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Il caso Barclays: mordere la mano che nutre

di Mario Braconi - 28/04/2009

 

Interrogando Google si scopre che all’esotico nome di valiha corrisponde uno strumento musicale tipico del Madagascar ricavato da due canne di bambù, simile ad una cetra: se sono pochi a saperlo, ancora meno sono quelli che sanno (e capiscono) cosa si nasconda realmente dietro all’omonimo “schema” strutturato dalla banca britannica Barclays. Secondo un esperto fiscale, si tratta di un “meccanismo elusivo ad alta precisione”, consistente in un “interest rate swap” (derivato di tasso d’interesse) stipulato tra Barclays e Credit Suisse con modalità particolari. Quali? Queste: si è riuscito a far sparire i profitti dai conti di Barclays e a farli ricomparire magicamente (ed esentasse) su quelli di Credit Suisse (non c’è da meravigliarsi se gli accordi prevedevano che alla banca britannica spettasse il 70% del cosiddetto risparmio fiscale derivante dall’operazione).

Accanto a Valiha al mondo è stato dato fare la conoscenza con almeno altre sei strutture, tutte identificate con nomi tanto suggestivi quanto misteriosi, tutti partoriti dalla fervida mente di qualche genio bancario di Barclays. E poiché di misteri si parla, esaminiamo Knight, ovvero “Cavaliere”: niente tavola rotonda, però, né singolar tenzoni, ma, assai meno nobilmente, un dispositivo geniale, messo a punto con l’unico scopo di “aggirare le norme fiscali sulle controllate estere” con un utile previsto di poco più di 60 milioni di euro in minori pagamenti di imposte.

Non male anche il progetto Berry, ovvero “bacca”: un frutto di bosco che per il Fisco britannico deve avere certamente un sapore aspro, essendo perfino ai suoi esperti impossibile districarsi tra i vari giri cui sono sottoposte le Index Linked Gilts (obbligazioni indicizzate) che ne costituiscono la “materia prima”: secondo un esperto di fiscalità sentito dal Guardian “è probabile che nemmeno alla FSA (Financial Services Authority, cioè la Consob britannica) sarebbero riusciti a capire se questi titoli siano stati posseduti in forza di un prestito o se invece siano in proprietà.

Il progetto Brontos (da brontosauro?) rischia di diventare un caso anche in Italia, visto che “compagni di merende” di Barclays sono Unicredit ed Intesa Sanpaolo: una struttura molto complessa, che comporta l’emissione e la negoziazione di profit-participation certificate (speciali titoli trasferibili) denominati in sterline inglesi o in lire turche (!) con annesse (eventuali) coperture del rischio tasso e cambio. Al di là degli aspetti tecnici, con questa “idea” si possono “caricare” perdite fiscali (deducibili) in paese con tassi di prelievo fiscale relativamente elevato (come Italia e Gran Bretagna). A chi si domandasse che cosa c’entrino le lire turche in tutto questo, anche senza aver approfondito i documenti “riservati” di Barclays, possiamo provare a spiegare che quella divisa ha tassi base attorno al 20%, con effetti intuibili sulla quantità di denaro che si può defalcare come interessi passivi dall’utile fiscale. Del resto, tutti i giri che vengono fatti fare agli strumenti finanziari attraverso una serie di scatole vuote lussemburghesi, non hanno altro fine se non produrre artificialmente utili fiscali per circa 60 milioni di euro.

Su una materia così scabrosa (ma anche così profittevole), le banche tendono a mantenere un elevato livello di riservatezza e ad impiegare eufemismi piuttosto ipocriti: ad esempio, i dipartimenti che, all’interno dei loro organigrammi, si occupano di strutturare questi prodotti non si chiamano - per dire - Ufficio Elusioni Fiscali, ma Ufficio Structured Capital Markets o SCM (qualcosa come Strutturazione sui Mercati dei Capitali). Quanto alla riservatezza, si può scommettere che essa non sarebbe mai stata compromessa se non fosse stato per una “gola profonda” di Barclays che a metà marzo ha avuto la cattiva idea di trasmettere ben sette memorandum interni della SCM di Barclays a Vince Cable, vicesegretario dei Liberaldemocratici ed ex economista per la multinazionale petrolifera Shell; in qualche modo essi sono finiti anche al quotidiano Guardian, che li ha pubblicati sul suo sito web.

