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La mappa dei luoghi più remoti: ha ancora senso parlare di viaggio?

di Andrea Boretti - 29/04/2009

Il 90 % del pianeta è a soli due giorni di distanza (via terra!) da un centro abitato. Lo dimostra una ricerca del Joint Research Center secondo la quale non esistono praticamente quasi più luoghi irraggiungibili. Il viaggio, quindi, perde sempre più il suo antico significato, diventando un semplice spostamento da un luogo ad un altro.


 

Cartina dei luoghi remoti
Nelle sfumature dal giallo pallido al rosso intenso la cartina ci mostra il grado di inaccessibilità delle diverse zone del pianeta
Ci vollero quasi undici mesi perché Vasco da Gama, primo europeo nella storia, arrivasse via mare da Lisbona a Calicut, in India, mentre il suo connazionale Magellano ci avrebbe messo ben 2 anni, 11 mesi e 17 giorni a circumnavigare il globo e il nostro Cristoforo Colombo, spinto dagli Alisei, “solo” poco più di due mesi per coprire la distanza che divide il “vecchio mondo” da quello “nuovo”.

 

Da sempre la storia è attraversata da esploratori: uomini spinti da un sogno, da un’idea, da un’intuizione che li porta a rischiare tutto, anche la vita, nella convinzione che ci sia ancora molto da scoprire nel mondo, non importa quanto tempo ci voglia. Uomini forse più interessati al viaggio in sé che alla destinazione da raggiungere.

Era così fino a qualche tempo fa, quando ci volevano mesi per raggiungere le Indie, mesi per scoprire l’America, anni per circumnavigare il globo! Oggi la storia è cambiata e l’imperfetto con cui parliamo di questi tempi di percorrenza è d’obbligo perché, come spiega una ricerca del Joint Research Center dell’Unione Europea, ormai il 90% delle aree del mondo è raggiungibile via terra in meno di 48 ore.

La ricerca di questo centro europeo sì è concretizzata in una serie di cartine geografiche che danno un’idea di quanto siano remoti i diversi luoghi del pianeta secondo un modello che esamina quanto tempo ci vuole a raggiungere, via mare o via terra, la città più vicina con 50000 o più abitanti.

Osservando la cartina che nelle sfumature dal giallo pallido al rosso intenso ci mostra proprio il grado di inaccessibilità delle diverse zone del pianeta è immediatamente evidente quanto poche siano le zone della terra che ancora si possono considerare veramente remote. Tra queste, la più remota in assoluto non ha neanche un nome ed è solo una serie di coordinate (34.7°N, 85.7°E). Questo luogo, ormai unico al mondo, si trova sull’altopiano del Tibet e per raggiungerlo ci vogliono 3 settimane; in particolare un giorno di macchina e 20 a piedi su sentieri di montagna ad un’altitudine di circa 5200 metri. Non proprio un’escursione per turisti.

 


Amazzonia(c) WWF - Michel ROGGOmedia
Ma non è tutto. Anche il mito di luoghi normalmente considerati inaccessibili o difficili da raggiungere oggi viene sfatato. L’esempio che riporta il NewScientist, la rivista che per prima ha pubblicato la ricerca del Joint Research Center, è quello dell’Amazzonia, una zona in cui lo svilupparsi della rete fluviale e l’incremento del numero di strade ha fatto sì che solo il 20% del territorio sia a più di due giorni di strada da una città; una percentuale molto simile a quella del ben più moderno Quebec in Canada.

 

Continuando ad osservare la mappa si nota come alcuni dei luoghi più inaccessibili si trovino proprio sull’Himalaya, in Groenlandia e al centro del deserto del Sahara, mentre guardando la nostra piccola Italia niente sembra essere a più di 2 ore dalla città.

Alan Belward che guida il progetto spiega come il suo scopo principale sia quello di mostrare attraverso le mappe come la distribuzione delle persone influenzi la loro possibilità di accesso a risorse quali l’assistenza medica e allo stesso tempo come la natura, pura ed incontaminata, sia sempre più velocemente marginalizzata e costretta in pochi angoli del nostro pianeta.

Tutto ciò ci spinge ad una riflessione.

Da un lato è chiaro come la capacità di spostarsi e di raggiungere anche luoghi un tempo inaccessibili sia una necessità dell’uomo sia in termini di spazio (a breve saremo 7 miliardi di individui) sia in termini di comunicazione e commercio; dall’altro c’è da chiedersi se tutto questo muoversi a velocità un tempo impensate non ci abbia fatto perdere quello che è il vero valore del viaggio. Che fine ha fatto il viaggio come scoperta? E il viaggio come prova ultima dell’uomo che si confronta con la natura e con se stesso? Potremo mai più provare quello che provò Cristoforo Colombo quando udì la vedetta gridare “Terra, terra!!!” dopo mesi di viaggio in mare o lo stupore che invase Marco Polo all’arrivo a Bejing dopo l’interminabile camminare lungo la via della seta?

 


Nel nostro continuo progredire, siamo ora in grado di raggiungere il cuore dell’Amazzonia in poco meno di due giorni, ma tutto ciò è vero progresso o il tempo che risparmiamo in questo viaggio è in realtà non un vantaggio ma un prezzo che paghiamo in termini di emozioni non vissute, di tramonti sul Rio non goduti, di ostacoli non superati per i quali mai ci potremo sentire orgogliosi dello sforzo fatto?

 

E mentre il nostro viaggio si accorcia sempre più per diventare solo una serie di destinazioni, una in fila all’altra, noi pieghiamo a questa nostra smania di velocità la natura, disegnando strade dove non ce ne erano e scavando gallerie nel cuore di montagne che una volta avremmo potuto scalare.

Arriverà il giorno in cui, per spostarsi da un posto ad un altro non si parlerà più di ore ma bensì di minuti; sarà il giorno in cui “viaggio” sarà ormai una parola inserita nella lista delle parole cadute in disuso proprio a seguito di un’altra: “natura”.