia ogni anno, privando il nostro paese di un bagaglio di conoscenze e di formazione che ci sarebbe molto utile. In questi casi, siamo quindi ben lontani dalla tradizionale immagine del migrante che abbandona la propria terra sotto la spinta del bisogno – immagine che ci viene invece riproposta (anche se, come si vedrà, non sempre a ragione) dagli immigrati che, da varie parti del mondo, arrivano nel Belpaese. Stando al più recente rapporto sull’immigrazione curato dalla Caritas/Migrantes, ci sarebbero in Italia 3.035.000 stranieri regolari. Dal canto suo, il Population Reference Bureau, cioè il dipartimento statunitense che studia i flussi migratori, ci colloca al secondo posto al mondo per flusso di immigrati, dopo gli Stati Uniti. Ogni anno, entrano da noi legalmente quasi 300.000 persone straniere (comprendendo in questa cifra i ricongiungimenti familiari), contro 1 milione negli Usa. Ma se teniamo conto della notevole differenza di popolazione, l’Italia può essere considerata, in proporzione, al primo posto. Prescindendo da posizioni xenofobe o razziste, che in un paese civile non possono avere diritto di cittadinanza, il discorso ufficiale politicamente corretto non ha difficoltà ad indicare il criterio cui dovrebbe ispirarsi un’accettabile politica dell’immigrazione. Potremmo riassumerlo in una equilibrata miscela di apertura e regolazione dei flussi e di giusta severità nel far rispettare le leggi, nell’interesse degli stessi immigrati, oltre che dei cittadini italiani. Questa tesi viene  continuamente esibita come un toccasana.
Tradizionalmente, la sinistra è più attenta alla prima di queste due esigenze, la destra alla seconda, anche se non mancano, per così dire, reciproche invasioni di campo. Qualche tempo fa, suscitarono, ad esempio, un certo scandalo a sinistra le dure dichiarazioni antiromene dell’allora sindaco di Roma Walter Veltroni e antilavavetri del sindaco di Firenze Domenici, nonché la campagna per la legalità e la sicurezza del sindaco di Bologna Cofferati, accusato per questo di essere “fascista”. Costoro non sono impazziti, né sono diventati improvvisamente degli estremisti di destra, incapaci di dire cose di sinistra, come si è cercato di far credere, ma, semplicemente, non sanno bene che pesci pigliare e, di conseguenza, annaspano, si arrabattano, tirano una coperta drammaticamente corta, ora coprendosi sul versante moderato, ora su quello progressista del loro elettorato. In realtà, quando dalle affermazioni di principio si passa alle cose concrete, nessuno ha la ricetta in tasca e si procede a tentoni, sia a destra che a sinistra. La tesi ufficiale finisce dunque col somigliare a un ircocervo, a una fantasticheria irrealizzabile; è poco più di un espediente retorico, incapace di reggere di fronte alla prova della realtà.    
La regolazione dei flussi sembra più una chimera che una possibilità reale. Nel citato rapporto della Caritas, infatti, leggiamo: “Bisogna riconoscere che neppure le politiche migratorie dalle quote molto ampie o un migliore aiuto in loco sono in grado di soddisfare la fame di inserimento occupazionale del Sud del mondo”. Il che significa che la pressione migratoria è talmente forte da mettere a dura prova ogni barriera. D’altra parte, la Caritas ammette altresì che “l’Italia non può costituire uno sbocco per tutti i migranti del mondo, ma nel contempo è necessario muoversi meglio nei confronti di coloro che possiamo accogliere”. Benissimo. Ma cosa si fa, come ci si deve muovere nei confronti degli altri, di quelli che non possiamo accogliere? Perché è evidente che, anche se pratichiamo una politica migratoria improntata al massimo di apertura e accoglienza, ci saranno sempre immigrati ai quali dovremo opporre, come dicono i francesi, un fin de non-recevoir. Siccome non se ne andranno mai di loro spontanea volontà, solo perché un prefetto ha loro intimato di farlo, sarà inevitabile adottare delle misure repressive. A questo punto, però, la sinistra dà in escandescenze, lancia accuse di razzismo e fascismo, sragiona, evidenziando un chiaro limite antropologico.
