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Pavel Aleksandrovic Florenskij

di Natalino Valentini - 29/04/2009

Fonte: cristinacampo

 Pavel A. Florenskij è una delle figure più significative e sorprendenti del pensiero religioso russo, oggi riscoperto in gran parte d’Europa (dopo oltre cinquant'anni di oblio) come uno dei maggiori pensatori del Novecento. Florenskij è anzitutto un filosofo della scienza, fisico, matematico, ingegnere elettrotecnico, epistemologo, ma anche filosofo della religione e teologo, teorico dell’arte e di filosofia del linguaggio, studioso di estetica, di simbologia e di semiotica. A poco a poco, in questi ultimi anni, sono tornate alla luce parti considerevoli della sua vastissima eredità culturale, lasciando emergere la statura di vero e proprio “gigante” del pensiero filosofico, teologico e scientifico, al punto da fargli meritare una esplicita menzione nella Fides et ratio (cfr. n. 74). Già nei primi decenni di questo secolo, diversi pensatori russi hanno parlato di lui come di un “Pascal russo”, la cui opera andrebbe posta a fianco a quella di Agostino; più frequentemente è stato definito il “Leonardo da Vinci della Russia” (S. Bulgakov, N. Losskij), che brilla per la sua “genialità” (P. Evdokimov) e “originalità” (A. Losev). In effetti ciò che più sorprende dell'approccio scientifico di Florenskij è «la piena assimilazione dell’oggetto di ricerca, lontana da ogni dilettantismo, unitamente all’ampiezza dei suoi interessi scientifici, la sua rara ed eccezionale personalità enciclopedica la cui grandezza non possiamo nemmeno stabilire per mancanza di capacità equivalenti» (Bulgakov, 1971, p. 128). Lo stupore non è suscitato soltanto dall'incontro con la sua opera, che attraversa le molteplici forme dello scibile con singolare competenza e padronanza dei più svariati registri formali, ma soprattutto dalla sua vita, dall'integrità umana e spirituale della sua persona. 

I. Cenni biografici e tappe della sua formazione scientifica

Pavel Florenskij nasce a Evlach (Azerbaigian) il 9 gennaio 1882 e qui compie la sua prima formazione liceale. All’inizio del 1900 intraprende gli studi all’Università di Mosca, laureandosi nel 1904 in Matematica e Fisica, sotto la direzione di Nikolaj V. Bugaev (1837-1903), tra i più eminenti matematici russi di fine secolo, fondatore, insieme a V.Ja. Cinger e a P.L. Cebysev, della “Società matematica moscovita” che si propone l'obiettivo primario di realizzare una sintesi filosofico-scientifica in grado di orientare nella complessità dei fenomeni conoscitivi. Il giovane matematico è fortemente attratto dalla concezione scientifica del mondo proposta dal maestro, elaborata nelle sue linee fondamentali in un'opera del 1898: La matematica e la visione filosofico-scientifica del mondo (Matematika i naucno-filosofskoe mirosozercanie), soprattutto per le sue molteplici implicazioni gnoseologiche e per la sua indubbia novità teorica e metodologica, che pone in discussione il metodo dominante dell’analisi matematica incentrata sull’idea della continuità, vale a dire sulla subordinazione dell’esistente e del suo accadere alle costanti e irrevocabili leggi analitiche. Ricorrendo alle ricerche sulla matematica pura, Florenskij mette a frutto le teorie bugaeviane inerenti l’“aritmologia” incentrate sulle funzioni discontinue e sulla concezione filosofico-simbolica dei numeri come forma, in vista di una visione integrale e dinamica del mondo. Nel 1904, poco dopo la morte di Bugaev, Florenskij discute una tesi di laurea proprio sul «principio di discontinuità» applicato alle rette geometriche, esemplificazione epistemologica di una nuova teoria della spazio come prefigurazione della concezione del mondo: Sulle caratteristiche delle curve piane come luoghi di violazione del principio di discontinuità (Ob osobennostjach ploskich krivych kak mestach narusenij preryvnosti ich nepreryvnosti), studio che suscita molta sorpresa e interesse tra gli accademici, i quali gli offrono subito la possibilità di una continuazione del suo lavoro di ricerca in ambito universitario. Nonostante il suo crescente interesse rivolto alla matematica pura che continua a considerare uno dei presupposti della fondazione dell'essere, egli si iscrive all’Accademia Teologica di Mosca, ove approfondisce con rigore e appassionata dedizione le lingue antiche, le scienze bibliche, dogmatiche, liturgiche, patristiche e ascetiche portando a termine con successo gli studi teologici. Molti sono gli scritti di rilievo che risalgono a questi anni di intensa creatività, e tra questi va ricordato soprattutto l'originale trattato ecclesiologico dal titolo Il concetto di Chiesa nella Sacra Scrittura (Ponjatie Cerkvi v svjascennom Pisanii, in “Opere in quattro volumi”[Socinenija v certyrech tomach = SCT], I, pp. 318-489), nel quale trovano una sorprendente anticipazione non soltanto le sue concezioni metafisiche e simboliche, ma anche aspetti riguardanti la fondazione cristologico-trinitaria della comunione ecclesiale che in alcuni tratti sembrano precorrere l'elaborazione ecclesiologica del Concilio Vaticano II. Tuttavia la ricerca matematica avviata negli anni giovanili non verrà mai abbandonata da Florenskij, anzi sempre coltivata come la base per un rinnovato e più attento confronto con la teoria della conoscenza, a partire dal concetto di  simbolo. A questa prospettiva teoretica, sia pure con accentuazioni diverse, egli resta sostanzialmente fedele lungo lo sviluppo del suo pensiero. Molto significativamente, nello stesso anno nel quale prendono inizio gli studi teologici (1904), Florenskij concentra la sua attenzione sul pensiero matematico di  Georg Cantor (1845-1918), che lo sollecita ad indagare il significato logico ed epistemologico del rapporto costitutivo tra finito e  infinito, unità e molteplicità, portando a compimento due saggi molto emblematici del suo orientamento di pensiero, lo scritto Sui simboli dell'infinito. Studio sulle idee di G. Cantor (O simvolach beskonecnosti. Ocerk idej G. Kantora), e il dialogo Empiria ed empirismo (Empireja i Empirija). Il primo è incentrato sul concetto di «insieme», che raccoglie in sé la molteplicità e l'unità nella loro correlazione reciproca, base per il confronto tra finito e infinito, e contiene la teoria del numero «trans-finito», simbolo della relazione logica e ontologica tra i “due mondi”, il relativo e l'assoluto. Questo è per Florenskij il luogo stesso della nostra esistenza: «Noi portiamo dentro il transfinito, al di là del finito; noi — kosmos — non siamo qualcosa di finito, direttamente in contraddizione con il Divino, noi siamo trans-finiti, il centro tra il tutto e il niente» (O simvolach beskonecnosti, in SCT, I, p. 126). L'altro saggio, strutturato nella forma del dialogo platonico tra un filosofo empirista-positivista ed uno cristiano, ruota attorno alle “prove” e alle “ragioni” di una concezione assoluta del mondo, così come emerge dal pensiero cristiano a partire dalla concretezza dell'“empiria”, intesa come condizione per la comprensione del reale, come realismo e razionalità, ma che tuttavia, avverte inesorabilmente il senso fenomenico del limite, volgendo il suo sguardo verso un “oltre” noumenale che lascia trasparire dall'empirico le tracce della manifestazione del divino. Allo sguardo che si rapprende sul visibile e incolla l'essere alla superficie esteriore, Florenskij contrappone l'«empiria», che proprio in virtù del suo radicamento al mondo reale si rende trasparente ad altri mondi, fino ad incarnare in sé l'altro mondo, trasformando il corpo stesso nella realtà del simbolo, «cioè nell'unità organicamente viva di ciò che è rappresentato, di ciò che simbolizza e di ciò che è simbolizzato» (Empiria ed empirismo, in Il cuore cherubico, p. 101). Questa inclinazione interiore a scrutare oltre la superficie naturalistica del mondo empirico, verso il suo nucleo simbolico, porta Florenskij ad un creativo confronto teorico con il movimento simbolista, grazie soprattutto al rapporto di amicizia che intrattiene con Andrej Belyj (1880-1934), figlio di Bugaev, narratore, poeta e teorico del simbolismo. Negli anni che precedono la rivoluzione, Florenskij infatti partecipa attivamente alla vivace vita culturale e religiosa moscovita nel circolo simbolista, nelle riunioni della “Società filosofico-religiosa”, compresi i movimenti delle avanguardie artistiche, intervenendo al dibattito e al confronto teorico sulle principali riviste teologiche, filosofiche e artistiche. 

