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Dove sono i confini dell'anima?

di Francesco Lamendola - 28/04/2009

 

Quando crediamo di afferrare le cose, in realtà non facciamo che sfiorare la loro ombra: questo è l'eterno cruccio dei razionalisti e, in genere, di tutti coloro i quali ritengono che, per conoscere una cosa, sia necessario averne compreso il meccanismo; e che possederla significa essere capaci di analizzarla e,  magari, riprodurla in laboratorio.
In particolare, da quando Kant ha operato la definitiva rottura tra  il «noumeno» o la cosa in sé, ed il «fenomeno» o la cosa come ci appare, si direbbe che il pensiero moderno abbia definitivamente rinunciato a ogni presa effettiva sulla realtà; a meno di imboccare la via opposta a quella della metafisica tradizionale, affermando, con Hegel e l'Idealismo immanentistico - che non ha nulla a che fare con l'idealismo platonico e cristiano - che tutto ciò che esiste è creazione dello Spirito, del nostro pensiero e del nostro atto di pensare.
Nemesi pressoché inevitabile: una volta ammesso che il pensiero non può avvicinarsi all'essenza delle cose (cfr. il nostro saggio: «L'io penso kantiano e l'autocastrazione del pensiero moderno», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice), non rimangono che queste tre possibilità:

a) rinunciare alla verità, ripiegando sulle svariate forme del cosiddetto «pensiero debole»;
b) negare al pensiero ogni funzione che non sia puramente pratica e strumentale, perseguendo un Logos calcolante e strumentale totalmente slegato dalla progettualità dei fini e dei valori;
c) affermare, solipsisticamente, che è proprio il nostro pensiero a creare la realtà, e che verità e pensiero soggettivo costituiscono una sola e unica cosa.

Al di fuori di questo, non è dato porre la relazione del soggetto con il mondo; ma, a ben guardare, nemmeno la relazione del soggetto con se stesso. Perché se manca non solo una verità, ma anche un criterio di verità, allora nulla è certo di quanto crediamo esistere nel nostro stesso io; e noi stessi potremmo non essere altro che il frutto di un sogno, o di un delirio, o magari di un incubo, da parte di qualcuno o di qualcosa che è altro da noi.
Non stiamo parlando di ipotesi astratte e fabtasiose: questa è, precisamente, la visione dell'uomo di Pirandello e, più o meno, di parecchi filosofi del XX secolo, a cominciare da Freud (che filosofo non era, ma che ha influito più di ogni altro sul pensiero del secolo passato): un caos ribollente di io divisi e separati, per lo più conflittuali; un magma instabile e sempre sul punto di eruttare sotto forma di lava incandescente; un caleidoscopio di forme e colori che ben raramente si armonizzano e, molto più spesso, si urtano, si sovrappongono, si intersecano, si spezzano.
In breve, questa visione ha teorizzato la pazzia come la condizione naturale dell'essere umano: cosa che, forse, era inevitabile, dopo che Hegel - il gran sofista - aveva sostenuto, con aria di trionfo, che non è l'essere che crea il pensiero, ma il pensiero che crea l'essere; confondendo poi tutto («mediando», a sentir lui) in una stessa identità indifferenziata.
Abbiamo ricordato Pirandello, ma potremmo ricordare anche lo Shakespeare del «Sogno di una notte di mezza estate»; e anche, naturalmente, Calderón de la Barca; così come potremmo ricordare la concezione del Buddhismo Theravada, secondo la quale noi non abbiamo un io, ma solo un complesso di operazioni mentali continuamente cangianti; o, ancora, l'apologo del filosofo taoista Chuang Tzu, secondo il quale è difficile dire se sia l'uomo a sognare di essere divenuto una farfalla, o se sia la farfalla che ora crede di essere divenuta un essere umano.
Restando nell'ambito della cultura occidentale, comunque, si direbbe che sia stata la modernità a spalancare le porte alla disgregazione dell'io («quel doppio uomo che è in me», scrive Francesco Petrarca nell'epistola a Dionigi da Borgo San Sepolcro, in cui gli narra la propria ascensione al Mont Ventoux); dopo di che, non solo la relatività dei punti di vista, ma anche la coscienza della illusorietà della nostra presa sul mondo, divengono dei fatti praticamente inevitabili. Se non c'è un io, non si vede perché dovrebbe esserci una realtà oggettiva che possa fargli da sfondo e, per così dire, da presupposto; perfino la necessità logica di un fondamento ontologico nell'Essere viene mesa tra parentesi o apertamente negata.
L'uomo post-moderno non è soltanto nichilista, è anche radicalmente immanentista: solo il qui ed ora ha ragione; solo l'esperienza immediata ha una sua evidenza. Così egli passa dal pragmatismo e dall'utilitarismo più estremi ad un vitalismo esasperato e ad una «volontà di potenza» (nel senso baconiano che «sapere è potere»), i quali altro non sono se non il rovescio della medaglia della sua disperante solitudine e della sua angoscia di morte.
Solitudine: perché l'essere umano, divenuto l'attore unico di una commedia (o di una tragedia) insensata e incomprensibile, soffre di aver reciso i legami con la realtà e con l'Essere che la manifesta; egli ha voluto prendere il posto di Dio, ma si sente terribilmente a disagio nella sala del trono, perché avverte tutta la propria finitezza ed impotenza.
Angoscia di morte: perché l'aver negato o messo a tacere la domanda più essenziale che sale dalle sue profondità, ossia la domanda circa lo scopo della propria vita e circa la natura dell'Essere, lo ha lasciato drammaticamente solo, a tu per tu con la certezza del proprio morire, che le sue strabilianti scoperte tecnologiche lo avevano illuso di poter eludere.
Non è un caso - crediamo - che sia stato proprio il teatro, tra le varie forme del pensiero e dell'arte moderni, ad aver maggiormente insistito sulla dimensione illusoria, evanescente, del nostro vivere, agire, sperare, soffrire e gioire: in breve, della nostra presa sulla realtà.
Nella decima scena del terzo atto de «La vita è sogno», Calderón de la Barca fa dire a Sigismondo (traduzione di Francesco Saba Sardi, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1968, pp. 95-96):