C’è una canzone del cantautore Pedro Guerra, molto nota in Spagna e nell’area ispanofona, che può essere considerata l’inno della xenofilia di sinistra e che illustra molto bene tale limite. Il titolo è già tutto un programma: Contamíname. Il ritornello dice: “Contamíname/ pero no con el humo que asfixia el aire/ ven/ pero sí con tus ojos y con tus bailes/ ven/ pero no con la rabia y los malos sueños/ ven/ pero sí con los labios que anuncian besos./ Contamíname/ mézclate conmigo/ que bajo mi rama/ tendrás abrigo” (Contaminami/ ma non col fumo che inquina l’aria/ vieni/ ma con i tuoi occhi e i tuoi balli/ vieni/ ma non con la rabbia e i cattivi sogni/ vieni/ ma con le labbra che annunciano baci./ Contaminami/ mischiati con me/ e sotto il mio ramo/ troverai riparo). Il problema è che gli immigrati, come tutti gli esseri umani, portano in sé e con sé non solo baci e danze, ma anche rabia, humo e malos sueños. Questo “essere” degli immigrati viene completamente dimenticato o sottovalutato e scusato, a profitto del “dover essere” utopico che li dipinge a tinte rosee o soltanto come poveri disgraziati da aiutare. Gli stranieri che approdano avventurosamente sulle nostre coste rappresentano, certo, un’opportunità sia sul piano dell’arricchimento culturale, sia su quello dell’arricchimento economico: in Italia, 1 lavoratore su dieci proviene da paesi extracomunitari, nel 2005 sono stati assunti 173.000 nuovi lavoratori nati all’estero, mentre i cittadini stranieri titolari di azienda sono 130.969. Ma una parte di loro contribuisce a configurare anche un problema di ordine pubblico, che va ad aggiungersi a quello, già non lieve, costituito dalla criminalità nostrana. Gli immigrati rappresentano il 21,3% delle persone denunciate (117.118 su un totale di 549.775 nel 2005). Queste cifre sono, tuttavia, certamente più alte se consideriamo che, sempre secondo il dossier della Caritas, l’80,7% degli autori di reati, italiani compresi, restano ignoti.
Se il peccato della sinistra è una visione utopica, quello della destra è una visione distopica della realtà, che la porta a valorizzare la coppia fallaciana “rabbia e orgoglio” e a inventarsi di sana pianta lo scontro delle civiltà e il pericolo dell’“Eurabia”, dell’Europa invasa dalle moschee e da immigrati musulmani (che in Italia costituiscono il 37% dell’immigrazione) e completamente prona ai desideri della Lega Araba. Come a sinistra vi sono politici che invadono il terreno, solitamente considerato destrorso, della “tolleranza zero”, così anche a destra vi sono esponenti politici, come l’ex ministro dell’Interno Pisanu, che propongono un approccio più pacato al problema dell’immigrazione e spingono in direzione di un islam italiano, ma a prevalere sono indubbiamente i toni da crociata miranti a rinfocolare le paure dell’uomo della strada che troviamo in un Baget Bozzo o nel Berlusconi teorizzatore della superiorità occidentale o nelle posizioni leghiste.
Tuttavia, la convivenza è possibile, non è irrealistica. È già stata, d’altronde, storicamente realizzata e può esserlo ancora. Ma la condizione essenziale affinché ciò accada è che anche noi siamo disposti a rimetterci in discussione, decolonizzando il nostro immaginario sviluppista, per dirla con Serge Latouche. Nei riguardi degli immigrati non possiamo assumere semplicemente l’atteggiamento – che ci fa restare all’interno del paradigma utilitarista – del vigile urbano che disciplina il traffico e regola il “flusso”, includendo ed escludendo in base alle proprie convenienze economiche. Una posizione di questo tipo ha la catena misurata, è del tutto errata, perché contribuisce ad alimentare anziché controllare le ondate migratorie, attraverso quello che il dossier della Caritas definisce il “paradosso dello sviluppo”, in base al quale “la causa dei flussi internazionali non risiede nella povertà assoluta o nella disoccupazione, ma nell’attrazione esercitata dai salari più alti e dalle migliori condizioni sociali dei paesi di arrivo. È questo il caso del Brasile dei nostri giorni dove la stabilità economica raggiunta dopo decenni di incertezze è stata accompagnata da almeno 500 mila partenze”. Tra gli immigrati che approdano dalle nostre parti ve ne sono dunque alcuni spinti da una reale necessità, ed altri che lo fanno unicamente perché sedotti dalla favola occidentale dello sviluppo illimitato, dal miraggio dell’avere sempre di più a qualunque costo, dall’idea che crescere è comunque un bene e se non cresci sei povero, non vali niente e sei degno solo di commiserazione. Se non cominciamo noi occidentali a rinunciare a questo immaginario sviluppista, e se, di conseguenza, non iniziamo a rimodellare le nostre società a partire dal principio di puro e semplice buonsenso dell’equilibrio e della sobrietà, non verremo mai a capo né del problema dell’immigrazione, né di mille altre questioni collegate alla hybris occidentale. La decrescita dell’Occidente è il presupposto della decrescita dell’immigrazione e della costruzione, qui da noi, di società plurali e rispettose dell’altro. Questo processo richiede, evidentemente, tempi lunghi, non si realizzerà in un batter d’occhio; potrebbe anche non tradursi mai in pratica e restare allo stadio di mera suggestione intellettuale, sia per le oggettive difficoltà che gli si parano davanti, sia per alcune carenze presenti in molti di coloro che lo propongono. Nel frattempo, sarà difficile che si riesca a vedere, in materia di immigrazione, come pure in altri ambiti, qualcosa di diverso dalla versione politica di un best seller di qualche anno fa: io speriamo che me la cavo.

[tratto da Diorama letterario numero 285]