II. Cultura e fede cristiana

In contrasto con l’atteggiamento dominante nell’intelligencija russa di quel tempo, fortemente antiecclesiale e antireligioso, egli matura un crescente interesse per la cultura cristiana che si concretizza poi nella scelta definitiva dell'esperienza ecclesiale, grazie anche all’incontro di due grandi guide spirituali, il vescovo starec Antonij Florensov, conosciuto nel marzo 1903, e lo starec Isidor Gruzinskij, ieromonaco presso la Lavra della Trinità, al quale Florenskij dedica un intenso ritratto spirituale (Il sale della terra. Vita dello starec Isidoro, Magnano 1992). Ancora giovanissimo scrive profeticamente in una lettera alla madre di voler dedicare la propria vita a dar forma ad una nuova sintesi tra l’ecclesialità e la cultura universale, «far confluire l’intero insegnamento della Chiesa in una visione filosofico-scientifica e artistica del mondo», con il preciso intento di restituire il vigore teoretico originario alle intuizioni dogmatiche e spirituali dei Padri e della tradizione ecclesiale. Dopo gli acuti e dolorosi travagli interiori della giovinezza, l'incontro con la Chiesa gli dischiude «il nucleo santo della vita» e, in opposizione alle visioni soggettiviste e spiritualiste di rottura con la Chiesa storica, Florenskij afferma apertamente di non credere nella generatio spontanea in senso spirituale, né alle “costruzioni” individuali: «La nostra Chiesa — mi sono detto — o è una completa assurdità oppure deve nascere da un germe santo. Io l'ho trovato e ora lo farò crescere, lo porterò fino ai santi misteri, e non lo darò in pasto ai socialisti di tutti i colori e sfumature» (Lettera a Belyj, 15.7.1905, “Kontekst” (1991), p. 39).La sua concezione del mondo, così profondamente compenetrata e animata dai princìpi della  matematica, si apre alla comprensione integrale della cultura, ripercorrendone il fiume fino alla sorgente, alle profonde radici spirituali e all’ispirazione delle sue forme originarie. Una ricomprensione del fenomeno della “cultura” che prende avvio dall'etimo comune che lo lega alla parola cultus: la cultura gli appare essenzialmente una “germinazione del culto”, il centro della vita, il nucleo e la sua radice, tanto da portare l’Autore ad affermare che «la fede definisce il culto e il culto la comprensione del mondo (miroponimanie), dalla quale poi deriva la cultura» (Avtoreferat, in SCT, I, p. 39). Queste intuizioni riguardanti il legame originario tra culto, cultura e cristianesimo lo sollecitano ad esaminare con disincanto i processi riduzionistici della cultura moderna (  RIDUZIONISMO), che erigendo un muro di separazione tra sé e la «Fonte della vita eterna», ha liquidato le radici ontologiche e mistiche della cultura cristiana, senza mai conoscerle concretamente nelle loro relazioni fondative con la figura di Cristo (cfr. Cristianesimo e cultura, pp. 48-62). Lungo questa prospettiva Florenskij continuerà a lavorare fino agli ultimi anni precedenti l'arresto, elaborando l'ardito progetto Filosofia del culto (Filosofija kul'ta), opera rimasta incompiuta, che si propone come sintesi filosofico-teologica dell'ethos liturgico, colto in tutta la sua rilevanza simbolica (di parola-ascolto, visione-contemplazione), come il luogo della soglia tra i “due mondi”.Il nuovo cammino, intrapreso a Sergiev Posad presso l’Accademia Teologica, lo porta inizialmente a concentrare l’attenzione su questioni bibliche e teologiche, considerando comunque la ricerca filosofica come imprescindibile radicamento umano ad una concezione sapienziale della realtà, in grado di mostrare l’unitarietà del fenomeno della cultura nel tempo e nello spazio. Subito dopo aver discusso la sua tesi all’Accademia Sulla Verità religiosa (O religioznoj Istìna, 1908), viene invitato alla cattedra di Storia della filosofia, attirando l’interesse di moltissimi studiosi per la profondità della sua ricerca e l’originalità dell’impostazione scientifica e didattica. Nel 1910, dopo aver ottenuto la licenza teologica, si sposa con Anna M. Giacintova e, pochi mesi dopo, è consacrato presbitero ortodosso. Nello stesso anno viene nominato docente straordinario di “Filosofia”, e tiene lezioni e seminari prevalentemente dedicati a questioni di “Storia delle idee e della Weltanschauung”, unitamente all’approfondimento di aspetti riguardanti la conoscenza dell’Infinito nella logica simbolica e matematica. L’impostazione del suo percorso gnoseologico si caratterizza per una spiccata predilezione al  realismo, quale «fede nella realtà trans-oggettiva dell’essere: l'essere si apre direttamente alla conoscenza» (Avtoreferat, in SCT, I, p. 40), inteso in opposizione all'illuminismo, al soggettivismo e allo psicologismo. Un «realismo ontologico» sempre accompagnato dall’«idealismo concreto», che si contrappone a tutte le forme di  idealismo astratto o trascendentale, con l’intento di scrutare in ogni fenomeno il simbolo della realtà. Questi temi confluiscono poi nel testo Il significato dell’idealismo, che raccoglie folgoranti intuizioni filosofiche maturate durante un ciclo di lezioni sul platonismo (svolte nel 1912-13), nelle quali l'Autore propone una radicale rilettura ermeneutica della storia della filosofia alla luce della tensione antinomica tra uno e molteplice, che trova una sua compiuta e persuasiva risposta nel dogma trinitario. Dal 1911 al 1917 gli viene anche affidata la direzione redazionale della prestigiosa rivista teologica “Messaggero Teologico” (Bogoslovskij Vestnik), della quale rinnova decisamente l’orientamento della ricerca teologica e la metodologia. Il confronto sempre più stringente e rigoroso tra filosofia e  teologia lo sollecita a un ripensamento globale della Filosofia della religione come  ermeneutica della rivelazione. Immergendosi con rinnovata coscienza nell’esperienza della vita ecclesiale ortodossa, egli ricolloca al centro del pensiero cristiano il dogma trinitario come fulcro e “principio basilare” dell’ontologia e della  metafisica, nel confronto creativo con i precedenti tentativi di F.W.J. Schelling (1775-1854), di V.S. Solov’ëv (1853-1900), degli slavofili (in particolare I.V. Kireevskij), ma soprattutto dell’archimandrita Serapion Maskin, dal cui sistema filosofico fu fortemente influenzato. Il frutto maturo e più compiuto di questo “nuovo pensare” trinitario connesso alla ricerca della Verità ultima (Istìna) culmina nella redazione definitiva dell’opera La colonna e il fondamento della verità (Stolp i utverzdenie Istiny, 1914), che porta nell'originale il sottotitolo «Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere», vera e propria Summa del pensiero russo ortodosso, oggi riletta come uno dei capolavori del pensiero teologico contemporaneo. 