«Cielo, se è vero che sogno, cancella la mia memoria, poiché non è possibile che un sogno contenga tante cose. Potessi, con l'aiuto di Dio, districarmi da tutte o a nessuna di esse pensare! Chi vide dubbi tanto penosi? Se ho sognato la grandezza che mi è toccata, come può ora questa donna fornirmi evidenze simili?  Sicché fu realtà, non sogno; e se fu realtà, - ed è una nuova difficoltà, e non certo minore - come può la mia vita chiamarla sogno? Son dunque tanto simili ai sogni le glorie, che le ali vanno considerate false, e certe le simulate? Così poco ne corre dalle une alle altre, da dover dibattere per stabilire se ciò che si vede e si gode è verità o menzogna? Tanto simile è la copia all'originale, da dover dubitare che sia proprio essa?  Ma se così è, se si devono veder svanire tra le ombre la maestà e la pompa, la grandezza e la potenza, sappiamo approfittare dell'istante che ci tocca in sorte, perché nella realtà si gode soltanto di ciò che si gode nei sogni. Rosaura è in mio potere, l'anima mia ne adora la bellezza; profittiamo quindi dell'occasione; l'amore infranga le leggi del valore e della fiducia che l'hanno condotta ai miei piedi. Questo è sogno; e, poiché lo è, sognamo adesso le felicità che poi diverranno dolori. Ma mille ragionamenti non bastano a convincermi! Se è sogno, se è vanagloria, chi per umana vanagloria perde una gloria divina? Quale cosa passata non è sogno? Chi v'è che abbia gustato immense felicità, il quale tra sé e sé non dica, richiamandole alla memoria: "Indubbiamente, fu sogno tutto quanto m'è capitato"? Ma, se questo provoca la delusione, se so che il piacere non è che una bella fiamma che si converte in cenere al primo soffio di vento, abbiamo di mira l'eterno, cioè la fama perenne in cui non dormono le felicità, né le grandezze riposano…»

