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Samarra, una città divisa dai muri, dalle confessioni religiose, dal rancore

di Sudarsan Raghavan - 02/05/2009



 
SAMARRA – E’ alto circa 4 metri e mezzo, lungo circa 800 metri , il muro che come un nastro di cemento attraversa il cuore di questa città, santa e ferita - la culla della guerra confessionale irachena. Pellegrini sciiti scorrono lungo il muro, verso la devastata moschea di al-Askari,  simbolo di un Iraq che torna alla vita. Membri sciiti della forze di sicurezza nazionali – e neanche un solo poliziotto locale sunnita – pattugliano la zona.

Dall’altra parte del muro, negozi con le saracinesche abbassate; vicoli svuotati dal silenzio. Porte rosse chiuse da lucchetti, costruite nella divisione, impediscono ai visitatori sciiti di mischiarsi con gli abitanti della città, in maggioranza sunniti. Qui, Mohammed al-Said, un negoziante sunnita, è furioso.

"Questo è un muro settario", dice. "Non si fidano di noi".

La distruzione della venerata moschea, avvenuta nel 2006 in questa città del centro dell'Iraq, viene considerata la scintilla della terribile violenza confessionale che ha attanagliato il Paese. Adesso, il governo iracheno mostra Samarra come prova che la pace è possibile, anche nelle zone più conflittuali.

Ma qui la calma è fragile, con gli sciiti in posizione dominante e i sunniti alienati che covano risentimento.

"Questi muri danno un'idea di come la morte ci stia aspettando", dice Mohammed Hussen, un leader sunnita del Consiglio locale. "La loro ambizione è quella di fare di Samarra una città sciita".

Mentre in Iraq questo mese saranno sei anni dalla caduta di Saddam Hussein, gli attacchi contro le zone sciite di Baghdad hanno evidenziato le tensioni che permangono tra le due principali confessioni religiose del Paese. In città come Samarra sono in corso nuove lotte per il controllo delle zone, e il consolidamento del potere e delle risorse, in vista del ritiro delle truppe statunitensi, in programma per questa estate. Queste situazioni oppongono le forze locali al governo centrale - a ricordare come l'Iraq rimanga un patchwork di tribù più fedeli alla confessione religiosa, all'appartenenza etnica e alla regione che a una identità nazionale, in un momento in cui il Paese, stanco di guerra, ha bisogno sopratutto di unità.

"La gente proprio non ci sopporta", dice Osama Hussein Ali, 20 anni, un membro sciita della polizia nazionale di Baghdad, in servizio vicino al santuario. "Qualsiasi cosa facciamo per la città, viene rifiutata. Sembra che vogliano tornare alla situazione precedente. Odiano i posti di blocco. Odiano l'ordine".

I comandi militari americani dicono che le forze di sicurezza irachene hanno fatto progressi nel contrastare il settarismo confessionale presente all' interno dei loro ranghi. Ma sono ancora preoccupati del fatto che molti poliziotti e soldati rimangono lacerati dall'appartenenza confessionale ed etnica, il che aumenta le possibilità di lotte interne e instabilità dopo che le truppe da combattimento Usa se ne saranno andate.

"Non sono al punto in cui chiunque di noi vorrebbe che fossero", dice il Generale David G. Perkins, portavoce ufficiale delle forze statunitensi in Iraq.

Una coesistenza precaria

Tre anni fa, una serie di bombe, piazzate in vari angoli del santuario, devastarono la cupola dorata della moschea Askari, costruita nel X° secolo e che ospita i resti di due importanti Imam sciiti. Le forze armate Usa e il governo iracheno chiusero praticamente la città in risposta alle ripetute brutalità fra sunniti e sciiti che avevano portato il Paese sull'orlo della guerra civile. Gente venuta da fuori, in grande maggioranza sciiti, vennero portati qui per ricostruire il santuario.

Oggi, la città dei minareti color avena situata a cavallo del fiume Tigri, si sente come una base militare, con le strade intricate da muri anti-esplosione e checkpoint.

Appoggiati dai soldati e dai consiglieri militari statunitensi, la polizia nazionale e l'esercito iracheni, composti in maggioranza da sciiti, controllano la città. Coesistono in modo precario con la polizia locale sunnita e con i "Figli dell'Iraq" - ex insorti che si sono ribellati al gruppo combattente di "al-Qaeda in Iraq", alleandosi con le forze armate statunitensi.

Né la polizia locale né i "Figli dell'Iraq" hanno il permesso di proteggere il santuario, che è presidiato da uno schieramento di unità in maggioranza sciite inviate dal governo centrale.

"Non credo che chiunque - persona o città - si sentirebbe a suo agio con la presenza di un esercito che viene da fuori. Le tradizioni delle loro zone sono diverse dalle nostre", dice lo sceicco Mudher al-Naisani, un leader tribale sunnita. "E' vero, questa è una sola nazione. Ma è meglio per l' Iraq che ognuno presti servizio nella propria regione".

Mentre la gran parte degli iracheni crede che a mettere le bombe siano stati gli insorti di "al-Qaeda in Iraq", molti leader sunniti di qui danno la responsabilità alla polizia nazionale e ai soldati statunitensi che erano di guardia al santuario. Membri della polizia nazionale irachena hanno commesso alcuni dei più orrendi crimini di natura confessionale dall'invasione guidata dagli Usa del 2003. Ancora oggi ci sono diffusi sospetti di infiltrazione da parte delle milizie sciite.

"E' stata una cospirazione", dice Hussen, il leader sunnita del Consiglio.