III. Dalla cattedra al lager

Dopo la rivoluzione del 1917, a differenza di molti altri intellettuali russi che scelgono la via dell’esilio, egli si convince della necessità di una ferma resistenza interna, al fianco della comunità che soffre soprusi e mistificazioni, nella speranza di far esplodere dal di dentro le contraddizioni esistenti. All’inizio degli anni Venti è nominato responsabile della commissione per la tutela del patrimonio artistico del Monastero della S.S. Trinità e docente di “Analisi della spazialità nell’opera d’arte” al Vchutemas (Atelier superiori tecnico-artistici di Stato), fino al 1924. Oltre agli studi di filosofia del linguaggio, di teoria dell’arte e della spazialità, raccolti in varie pubblicazioni di particolare rilevanza scientifica (cfr. Allo spartiacque del pensiero e il trattato su Lo spazio e il tempo nell'arte), Florenskij compie una serie di invenzioni tecniche nel campo della fisica (riguardanti in particolare le proprietà dei materiali elettrici ed isolanti) e cura la realizzazione di alcuni volumi della grande Enciclopedia tecnica (dal 1927 al 1933). Fondamentale è inoltre il suo apporto scientifico alla Glavelektro (Amministrazione centrale per l’elettrificazione della Russia) e al Goelro (Istituto Elettrotecnico di Stato), mettendo a disposizione la propria competenza in qualità di ingegnere elettrotecnico e la sua ricerca nel campo dei materiali elettrici e isolanti. La produzione scientifica che va dal 1920 all’arresto è vastissima e comprende centinaia di voci: in essa Florenskij mai rinuncia alla sua concezione cristiana del mondo, come quadro d'insieme all'interno del quale si collocano le singole questioni, correndo continuamente il rischio della censura e dello scontro con il regime. Significativo a tale proposito è lo scritto Gli immaginari in geometria (Mnimosti v geometrii), che nella parte conclusiva si propone di rivalutare la concezione dello spazio presente nella Divina Commedia di  Dante Alighieri, con il sostegno teorico della teoria della  relatività e della geometria non-euclidea. Alla decisione del Politburo di censurare la pubblicazione del lavoro, Florenskij risponde con una lettera (13.9.1922) nella quale afferma: «Elaborando una visione monistica del mondo, ed una concezione che richiede un rapporto concreto e pratico nei confronti della vita, ero e sono ostile all'idealismo astratto come alla metafisica astratta. Come ho sempre pensato, una concezione del mondo deve avere delle salde radici, concretamente vitali, e deve culminare in una incarnazione viva per mezzo della tecnica, dell'arte ecc. In particolare io rappresento una geometria non euclidea con l'obiettivo di una applicazione tecnica nell'elettrotecnica» (V politotdel [Alla sezione politica] tr. it. in Dantismo russo e cornice europea, Firenze 1989, vol. II, p. 274).Nel clima di relativo liberalismo immediatamente successivo alla rivoluzione bolscevica, gli vengono concessi ancora margini per continuare la sua attività; successivamente il potere politico sfrutta tutte le sue competenze, per poi annientarlo completamente. Verso la fine degli anni Venti, allorché il potere politico sovietico inizia a mostrare i tratti sempre più persecutori e devastanti del totalitarismo schierandosi apertamente contro ogni forma di cultura religiosa, Florenskij viene arrestato una prima volta nel maggio del 1928, quindi incluso tra i soggetti socialmente pericolosi, in quanto considerato «un oscurantista, una minaccia per il potere sovietico» e condannato a tre anni di confino a Niznij Novgorod; condanna poi annullata dopo alcuni mesi. Tornato a Mosca, riprende la sua intensa attività filosofica, scientifica e teologica, concentrandosi con particolare dedizione sulle geometrie non euclidee e le loro implicazioni metafisiche e scientifiche, nonché questioni riguardanti la teoria fisica, che confluiscono nell'importante saggio La fisica al servizio della matematica (Fizika na sluzbe matematiki, 1932), nel quale il pensatore russo torna a ridefinire le coordinate per una visione globale del mondo sulla base dei princìpi della matematica, fuori dalla sua autoreferenzialità. Questi percorsi di elaborazione teorica vengono perseguiti da Florenskij senza rinnegare mai nessuna delle sue idee e convinzioni religiose, tanto da presentarsi agli incontri accademici e scientifici sempre in abito talare, finché nuovi pregiudizi e rinnovate accuse tornano a colpire la sua persona, fino al punto di considerare inverosimile che un “pope oscurantista” possa possedere tanta competenza nelle scienze esatte. Così il 26 febbraio del 1933 viene nuovamente arrestato, condannato a 10 anni di lager e trasferito in Siberia nelle isole Solovki, ove al posto dell’antico monastero era stato allestito il primo gulag sovietico. Anche in questa penosa condizione egli riesce a trovare la forza per intraprendere accurate ricerche sul gelo perpetuo, sull’estrazione dello iodio e dell’agar-agar dalle alghe marine, giungendo persino a brevettare una decina di importanti scoperte scientifiche, a partire dal liquido anticongelante.Ma la vita del filosofo russo è ormai inghiottita dalla vorace macchina del totalitarismo sovietico. Come risulta dagli atti segreti del KGB, recentemente riportati alla luce e consegnati alla famiglia dopo oltre cinquant’anni di mistero sulla sua fine, un’infame accusa viene perfettamente ordita contro di lui: dopo una prima, intransigente resistenza, padre Pavel accetta le false imputazioni, essendo venuto a conoscenza del fatto che ciò avrebbe potuto consentire la liberazione di alcuni suoi compagni dall’inferno del gulag. Liberamente sceglie di sacrificare se stesso e di donare la propria vita per rendere possibile la salvezza di altri fratelli. Così viene fucilato l’8 dicembre 1937, in un luogo rimasto sconosciuto nei pressi di Leningrado. Con lucidissima e tragica consapevolezza, poco prima di essere ucciso, padre Pavel scrive in una lettera alla famiglia: «Il destino della grandezza è la sofferenza, quella causata dal mondo esterno e la sofferenza interiore. Così è stato, così è e così sarà […]. È chiaro che il mondo è fatto in modo che non gli si possa donare nulla se non pagandolo con sofferenza e persecuzione. E tanto più disinteressato è il dono, tanto più crudeli saranno le persecuzioni e atroci le sofferenze. Tale è la legge della vita, il suo assioma fondamentale […]. Per il proprio dono, la grandezza, bisogna pagare con il sangue» (Lettere dalle Solovki, 13.2.1937, in SCT, IV, p. 665; tr. it. “Non dimenticatemi”, Milano 2000, pp. 374-375). La “grandezza”, alla quale si riferisce il filosofo russo, non è altro che l’esperienza stessa della santità, che implica il dono nell’amore “fino alla fine”. Alla notizia della sua morte il teologo Sergej Bulgakov ricordando l'amico affermava: «Di tutti i contemporanei che ho avuto la ventura di conoscere nel corso della mia lunga vita, egli è il più grande. E tanto più grande il delitto di chi ha levato la mano su di lui, di chi lo ha condannato ad una pena peggiore della morte, a un lungo e tormentoso esilio, a una lenta agonia […]. Padre Pavel per me non era solo un fenomeno di genialità, ma anche un’opera d’arte […]. L’attuale opera di padre Pavel non sono più i libri da lui scritti, le sue idee e parole, ma egli stesso, la sua vita» (Bulgakov, 1971, p. 128). 