Che la banca non avrebbe tollerato di vedere i suoi panni sporchi sciorinati di fronte a milioni di concittadini, specialmente in una contingenza storica pervasa dalla giusta rabbia sociale contro i banchieri, visti come i principali responsabili di una crisi che sta mordendo anche molto lontano dalla City, era poco ma sicuro. Gli avvocati di Barclays (lo studio Freshfields) si sono messi immediatamente al lavoro per costringere il Guardian a rimuovere dal sito i documenti, usando il pretesto che essi erano coperti da un accordo di riservatezza e che pertanto chiunque li ha diffusi lo ha fatto illegalmente. Per capire quale fosse l’urgenza di Barclays, basti ricordare che il legale del Guardian, Geraldine Proudler, è stata svegliata alle due della notte successiva alla pubblicazione da un giudice, per discutere il caso al telefono. Alle 2:31 è arrivato un ordine esecutivo di rimozione dal sito dei documenti interessati.

Fortunatamente, però, quando qualcosa viene reso disponibile su Internet, anche solo per qualche minuto, resta di dominio pubblico o quasi, anche dopo che l’originale è stato rimosso (si pensi ad esempio al caso dell’ultimo disco degli U2, pubblicato erroneamente da un sito di commercio elettronico in anticipo di settimane rispetto al lancio ufficiale, ed immediatamente divenuto una hit “clandestina”). A dispetto della censura cui è stato sottoposto il Guardian, chiunque, smanettando un po’ sul web, può trovare e leggere tutti e sette i memorandum della vergogna. Essi sono certamente imbarazzanti per la banca inglese, che, pur non avendo dovuto far ricorso ad aiuti di stato, avendo chiuso il 2008 con circa 7 miliardi di euro di profitti, sta discutendo in questi giorni con il Tesoro la sua adesione ad un fondo di protezione dei suoi asset.

La “bomba” giornalistica, insomma, non poteva cadere in momento più propizio; tanto tempismo appare addirittura sospetto: i politici europei, infatti, stanno serrando i ranghi contro l’evasione fiscale, non tanto (o non solo) per motivi etici, quanto per tenere assieme bilanci pubblici, fortemente provati dai salvataggi e dalle altre forme di sostegno a banche e ad industrie. Non occorre essere teorici della cospirazione per ipotizzare che questo episodio sia un segnale lanciato dal governo a tutti i “furbi” che fino a ieri aveva tranquillamente tollerato.

D’altra parte una flebile eco di quei documenti esplosivi è arrivata anche in Italia, dove essi hanno innescato una piccola mina sotto le poltrone del top management di Intesa Sanpaolo e di Unicredit: dal documento su Brontos risulta in modo inequivocabile (con buona pace delle smentite o mezze ammissioni ufficiali) che controparti della operazione elusiva architettata dagli “strateghi” dello SCM di Barclays, sono Unicredit e Intesa Sanpaolo, ovvero due tra le banche che per prime hanno dichiarato di voler ricorrere ai cosiddetti “Tremonti Bond”, uno strumento estremamente economico e vantaggioso per rafforzare la propria solidità patrimoniale a spese dello Stato.

Per riassumere brutalmente: le stesse banche che bussano alla porta del governo sono quelle che gli sfilano sotto il naso i denari che potrebbero essere più utilmente impiegati per costruire o ristrutturare scuole ed ospedali (sempre che ci si riesca). In un Paese solo poco meno narcotizzato questa notizia avrebbe conquistato qualche prima pagina; in Italia, fatta la meritevole eccezione del quotidiano finanziario Il Sole 24 Ore, no.