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Tristi tempi

di Franco Cardini - 28/04/2009

La squallida polemica innestata a proposito dell’estremo saluto riservato giorni fa a Giano Accame non meriterebbe forse, per un minimo di rispetto dovuto anzitutto alla sua memoria e quindi a noi tutti, ulteriori commenti. Ma qui si tratta di una questione morale. E le questioni morali sono antipatiche e in genere si risolvono in un danno per chi le solleva. Tuttavia, le persone oneste non possono evitarle. Tanto meno io, che volevo bene a Giano da quando ci eravamo conosciuti nel ’63, a Firenze, nella sede de “Il Borghese”, insieme con Attilio Mordini.

Il cosiddetto “saluto romano”, nato da un equivoco neoclassico (era in realtà un giuramento, immortalato dal pittore napoleonico David), ha una storia complessa nel XX secolo e non si può ridurre all’apologia del genocidio antisemita. Ciò è contro la storia e contro ogni ragionevolezza. L’ultima volta che ho visto una folla immensa eseguire quello che, là, si chiamava il “Saludo a Franco”, è stato a Madrid, in Plaza de Oriente, verso il 1966: era in corso una manifestazione di solidarietà nei confronti del Caudillo, che la comunità internazionale aveva ostracizzato di nuovo dopo la condanna capitale inflitta al capo comunista Grimau. Il governo franchista aveva ufficialmente rinunziato al “saludo a Franco”, che però i falangisti continuavano a usare ufficiosamente. Francisco Franco è stato un dittatore che si è reso responsabile di molti crimini: tuttavia è stato ritenuto benemerito, nel mondo ebraico, perchè durante la guerra moltissimi ebrei sono stati salvati grazie alla concessione di un passaporto spagnolo. Credo che, con qualche analogia con quell’evento, chi giorni fa ha voluto onorare le spoglie di Giano con un gesto che ha scandalizzato qualche imbecille, non intendesse né far apologia di fascismo, né tanto meno esprimere convinzioni razziste. Intendeva soltanto onorare non quel che il fascismo è stato storicamente, ma quel che esso ha coerentemente rappresentato per lui, per Giano. Che forse sbagliava, forse s’illudeva: non lo so e non m’interessa. Ma il suo fascismo, quello per cui avrebbe voluto morire adolescente e quello nel ripensamento anche doloroso del quale ha continuato a vivere e a scrivere non era fatto né di razzismo, né di violenza: era amor di patria, senso dello stato, desiderio profondo di giustizia sociale, volontà di pensare con la propria testa e secondo la propria coscienza anziché secondo il proprio interesse, speranza in un’Europa del domani veramente unite e indipendente. Forse, quel che il fascismo avrebbe dovuto essere e non è riuscito ad essere. Ma a quelle illusioni - come a tante, a tutte le illusioni vissute in onestà, in buona fede, con vigile senso critico e pagando di persona - si deve soltanto rispetto. Era ciò che quelle mani alzate volevano esprimere.

L’indegna polemica sollevata non meriterebbe che si aggiungesse altro. Ma, siccome vorrei dire invece tante cose, desidero narrare un aneddoto di molto tempo fa. Perchè tutti noi gente del XX secolo, noi che ormai abbiamo superato le sessanta primavere e più, siamo stati toccati in qualche modo dal “Fattore F” o dal “Fattore K”, siamo stati o fascisti o comunisti, o antifascisti o anticomunisti: e la storia non solo non si cancella, ma non si deve neppure ignorare. E tanto meno tradire.

Nel ’63, l’anno a cui risale la mia amicizia con Giano, avevo ventitré anni ed ero dirigente universitario del MSI di Firenze. Oggi so molte cose che allora non sapevo e non credo più in molti dei valori nei quali mi riconoscevo allora: ma mi ci riconoscevo onestamente, quindi non me ne vergogno né me ne pento. Morì in quell’anno, in un tragico incidente,un venticinquenne mio fraterno amico Giovanni Francovich, (fatalità: in modo analogo, un paio di anni dopo, è venuto a mancare anche suo fratello, l’archeologo Riccardo, un altro amico a me carissimo) . Era un dirigente del Partito Socialista di Unità Proletaria e figlio del professor Carlo Francovich, illustre storico e ex dirigente del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale. Giovanni ed io ci eravamo conosciuti facendo a pugni ed eravamo diventati amici più che fraterni: era un giovane coltissimo, intelligente, profondamente buono e generoso. Anche molti miei giovani camerati del MSI di allora lo amavano e lo stimavano.

Eravamo meno di una decina, noialtri, ai funerali di Giovanni irti di bandiere rosse. Avevamo indossato tutti un maglione nero, per sottolineare la nostra identità e la nostra volontà di render omaggio a un avversario leale ch’era anche un amico carissimo. Quando la bara di Giovanni calò nella fossa, tutti alzarono il pugno chiuso nel saluto socialista. Lo alzammo anche noi: era un gesto che ci era odioso, ma lo facemmo col cuore gonfio d’una tristezza orgogliosa e quasi gioiosa: per rendere omaggio non a quell’orrore ch’era stato ed era ancora il bolscevismo, ma alla purezza di quel ch’esso era stato negli ideali di Giovanni. Alla fine della cerimonia il professor Carlo Francovich, che era stato imprigionato durante il ventennio fascista e che i fascisti li aveva combattuti davvero, venne da noi, ci strinse la mano e ci abbracciò uno per uno, piangendo. Così, allora, si comportava un galantuomo. Senza buonismi e senza sincretismi. Virilmente.

Per onore di cronaca, aggiungo un particolare che a molti parrà sconvolgente e incredibile. Giovanni Francovich era da molto tempo e sinceramente amico di Adriano Romualdi, il figlio di Pino (altra fatalità: Adriano morì più o meno contemporaneamente a Giovanni, e in modo simile). Si erano conosciuti bambini, dopo la guerra, sulle spiagge toscane. E, attraverso di loro, l’ultimo segretario del PFR e il dirigente del CTLN avevano imparato a conoscersi e a stimarsi. Come diceva l’Ariosto, “Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!”: Ma capisco che queste cose possano sembrar roba dell’altro mondo a certi cialtroni di oggi, che amano nascondere il vuoto delle idee dietro l’arroganza manichea di chi crede di star dalla parte giusta e ama combattere i draghi del Male Assoluto: non prima tuttavia di essersi accertati che tali draghi siano, in realtà, solo povere lucertole.

Un’ultima postilla: ero all’estero e non ce l’ho fatta a venire al funerale di Giano. Non me lo perdonerò mai. Ma si sappia che, quel saluto romano, l’ho fatto anch’io. Camerata Giano Accame: Presente! E ora, come dice la vecchia canzone castrista, “que me pongan en la lista, porqué yo estoy con èl”.