Che il passato divenga per noi come una specie di sogno, nel senso che la memoria non è possesso pieno della realtà, ma solo immagine - più o meno sfuocata, più o meno fedele - di essa, è cosa che può certo suggerire malinconiche considerazioni (Kierkegaard lo paragonava ad un bel vestito che non si può più indossare); d'altra parte, siamo proprio sicuri che le cose stano così?
Proviamo a domandarci: dove si trova la nostra mente, dove si trova colui che ricorda., dove ci troviamo NOI, nel momento in cui stiamo ricordando qualche cosa del nostro passato? Siamo proprio sicuri che la nostra mente, o la nostra coscienza, siano altra cosa dall'oggetto del loro pensiero e del loro ricordo? Perché se il contenuto e il contenente fossero una sola ed unica cosa, allora non vi è dubbio che, quando io ricordo il mio primo giorno di scuola, tanti anni fa, in quel lontano mattino di ottobre, ebbene io in quel momento non sono più qui, non sono più io, ma sono laggiù, e sono quell'io che fui allora; e non altro.
Del resto, possiamo accostarci alla questione anche in quest'altro modo: se io fossi realmente altro; se il mio io di adesso fosse altro da quello di tanti anni prima, come potrebbe quest'ultimo irrompere con tanta forza ed evidenza; come potrebbe ritornare ad occupare la scena; come potrebbe dire nuovamente «io sono»?
Forse noi tendiamo a sopravvalutare l'importanza della dimensione spazio e della dimensione tempo, cosa che ci porta a immaginare che il nostro io si modifichi continuamente o, per essere più precisi, che diventi continuamente altro da quello che è; mentre quello che cambia non è l'io, ma il piano d'intersezione fra l'io e il mondo. Cambiano - perciò - le situazioni, le abitudini, i comportamenti (fino a un certo punto, del resto: si potrebbe anche dire che noi scriviamo sempre la stessa frase sul libro della nostra vita); ma non cambia il cuore del nostro io, la nostra essenza più profonda di persone.
Noi sopravvalutiamo le rughe, sopravvalutiamo gli anni; l'io autentico non ha età e non appartiene ad alcun luogo particolare, perché il suo luogo non è quello riferibile allo spazio esterno, ma alla dimensione interiore.
Ecco il punto: l'anima non ha età e non ha dimora, perché l'anima non conosce confini, né di spazio, né di tempo. Neppure il corpo costituisce il suo confine: essa può uscirne a piacere, a determinate condizioni, già in questo piano di esistenza, come ben sanno non solo quanti praticano particolari tecniche di meditazione o di viaggio astrale, ma anche - semplicemente - coloro che riflettono sulla natura del sogno e, in particolare, su quella dei cosiddetti sogni lucidi.
Telepatia, chiaroveggenza, retrocognizione e tutti i fenomeni analoghi sono lì ad indicare, per chi voglia vederli e non fare come lo struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia, che la vita dell'anima è immensa, totale, e che non conosce barriere di spazio o di tempo.
Persone in stato di morte clinica sono state capaci, al risveglio, di descrivere tutto quello che avveniva intorno a loro, fin nei minimi particolari: non solo cosa dicevano e facevano i medici, ma com'erano vestiti, perfino il colore dei calzini che indossavano; di più: perfino quello che accadeva nella stanza accanto, dietro una parete di solidi mattoni. Che altro? Questi sono fatti, e con i fatti non si dovrebbe litigare; se i signori positivisti non sono capaci di spiegarli, abbiano almeno l'umiltà di starsene zitti.
Tutto questo dimostra che la mente non è una semplice funzione del corpo, come vorrebbe la scienza materialista oggi dominante, ma che il corpo ne è solo un supporto temporaneo e non indispensabile; che la mente può espandersi al di fuori del corpo e dei suoi prolungamenti naturali, i cinque sensi; che la mente è, in definitiva, incorporea e non localizzata.
Ebbene, se si vuole avere il coraggio e l'onestà intellettuale delle parole, allora bisogna pur dire che una mente incorporea e non localizzata corrisponde a quella entità che, per millenni, sia gli studiosi che gli uomini comuni di ogni civiltà hanno chiamato «anima». Poi, con l'avvento della modernità, questa parola è stata gradualmente bandita, quanto meno dal salotto buono della cultura accademica: impossibile pronunciarla (tranne che in senso figurato), senza rischiare la carriera o, quanto meno, senza rischiare i sorrisetti e le ironie della Scienza ufficiale.
Per avviarci a concludere queste brevi riflessioni su un tema che meriterebbe un approfondimento ben più consistente, vogliamo ora servirci di una pagina di un intellettuale italiano non molto noto, ma interessante, della seconda metà del Novecento: Nicola Chiaromonte.
Forse, il fatto di essere stato anche critico teatrale ha favorito il suo particolare approccio al problema circa i confini dell'anima, che è caratteristico della linea Calderón-Pirandello, da noi già indicata.  Ad ogni modo, le sue osservazioni sono acute e stimolanti, anche se - a nostro parere - non interamente  condivisibili.