IV. La “Weltanschauung integrale”

In Florenskij la vita e l’opera, malgrado siano rimaste tragicamente incompiute, costituiscono un’unità indissolubile, un unico tessuto d’incomparabile finezza, che, come egli stesso ebbe a dire, fa pensare piuttosto a una trama o a un merletto dove i fili si annodano in motivi complessi e diversi. Questa metafora della tessitura esprime adeguatamente il senso dell’interazione e della connessione vitale sussistente tra l’intensità teoretica del suo pensiero, il rigore speculativo e l’integrità spirituale dell’esistenza. Nella filosofia di padre Florenskij, vita e pensiero, fede e ragione, religione e cultura, parola e azione, sentire e comprendere, analisi e intuizione, invenzione scientifica e creazione artistica, costituiscono un’unica indissolubile realtà, un’unica totalità organica animata da un ininterrotto palpitare di nessi. A differenza di molti altri pensatori russi di questo secolo che hanno pervicacemente insistito sull’irriducibile differenza tra ragione e fede, filosofia e teologia, logica e mistica, in lui di fatto «si sono incontrate e, a suo modo unite, la cultura e la Chiesa, Atene e Gerusalemme» (S. Bulgakov), e una tale unione costituisce in sé un fatto di assoluta rilevanza storica ed ecclesiale. Come si desume da un attento confronto con la sua opera, e come egli stesso ha precisato, Florenskij concepisce il compito della sua vita come l'apertura di nuove vie per una futura globale visione del mondo, ed in tal senso lo si può definire filosofo. Tuttavia alla tendenza contemporanea verso la costruzione astratta ed esaustiva dei problemi, egli contrappone visioni globali sempre comunque collegate all'analisi concreta delle singole questioni. Conseguentemente, «la concezione del mondo da lui elaborata si delinea per contrappunto a partire da alcuni temi tenuti saldamente insieme da una peculiare dialettica, anche se non si presta ad un compendio sistematico. La sua struttura ha carattere organico, non logico, e le singole formulazioni non possono essere separate dal materiale concreto» (Avtoreferat, SCT, I, p. 38). Questa concezione filosofico-scientifica del mondo, conforme ai criteri stilistici del medioevo russo (organicità, oggettività, concretezza, autoreferenzialità), presuppone una riconsiderazione del secondo principio della termodinamica, la legge dell'entropia come legge fondamentale del mondo; essa viene elaborata «in gran parte sul terreno della matematica ed è compenetrata dai suoi princìpi, sebbene non ne utilizzi il linguaggio. Per questa ragione Florenskij ritiene che l'essenziale per la conoscenza del mondo sia la logicità come rapporto funzionale inteso, tuttavia, nell'accezione della teoria delle funzioni e dell'aritmologia» (ibidem, p. 41). Florenskij può essere considerato in Russia il pioniere di un nuovo orientamento di pensiero che rinsalda un fecondo e creativo rapporto tra filosofia e teologia, attingendo non soltanto dalla ricca tradizione spirituale ortodossa, ma anche dai profondi rivolgimenti in atto nel pensiero scientifico contemporaneo. Ed è proprio sulla base di questa rinnovata esigenza teoretica tesa a rintracciare i legami vitali sussistenti tra ragione logico-scientifica e razionalità, tra ragione e fede, tra cultura e Vangelo, esperienza e rivelazione, che scaturisce un diverso atteggiamento nei confronti della religione. Certo, ripercorrendo l’itinerario del pensatore russo, lungo questi arditi sentieri speculativi egli spesso ci appare come un vero e proprio cavaliere solitario, che nell’epoca della “frammentazione” e dell’atomizzazione analitica della cultura ha avuto il coraggio della “sintesi”, e con vigore e rigore teoretico ha rilanciato la sua sfida per una visione unitaria della conoscenza. Un’insonne e inattuale ricerca dell’unità e dell’interezza che a partire da un ripensamento patristico dell’antropologia cristiana, giunge a delineare un vero e proprio progetto di gnoseologia trinitaria, nelle sue implicazioni ontologiche ed etiche.Nonostante l’apparente sincretismo formale e il “pensiero nomade” che oltrepassa i confini tra culture, lingue ed epoche, tutto in Florenskij è orientato verso l’unità sostanziale, l’«unisostanzialità». Tutto è teso a dar forma ad una “Weltanschauung integrale” (medievale, ecclesiale, trinitaria), che si profila come risposta a una cultura sempre più priva di un centro, nel tentativo estremo di arginare la crescita del deserto nichilista e del soggettivismo moderno. Una visione unitaria della conoscenza che funge da antidoto alla “malattia mortale del secolo”, che si manifesta nelle diverse forme di specialismo, con la frammentarietà dell’esistenza e della cultura. Florenskij riconduce questa sua inclinazione interiore alla comprensione “misterica” della natura e del mondo, ad un'esperienza di pensiero vicina in qualche modo ad una sorta di “idealismo platonico” che egli definisce provocatoriamente «idealismo magico», inteso come sguardo unitario sulla realtà che tiene insieme i nessi vitali invisibili sussistenti tra le singole particelle del creato. Questa ricerca dell'unità conoscitiva giunge ad una sua prima autocoscienza teoretica mediante una più attenta reinterpretazione dell'idealismo platonico e del legame indissolubile esistente tra idealismo e realismo. Sia in Le radici dell'idealismo comuni a tutta l'umanità (Obsceceloveceskie korni idealizma, 1909), che nell'opera Il significato dell'idealismo (Smysl idealizma, 1914), le “idee” platoniche (colte nella loro correlazione con le “forme” aristoteliche) sono per la ragione «tanto uno strumento di conoscenza di ciò che esiste veramente, quanto la realtà conoscibile», e divengono, unitamente ai “nomi”, le cifre per la comprensione della realtà che ci accompagnano verso la contemplazione della profondità enigmatica del mondo, fino a scorgere «l'unità del finito e dell'infinito», l'unità integrale della conoscenza e la sua interiore bellezza. La filosofia per padre Florenskij va intesa come traduzione di esperienze di realtà in esperienze di significato; una lotta incessante per il significato, che si gioca sullo sfondo della concreta esperienza religiosa vivente o esistenziale, e coinvolge tutto l’essere verso la ricerca di una conoscenza integrale. La filosofia deve poter riattingere alla sua fonte viva, risalire alla radice vivente o vissuta della conoscenza, dalla quale è stata separata. Per il filosofo russo, la filosofia non è mai ornamento esteriore della vita, ma interiore bellezza, autentico richiamo alla persuasione, che fiorisce dall’intelligenza dell’amore, dall’incontro sempre nuovo e sorprendente tra esistenza e “metafisica concreta”, nella quale — come egli sottolinea — «tutto è significato incarnato e visibilità intelligibile» (Porte regali, p. 174). Tutto è saldamente radicato nell’esperienza religiosa viva, come criterio di comprensione del revelatum e della tradizione dogmatica ecclesiale. Si tratta di una «Filosofia della religione» (religioznaja filosofija) intesa come ermeneutica della rivelazione, incentrata sul legame Parola-Tradizione, nella quale confluiscono l'ardimento teoretico della ragione e la più acuta tensione ascetica, il rigore dell'interpretazione e lo stupore della contemplazione. 