La lunga mano dell'Iran

Una mattina di poco tempo fa, l'ex presidente iraniano Ali Akbar Hashemi Rafsanjani è arrivato in visita al santuario, da Baghdad, che dista circa 125 km. E' venuto scortato da soldati sciiti e kurdi, mandati dal governo centrale.

Per molti residenti sunniti, è stato l'ultimo segno della crescente influenza della teocrazia sciita iraniana sul governo iracheno - e del punto in cui gli sciiti dominano la città.

"E' un insulto. Loro sono la ragione della rovina di questa città", diceva un negoziante sunnita. Mentre parlava, soldati sciiti e kurdi ordinavano alla gente di spostarsi dall'ingresso del santuario.

"Chi si credono di essere? Io sono nel mio Paese", diceva il negoziante prima di scomparire in un stretto vicolo solitario e fiancheggiato da muri.

Dall'altra parte, Rafsanjani camminava lungo il muro, seguito dal suo entourage. Sono entrati dentro il vasto cortile del santuario, circondato da muri ricoperti da piastrelle decorate gialle e blu. Oggi, gli angoli dove furono messe le bombe sono coperti da lastre di vetro - anche perché è ancora in corso un indagine. Una grande gru gialla sporge sopra la cupola, ora solo un’intelaiatura.

Alcuni metri più in là, il generale Rashid Flayeh, il comandante militare sciita di Samarra, mi dice di aver licenziato 385 poliziotti del corpo nazionale negli ultimi 18 mesi perché "avevano sentimenti settari". Ora, continua, 500 sunniti locali sono entrati nella polizia nazionale. Ha promesso che, alla fine, l'autorità passerà alla polizia locale. Tuttavia,  Flayeh riconosce che le tensioni confessionali persistono. Accusa alcuni leader sunniti di volere che le forze americane rimangano in città così da  beneficiare dei fondi Usa dati in cambio di informazioni di intelligence.

"Solo alcune persone stanno tentando di fomentare le tensioni confessionali tra sunniti e sciiti", dice Flayeh.

Una mancanza di fiducia

Non lontano dal santuario, alcuni leader dei "Figli dell'Iraq" e membri del Consiglio locale siedono in una piccola stanza nel loro quartier generale protetti da poliziotti locali.

Dicono che si aspettavano che gli abitanti di Samarra avessero un ruolo maggiore nella rinascita della città. Alcuni dei responsabili della moschea dicono che solo 30 sunniti di Samarra sono stati assunti per ricostruire la moschea. Molti sunniti si aspettavano anche di guadagnare dalla sua riapertura: attorno ai luoghi santi delle città di Najaf e Karbala, nel sud, i negozianti se la passano bene grazie all'afflusso di migliaia di pellegrini. Ma i muri hanno soffocato l'economia locale di Samarra. "E' frustrante. Siamo quelli che hanno cacciato al-Qaeda", dice Omar Muhammed Hassan, il capo del Consiglio locale di Samarra.

Inevitabilmente, la conversazione finisce sugli "estranei" che hanno infiltrato la città.

"La gran parte della gente di Samarra odia la polizia nazionale", dice il Colonnello Suhail Latuf Fadhil, un ex insorto e già ufficiale dell'esercito di Saddam Hussein.  "Il problema che abbiamo con la polizia nazionale è più grave di quello con al-Qaeda".
Fuori del quartier generale, Haider Fallah, 22 anni, un poliziotto locale, dice di essere stato fermato ai posti di blocco della polizia nazionale, senza motivo, e perquisito - anche dopo aver mostrato il suo tesserino da poliziotto.

"Pensano che tutti gli abitanti di Samarra siano terroristi", dice Arkan Majid, 29 anni, un poliziotto locale in piedi a fianco di Fallah.

"Credono che solo loro hanno il diritto di proteggere il santuario - non noi", dice Ahmed Yahya Yasin, 28 anni, un altro ufficiale della polizia locale.

Alcuni isolati più in là, due poliziotti nazionali che vengono da Kut, una città del sud, dicono che la polizia locale e il movimento dei "Figli dell'Iraq" sono stati infiltrati dagli insorti.

"Non ci fidiamo di loro", dice Taher Kazal, 29 anni.

Esaurendo la pazienza

Due settimane fa, un ufficiale della polizia nazionale sciita si era avvicinato a una giovane donna, parente di un ufficiale della polizia locale sunnita. Ne è scaturita una colluttazione tra i due uomini, e "alcune persone hanno utilizzato questo incidente per provocare tensioni di natura confessionale", dice sorridendo Flayeh, il comandante sciita. "Ma ora sono amici".

L'ufficiale sciita a cui si riferisce è di fianco a lui, al santuario. Anch'egli sorride.

Nel quartiere generale dei "Figli dell'Iraq", emerge un 'altra versione: il poliziotto sciita aveva provato a fare delle avance alla moglie dell'ufficiale locale sunnita. Lo sciita, hanno appreso alcuni leader sunniti locali, è stato sospeso dal corpo di polizia, in attesa dei risultati di una inchiesta.

In quel momento, Flayer Hassan, il vice presidente sunnita del Consiglio locale, ha deciso di indagare sui progressi del caso. Ha chiamato un ufficiale della polizia nazionale, che ha detto a Hassan che loro lo sciita non lo vedono da quando è accaduto l'incidente.

"Siamo molto pazienti, ma non lo saremo per sempre", dice Hassan.

(Traduzione di Piergiorgio Rosetti e Kristin Anderson Rosetti per Osservatorio Iraq)

Washington Post


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