Scriveva Nicola Chiaromonte, scrittore e saggista, nel suo libro «Silenzio e parole. Scritti filosofici e letterari» (Milano, Rizzoli, 1978, pp. 153-55):

«"Per quanto cammini, i confini dell'anima non li puoi trovare", dice Eraclito.
Siccome è escluso che Eraclito concepisse l'anima con un luogo di complicazioni "psicologiche", noi possiamo forse commentare le sue parole dicendo: "Non puoi trovare nell'anima altro che l'anima, non certo mai lo scontro con i limiti di una cosiddetta realtà, giacché a ogni moto dell'anima corrisponde precisamente un allontanarsi di tali limiti". Nei pensieri non si trova mai altro che la necessità del loro concatenarsi, nei sentimenti il modo del loro associarsi re variare, e nelle passioni altro che la natura del loro impeto. I pensieri, in particolare, dicono che ciò che in essi si pensa  non può non esser pensato; e in questa necessità sta la prova che pensiero dell'uomo ed essere del mondo si toccano in un punto situato nella più prossima intimità da una parte, nella più grande lontananza dall'altra: il punto di una verità che non può mai esser nominata senza farla scadere ad asserzione presuntuosa. Ma questo punto, questa prova della verità,  non sono essi stessi mai altro che pensati: pensieri nati dal seguito dei pensieri.
Da qui si arriva logicamente alle celebri proposizioni di Gorgia: "Niente esiste realmente", cioè ogni cosa percepita e pensata non può essere mai altro che pensiero d'essere. "Anche se qualcosa esistesse realmente, non la si potrebbe conoscere", ossia non potrebbe che avere la forma  di una sensazione, di una percezione o di una proposizione. "Supponendo che l'esistenza reale possa esser conosciuta, tale conoscenza sarebbe incomunicabile", il che significa che essa sarebbe per natura esterna al regno della parola, per natura irriducibile a espressione articolata.
Ma Gorgia parla naturalmente dell'Essere in sé, più che dell'anima nel senso di Eraclito, o della realtà nel senso in cui ne parliamo noi ordinariamente. E, d'altra parte, la questione dell'Essere in sé conduce alla deduzione dell'argomento ontologico: al Dio di Anselmo e di Descartes. Ma l'aforisma di Eraclito è molto più profondo della logica di Gorgia: non nega, anzi afferma; però, affermando, rende futile qualunque asserzione di "realtà", qualunque consistenza e sostanzialità della nostra "presa" sulle cose. E ciò riguarda il mondo esterno come quello interiore, ammettendo che fra i due sia possibile altra distinzione che grossolana e utilitaria. E tuttavia l'anima È; ma, appunto, è senza confini: non c'è idealismo, per quanto estremo, che possa esprimere adeguatamente il continuo sboccare della vita, della realtà, del piacere più carnale e della sofferenza più intima in un'inconsistenza finale. Nel momento che tocca l'anima, e si trasforma in coscienza, non c'è fatto, evento, corpo o cosa che non diventi simile al sogno trapassando, più che nell'irreale, in una impenetrabile evanescenza. La sola realtà rimane quella dell'anima; e il carattere proprio dell'anima - della "psyché", nel senso semplicissimo di principio vitale - è il suo straniamento non tanto rispetto non tanto al mondo quanto alle occasioni del mondo. Delle quali, proprio perché sono quelle che sono - mutamenti inattesi, fortune insperate, sventure repentine, incontri fortuiti: il "romanzo" dell'esistenza - si sa una volta e una volta per sempre che avrebbero potuto esser altre da quello che sono, ma non si sa tuttavia con questo se il mondo sarebbe stato diverso da quello che è. E allora, che realtà ha ciò che "capita"? E se la realtà di ciò che capita è dubbia, cos'è mai reale, visto che non c'è altro?
Non è soltanto questa continua esperienza ad allontanare all'infinito i confini dell'anima., Della vita, degli incontri e scontri col reale, di ciò che ci accade nel tempo e intorno a cui si aggrega il nostro essere, noi non possiamo mai veramente ritenere altro che l'ombra, il ricordo, l'immagine, l'emblema di un significato anch'esso per sua natura  mutevole, cioè ambiguo. E solo l'ombra dura.
Perciò non si possiede mai nulla della vita, e voler possedere significa correr dietro a una preda inesistente trascurando la sola realtà che ci sia data: quella dell'ombra. Nella quale non c'è nulla da afferrare e conservare, ma vive e vibra la sola cosa che duri: il desiderio d'essere che ci porta di cosa in cosa, la nostra inquietudine di fronte a un mondo che non rimane mai lo stesso né mai cambia, e nel quale sembra che ci sia una sola realtà: l'individuo che recita la sua parte d'ombra, nel momento in cui la recita. E il paradosso finale: vivere è una commedia, o una tragedia, che si recita per gli altri, mai per se stessi; giacché da noi stessi, soli, siamo troppo coscienti dell'evanescenza e del vuoto attorno per dare l'importanza altro che di "è parte", in sostanza obbligata, a ciò che facciamo; e, se si parla in prima persona, non si trova mai d'altro che d'esistere in una certa parte, nobile o abietta, che noi sappiamo bene di aver scelto solo perché vi ci siamo trovati coinvolti.
Questo è, guardato non "obbiettivamente", certo, ma secondo la visuale della vita vissuta, ciò che noi chiamiamo "realtà": quello che importa e a cui ogni singola occasione riporta: "refert", secondo l'etimologia. In altri termini, non si tratta mai, vivendo, della cosiddetta "realtà nuda e cruda". L'uomo non è mai veramente convinto che la realtà che lo circonda, lo assilla, lo travaglia sia la vera: la vera è quella che gli sfugge, quella che egli non riesce neppure a immaginare, visto che di essa non si può neppure dire che è l'ombra di ciò che è stato ma tuttalpiù che è l'origine di quest'ombra, nascosta per sempre dietro di essa.
Non è questa, di certo, la realtà cui di solito ci si riferisce, quella di cui si tratta quando si dice che si vive "realmente". Quello che realmente si vive è il suo peso, il suo fascino e il suo orrore. La realtà vera non si vive: vi si può solo alludere nei modi d'essere, di sentire, e di significare...»