V. Critica del razionalismo e nuovo modello di ragione

Rinsaldando giovani legami con il pensiero slavofilo e recuperando la vigorosa creazione speculativa di Vl. Solov'ëv (a partire da La crisi della filosofia occidentale, Krisis zapadnoj filosofii, 1874) e la penetrante riflessione dell'amico Vl. Ern, autore dell'importante opera filosofica La lotta per il Logos (Bor'ba za Logos), Florenskij si preoccupa di sorreggere tali intuizioni del pensiero orientale con una struttura epistemologica rigorosa che si apre ad un costruttivo confronto, anche se problematico e dialettico, con il pensiero occidentale. La sua convinzione è che la filosofia non può rinunciare ad essere esercizio della  ragione, ma di quale ragione? Non la ragione astratta del vuoto schematismo concettuale, ma una ragione che assume in sé la vita, che instaura un legame vitale con l'essere, poiché come egli afferma: «Se la ragione non partecipa dell’essere, neanche l’essere partecipa della ragione» (La colonna e il fondamento della verità [= CFV], p. 114). Occorre cioè considerare la ragione umana nella sua forza reale, nella sua attività, mostrando come la ragione partecipi dell’essere e l’essere della razionalità. L’intero percorso filosofico di padre Pavel è nella sostanza una messa in questione radicale di ogni astratta speculazione, di ogni concettualismo o razionalismo, come pure di ogni forma di scienza moderna centrata sul modello descrittivo della realtà, piuttosto che sulla comprensione del suo significato. In definitiva, osserva Florenskij, «ci sono solo due esperienze del mondo: l’esperienza umana in senso lato e l’esperienza “scientifica”, cioè “kantiana”, come ci sono due tipi di rapporto con la vita: quello “interiore” e quello “esteriore”, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica» (La prospettiva rovesciata e altri scritti, p. 92). Il pensatore russo intrattiene con la gnoseologia kantiana un serrato confronto teoretico, del quale danno compiuta testimonianza molti scritti, in particolare Antinomie cosmologiche di I. Kant (Kosmologiceskije antinomii I. Kanta, 1909) e soprattutto I limiti della gnoseologia. L'antinomia fondamentale della teoria della conoscenza (Predely gnoseologii. Osnovanja antinomija teorii znanija, 1913, in SCT, vol. II), tuttavia ritiene che questo sistema speculativo possa essere considerato come il modello di una frantumazione dell'unità reale, di un “dualismo metafisico” che porta alla scissione irreparabile tra trascendente e immanente, intellegibile ed empirico. Il rischio incombente è sempre quello di una deriva verso la percezione intenzionale del soggetto, verso nuove forme di soggettivismo o di vero e proprio immanentismo della ragione, che rivendica una sua  autonomia nei confronti della verità oggettiva, a partire dalle proprie necessità teoriche e pratiche. Avendo intravisto da tempo nella storia del pensiero l’inconciliabile ostilità tra questi due modelli gnoseologici che riflettono l'originaria contrapposizione tra «terminismo» (nominalismo) e «realismo» (idealismo), Florenskij avverte la profonda esigenza di dar forma a un “nuovo pensare”, che si lasci attraversare in ogni sua fibra dalla «verità vivente», categoria filosofica introdotta dagli slavofili e che Florenskij fa propria richiamando il significato ontologico originario del termine russo Istina (Verità), forma sostantivata del verbo essere (est), derivante dalla radice es e dal sanscrito as, che nella sua fase più antica significava «respirare». Nel suo capolavoro filosofico-teologico La colonna e il fondamento della Verità (1914), raro esempio nella filosofia del '900 di fecondo e creativo confronto tra ragione e fede, filosofia e ontologia trinitaria, un compiuto trattato spirituale ed ascetico, Florenskij delinea un'esemplare ricerca della verità colta nel suo valore ontologico e salvifico. In particolare nei primi capitoli («lettere») dell'opera, dapprima persegue una ricerca disperata della  verità, attraverso la messa in atto di una ragione esigente, un rigoroso percorso delle forme logiche e gnoseologiche della ragione (intuitiva e discorsiva) e del loro diverso grado di attendibilità dimostrativa, conducendole fino alle loro estreme possibilità, tanto da percepire (sulla scorta dell'ultimo Schelling) l'«abisso della ragione» e far precipitare la coscienza nel più tormentato inferno scettico. Quindi mostra successivamente come nessuna legge d'identità e principio di ragion sufficiente possono corrispondere alla legge universale dell'essere, poiché questa si disvela soltanto «nel volto interiore della profondità della vita inaccessibile al raziocinio» (CFV, p. 82). La legge d'identità (zakon tojdéstva) dell'A=A nella sua cieca e nuda tautologia per Florenskij è in definitiva un'equazione senza vita, «uno spirito di morte, di vuoto, di annientamento», e, trasformandosi nello schema vuoto dell'autoaffermazione dell'Io=Io, diventa null'altro che «l'urlo dell'egoismo messo a nudo» (CFV, p. 63). La verità (Istina) non può essere determinata soltanto da criteri logico-formali, ma per essere tale deve poter assumere e contenere in sé la pienezza della vita, anche nella sua autocontraddittorietà. Indagando con acutezza le aporie del razionalismo moderno, Florenskij mette in atto una delle critiche più sferzanti al soggettivismo assolutistico dell'Io, al cogito cartesiano, deposto dalla sua olimpica serenità di chiarezza e distinzione, per immergerlo nella tormentata avventura dell'esistenza. Il passaggio decisivo è quindi da una “posizione tetica” di vuota “certezza” formale di una verità senza vita ad una “verità antinomica”, che, proprio perché tale, contiene in sé la vita nella sua incontenibile e indefinibile pienezza. Si esce in tal modo dal sistema dei concetti rassicuranti del quieto possesso della ragione logica per andare alla ricerca di un significato esistenziale più autentico e reale di essa; per Florenskij infatti «conoscere» implica sempre «vedere una cosa nel suo significato, nella ragione della sua esistenza», ove il criterio razionale indica una direzione e mai è confuso con il fine. Comprensione della realtà ed esercizio della ragione, senza mai recidere il legame con la vita, con la radice vivente della conoscenza, richiamando alla necessità di «uscire dal piano dei concetti per entrare nella sfera dell'esperienza viva» (CFV, p. 101), l'unica in grado di offrirci un metodo legittimo per conoscere i dogmi.Il principio d'identità passa in tal modo dal suo livello inferiore, razionalistico, a quello superiore, razionale, che trova il suo fondamento nella scoperta del Tu. La relazione dell'Io con il Tu dell'altro, al cospetto di un Terzo, è l'inizio di una nuova logica incentrata su una razionalità relazionale, una relazione-sostanza di tre persone. La condizione di possibilità ultima per questa svolta della ragione, alla quale si chiede di «rinunciare alla propria limitazione entro i confini del raziocinio e rivolgersi alla norma nuova, diventare una ragione “nuova”», esige un atto libero ed ascetico di rinuncia a se stessi, la percezione dell'eroismo della fede. Per Florenskij l'ammissione di questo “fondamento trans-logico” della ragione, oltre le norme del raziocinio, è la croce, che agli occhi del raziocinio è sempre stupido rifiuto di se stessi. Non fuga nell'irrazionalismo e neppure fede razionale «che è infamia e fetore davanti a Dio», ma apertura della ragione all'accoglimento della fede quale fiducioso atto d'amore, abbandono e rinuncia a se stessi: «La fede che ci salva è il principio e la fine della croce e della concrocefissione al Cristo» (CFV, p. 102). Considerata l’impossibilità logica della ragione di poter “catturare” e contenere una verità che sia espressione di tutta la pienezza della vita, nella sua antinomicità, egli può giungere ad affermare nella più perfetta persuasione che dalla ragione logica apre a quella mistica: «Non sono l’intuizione e la discorsività a dare la conoscenza della verità: essa nasce nell’anima per una rivelazione libera della stessa verità triipostatica, per una graziosa visita fatta all’anima dallo Spirito Santo» (CFV, p. 137). L'apertura e il radicamento alla “fede viva” diviene il principio di uno stadio nuovo del filosofare, che implica la rinuncia di ogni autoaffermazione (Io=Io), comunicandosi alla verità. Al centro della ricerca filosofica non sta più l'Io, ma l'«opera della verità», che «raccoglie i frammenti e congiunge i contrari», la verità del dogma, che se per il raziocinio è soltanto formale, per l'anima piena di grazia si ricolma di senso vitale. E se per il raziocinio il dogma è soltanto norma regolativa, «per la ragione purificata dalla grazia, che accoglie la rivelazione, è verità intuitivamente immediata» (CFV, p. 207).  

VI. La filosofia dell'omousia

Tracciando un profilo autobiografico, il pensatore russo afferma di se stesso: «Negando ogni forma di logicità puramente astratta, Florenskij coglie il valore del pensiero nel suo concreto manifestarsi, come rivelazione della persona» (Avtoreferat, SCT, I, p. 41), ove è evidente il richiamo agostiniano al valore dell'interiorità e al concetto di persona ad essa connesso (  AGOSTINO DI IPPONA). Occorre infatti ricordare che proprio l’attenta considerazione del primato della persona (che il volto dell'icona e la spiritualità del cuore richiamano nella loro concretezza, contro qualsiasi tentativo di astrazione dei concetti e di cieca reificazione degli enti) costituisce certamente uno dei tratti filosoficamente più rilevanti del pensiero religioso russo del primo Novecento. L'importanza di tale aspetto è acutamente richiamata in diversi passaggi del suo capolavoro, a partire dalla contrapposizione tra la “cosa”, caratterizzata dall'unità esteriore (cioè dalla somma delle sue caratteristiche), e la “persona”, che si qualifica per la sua unità interiore. Ora se il razionalismo, vale a dire la filosofia del concetto e del raziocinio, «è la filosofia della cosa e dell'immobilismo senza vita; totalmente legato alla legge dell'identità» (CFV, p. 121), al contrario la filosofia cristiana di derivazione patristica, cioè la filosofia dell'idea e della ragione, la “filosofia della persona” e dell'ascetismo creativo, «si basa sulla possibilità di superare la legge dell'identità» (ibidem). Se la prima può essere definita come filosofia dell'omoiusia (o della semplice somiglianza), una filosofia reificata nella quale l'amore è uno stato psicologico, la seconda appare come filosofia dell'omousìa (o della identità consustanziale), nella quale l'amore è piuttosto atto ontologico riferito alla persona.Ne La colonna e il fondamento della verità, con una certa provocatorietà, ma anche con inaudito vigore teoretico, Florenskij recupera il termine teologico dei Padri niceni: homoousía («unisostanzialità», edinosuscnost), ricollocandolo al centro del pensiero filosofico, ed esso nuovamente appare come “coraggioso colpo d’ala”, come leva che scardina la vuota logica razionalista, mostrando la forza dirompente della “unità nella diversità”, una “unità concreta” (e non solo nominale e formale) delle tre Persone divine e al contempo la “sostanza personale” di ogni singola ipostasi. Da qui occorre ripartire per ritrovare il “principio nuovo” della ragione, nella sua infinita significatività sia filosofica che dogmatica, che apre alla possibilità di pensare nell’unità la molteplicità e persino le antinomie che compongono la verità dogmatica. L’antinomia è una delle categorie fondamentali del pensiero florenskijano, essa nasce dalla persuasione che la verità dogmatica si presenti in maniera pugnace, sia sempre il frutto di una tensione tra opposti, coincidentia oppositorum, per richiamare la formula di Nicola Cusano (1401-1464), che ammette simultaneamente la presenza di due asserzioni le quali appaiono logicamente incompatibili, ma ontologicamente necessarie (  CUSANO, II-III). Florenskij considera l’antinomia l’essenza stessa delle esperienze vitali, e anche il tessuto dell’esperienza religiosa e dogmatica, un vero e proprio “mistero di preghiera e di amore”, giungendo persino a ritenere che dove non c’è antinomia non ci possa essere neppure fede, e che essa scomparirà solo quando la fede e la speranza verranno meno e rimarrà soltanto l’amore (1Cor 13,1-13). Per questo si può affermare che l’atto del conoscere non è solo gnoseologico ma anche ontologico, non solo ideale ma anche reale. La vera conoscenza è la conoscenza essenziale della verità che avviene attraverso la partecipazione ontologica alla verità stessa; ciò implica, secondo Florenskij, l’accoglimento dell’amore quale sostanza divina, come un «entrare nelle viscere della Divina Unitrinità». La conoscenza non è un percorso puramente intellettualistico, «non è vorace possesso di un oggetto morto da parte di un soggetto gnoseologico predace, ma invece una comunione morale di persone ognuna delle quali è per ciascun altra oggetto e soggetto» (CFV, pp. 114-115 ). Un atto che coinvolge la persona nella sua interezza, implicando, in ultima analisi, da un lato la sua divinizzazione, dall’altro un’autentica partecipazione alla vita di Dio-Amore-Trinità, una comunione sostanziale di persone, una trinitizzazione. Attraverso l’esperienza dell’amore, si esce dall’empirico per entrare nel Regno della Verità triipostatica. L’intera filosofia florenskijana dell’omousìa è dischiudimento della vera Sapienza, nata dall’Amore trinitario nel suo incontro con l’esistenza umana, generando nella creatura il desiderio insopprimibile di riscoperta del suo cuore cherubico che risplende di quella Luce di Verità e Bellezza. Florenskij è tra i pochissimi pensatori cristiani del Novecento che sia riuscito in questa delicatissima impresa di assumere l'esperienza teorica e pratica dell'amore come cardine di un nuovo pensare, evitando il rischio incombente delle costruzioni edificanti o delle fughe spiritualiste. La filosofia della religione di padre Pavel ha infatti la sua chiave ermeneutica nell'amore quale fulcro dell'esperienza rivelativa e della conoscenza; un'intellezione d'amore che restituisce alla filosofia la sua originaria vocazione sapienziale, instaurando un giovane legame con il mistero fontale dell'amore trinitario. Nel pensiero florenskijano la conoscenza logica e simbolica, l’antinomia della verità dogmatica, l'epistemologia del simbolo, del confine e della relazione vitale tra i “due mondi”, la filosofia della religione come ermeneutica della rivelazione, l'insieme di queste prospettive teoretiche e spirituali hanno la loro ricapitolazione nella «filosofia dell’omousìa» che sgorga dall’ontologia dell'amore trinitario, dall’unisostanzialità trinitaria.  