Un suggerimento ci sembra di poter utilmente raccogliere da questo brano di prosa: quello di ricordare sempre che l'uomo non è mai veramente convinto che la realtà che lo circonda, lo assilla, lo travaglia, sia la vera: perché la vera è quella che gli sfugge, quella che egli non riesce neppure a immaginare.
Ma allora, se non riesce neppure a immaginarla, come è possibile che egli si accorga che essa gli sfugge continuamente, come l'acqua che si ritrae dalle labbra di Tantalo, quand'egli si china su di essa per bere? Questo è il punto.
E un principio di risposta - non diciamo una risposta completa ed esauriente - crediamo possa venire proprio da quel continuo risorgere della domanda, da quel senso di vuoto e di incompletezza, da quella struggente nostalgia che s'impadronisce di noi mentre stiamo vivendo le cose, anche nei momenti più lieti e più appaganti.
Perfino in quei momenti, infatti, noi sentiamo che non stiamo stringendo fra le braccia la realtà vera, ma solo un'ombra di essa.
E quale miglior prova potremmo avere, benché paradossale, del fatto che il qui ed ora non sono tutto; che il nostro corpo e le funzioni del nostro cervello non sono tutto; che lo spazio ed il tempo non sono tutto: ma che c'è qualcos'altro al di là di tutte queste manifestazioni, che costituisce il loro fondamento, la loro ragion d'essere, la loro origine e la loro finale destinazione?