VII. La Welthanschauung scientifica

Sulla base di questi orientamenti di pensiero, come ricercare la peculiarità della concezione scientifica proposta da Pavel Florenskij? Considerata la vastità e la complessità dei suoi scritti di filosofia della scienza, non è semplice rintracciare una sintesi esaustiva delle ricerche compiute, poiché molteplici sono gli elementi che concorrono alla sua determinazione: dal principio di discontinuità alle funzioni variabili, dalla teoria dei numeri e dei quanti alla teoria della spazialità, dalle questioni teoriche di geometria non euclidea agli “immaginari” in geometria e alla quarta dimensione, dalla monadologia all’insiemistica, fino alle questioni più specialistiche di elettrotecnica, di chimica organica e di  cosmologia riguardanti la biosfera e noosfera, in un fecondo confronto creativo con l'amico Vladimir Vernadsky, uno dei fondatori della moderna geochimica. Ognuno di questi itinerari di ricerca scientifica, intrapresi dal pensatore russo con acutezza speculativa, rigore teoretico e originalità argomentativa, meriterebbe un’attenta valutazione interpretativa. Qui possiamo soffermarci brevemente solo su alcuni tratti teorici comuni a queste diverse forme del pensiero filosofico-scientifico, quindi dopo qualche cenno sulla percezione del mistero, tenteremo di mettere in luce il fondamentale rapporto sussistente tra antinomia, discontinuità e unità simbolica.Innanzitutto riteniamo indispensabile sottolineare l'approccio originario che Florenskij adotta nei confronti dei fenomeni della natura, caratterizzato, già dall'infanzia, non tanto dalla conformità alle leggi prestabilite, quanto piuttosto dalla percezione interiore di una particolare presenza del  mistero in ogni realtà naturale, sia pure la più misera e modesta. Una «Weltanschauung fiabesca» (cfr. Detjam moim [Ai miei figli], Moskva 1992, pp. 62ss), nella quale l'attenzione al fenomeno particolare non perde mai di vista la visione d'insieme, in un'interrogazione rivolta non tanto al “come”, ma sempre al “perché”, al significato ultimo di tale fenomeno. Sotto la “maschera” del visibile si cela sempre una realtà misterica invisibile, «nel profondo della realtà fisica giace il mistero, il quale si copre per metà con ciò che è fisico, pur non essendo affatto fisico. L'aspetto fisico non solo non sopprime i misteri, ma esso stesso, in un istante, può essere completamente soppresso dal mistero» (Detjam moim, p. 175). Dalla percezione del mistero e dall’interrogazione che questo suscita interiormente, ha origine ogni autentico atteggiamento scientifico verso la realtà conoscibile, e di questo Florenskij resta fermamente convinto fino agli ultimi anni di vita, quando scrive alla moglie dal lager delle Solovki: «Colgo l'occasione per dire a te e ai bambini che tutte le idee scientifiche che mi stanno a cuore, scaturiscono dal mio sentimento per il mistero […]. Tutto ciò che mi viene suggerito da questo, rimane vivo nel mio pensiero e diventa, prima o poi, oggetto di uno sforzo scientifico» (24.3.1936, tr. it. “Non dimenticatemi”, p. 261). Il mistero della natura è per Florenskij un sentimento insondabile, eppure sempre sincero, attraverso il quale accedere alle forme di “cristallizzazione del pensiero”. Nell'osservazione e nella contemplazione dei minimi dettagli dei fenomeni della natura egli scopre una profonda sintonia metodologica con Goethe (1749-1832) e Faraday (1791-1867), autori che diventano gli interlocutori privilegiati della sua ricerca scientifica. Dal confronto con il mistero e con lo stupore da esso suscitato, egli avverte il vertiginoso senso dell’infinità e della trascendenza nascosto nelle cose più ovvie e ordinarie, cogliendo l'invisibile “interrelazione sostanziale” che unisce l’uomo alla natura e al mondo. Si tratta di una “interrelazione” che abbraccia ambiti diversi (gnoseologico, biologico, economico, metafisico, religioso), mostrando sempre più chiaramente come: «L’uomo è parte del mondo, ma allo stesso tempo l’uomo è complesso quanto lo è il mondo. Il mondo è parte dell’uomo, ma anche il mondo è complesso quanto lo è l’uomo» (Microcosmo e macrocosmo, in SCT, III, pp. 440-441).La sua opera si dirama nelle diverse prospettive di ricerca in forme non sempre sistematiche e comunque lontana dal “sistema”, si compone di numerosi scritti che potremmo definire di filosofia della scienza e che abbracciano l'intero arco temporale della sua riflessione. Sono scritti nei quali si moltiplicano i riferimenti ai più recenti sviluppi della matematica e della fisica — alla teoria delle funzioni e della  relatività, come pure alla meccanica quantistica — e dai quali affiora una diversa considerazione scientifica della fisica teorica, della  chimica e della  matematica, considerate come linguaggi simbolici che impongono un rapido superamento di ogni visione meccanicistica e materialistica del mondo. Non si trattava quindi di un semplice aggiornamento delle scienze classiche o di adeguamento alle nuove scoperte empiriche, ma di un vero e proprio rivolgimento della comprensione della realtà, anche dal punto di vista metodologico, nel quale la filosofia diviene il paradigma di una nuova interpretazione del mondo, oltre l’orizzonte della metafisica tradizionale. Egli infatti si rende perfettamente conto della portata rivoluzionaria in atto nel pensiero scientifico, e a suo modo, intende offrire un proprio contributo. Spesso si tratta di apporti specifici su questioni particolari, e tuttavia connessi da fili non sempre visibili, ad un quadro d'insieme nel quale è tracciato un diverso orientamento del pensiero verso una nuova metafisica. Di qui il richiamo impellente ad un rinnovamento metodologico profondo nella ricerca, che non si può più disperdere in analisi astratte, ma è chiamata con forza ad aderire alla concretezza del reale: «Lo spirito della fisica moderna, la continua astrazione di ogni fenomeno concreto, il fatto di rimpiazzare la forma fisica con formule analitiche mi è del tutto estraneo… Io vivo interamente attraverso un sentire e comprendere il mondo in senso goethiano-faradayano […]. La fisica del futuro deve intraprendere altre vie, si deve accostare alla forma concreta» (“Non dimenticatemi”, p. 284). In queste righe inviate alla madre dal lager delle isole Solovki, Florenskij rivela con estrema chiarezza quale sia la sua concezione della scienza a partire dalla più profonda adesione all'esperienza e alle forme concrete, giungendo tra l'altro a questa convinzione: «No, neppure a Mosca potrei partecipare agli attuali lavori di ricerca sulla fisica, ma mi occuperei piuttosto della fisica del cosmo, dei princìpi di base della struttura della materia, così come è data dall'esperienza immediata e non come la si elabora in modo astratto da premesse formali. Avvicinarsi di più alla realtà, alla vita del mondo, questo è il mio orientamento» (ibidem). Forse la chiave di volta per entrare in questo complesso e variegato orizzonte speculativo potrebbe essere individuata in una lettera dal lager, scritta al figlio Kirill il 21 febbraio del 1937, nella quale Florenskij, abbozzando un bilancio della sua esistenza, ormai prossima alla tragica fine, afferma: «Volevo scriverti dei miei lavori, o più precisamente, del loro senso, della loro sostanza interiore, affinché tu potessi continuare a portare avanti quel pensiero che a me la sorte non permette più di elaborare e di condurre al suo fine […]. Che cosa ho fatto per tutta la vita? Ho contemplato il mondo come un insieme (celoe), come un quadro e una realtà compatta, ma ad ogni tappa della mia vita da un determinato punto di vista […]. Le sue angolature mutano, l’una arricchendo l’altra; è qui la ragione della continua dialettica del pensiero assieme al costante orientamento di guardare il mondo come un unico insieme» (“Non dimenticatemi”, p. 385). L'orizzonte di “metafisica concreta” delineato da Florenskij si regge sulla coesistenza di due inscindibili istanze, solo in apparenza contraddittorie: da un lato il riconoscimento della natura dialettica del pensiero, della differenza, della discontinuità, dell'antinomia, che lacera ogni realtà vivente e attraverso queste fenditure lascia percepire l'“opera” della Verità, che “comprende” in sé il dramma della sua “consegna”, della sua croce; dall'altro lato l'insopprimibile tensione verso l'unità dell'insieme, una visione unitaria e integrale della conoscenza e dell'esistenza come meta. Non si tratta tuttavia di una contraddizione interna del pensiero, in balia tra queste due opposte tendenze, ma della consapevolezza teoretica e pratica che all'unità, come alla verità, si giunga lungo un faticoso cammino ascetico, passando attraverso i contrari, fino a congiungerli insieme, nella distinzione e senza confusione: «La formula del Simbolo Perfetto (Uno e Trino), “separato e inseparabile”, si estende anche a qualsiasi simbolo relativo: a qualsiasi opera d'arte» (Lo spazio e il tempo nell'arte, Milano 1995, p. 98). Per Florenskij al di fuori di questa formula del simbolo trinitario non è concepibile non soltanto l'arte, ma ogni autentica esperienza conoscitiva, compresa quella scientifica. Il simbolo in generale e il simbolo trinitario in particolare, è l'oggetto dell'inesauribile ricerca filosofica di padre Florenskij, il problema cruciale di tutta la sua vita, che lo sollecita a pensare ininterrottamente «al legame tra fenomeno e noumeno, alla presenza visibile del fenomeno nel noumeno, alla sua manifestazione e alla sua incarnazione» (Detjam moim, p. 153). 

VIII. Discontinuità e teoria del simbolo

L’argomentazione florenskijana mostra come accanto all’oggettività incondizionata riguardante la verità, vi sia l’esigenza di una completezza, che rinunci all’univocità (  ANALOGIA) e che affronti i problemi che insorgono quando si intende correlare l’intuizione con la consequenzialità dei sistemi di pensiero formalizzati, “l’infinità attuale” con quella puramente potenziale (  INFINITO). In questa prospettiva, egli sembra anticipare alcune posizioni innovative della contemporanea teoria matematica, in particolare quelle di Kurt Gödel (1906-1978), per il quale nessun sistema assiomatico di qualsiasi tipo può riprodurre tutte le verità della teoria numerica, eccetto quando esso è contraddittorio in se stesso. Giunto di fronte a questo punto critico della sua elaborazione scientifica, Floren