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In America ci sono più televisori che cessi

di Abbie Hoffman - 05/05/2009

frecciabr.gif da Ho deriso il potere - Le imprese del più grande eroe controculturale americano, ShaKe Edizioni, 256 pagine, 17 euro

abbie_hoffman_cover.jpgIn America ci sono più televisori che cessi
Il giorno di san Valentino ha un significato speciale, e per l’occasione ho escogitato un regalino tra innamorati, gentile omaggio della controcultura. Tremila persone scelte a caso sull’elenco del telefono ricevettero quell’anno una canna di maria rollata ad arte con un biglietto che diceva: “Buon san Valentino. Questa sigaretta non contiene sostanze dannose e cancerogene. È fatta al 100% con marijuana purissima”. C’erano anche le istruzioni su come fumarla, perché i destinatari potessero mandare a quel paese tutte le balle che giravano e decidere con la propria testa. Un postscriptum avvertiva: “Oh, a proposito, il possesso dell’oggetto che hai in mano in questo momento può costarti cinque anni di galera, indipendentemente da come o da chi l’hai avuto”.

La stampa reagì come se fosse calata sulla Grande Mela una piaga d’Egitto, e da Washington, almeno secondo i giornali, furono inviate squadre speciali di agenti dell’antinarcotici appositamente per stanare i delinquenti. Il giornalista televisivo Bill Jorgensen, allora a Channel Five, recitò per l’occasione la parte del perfetto signor nessuno. Ripresa a mezzo busto: “Buona sera, sono Bill Jorgensen e questo è il notiziario della sera. Questo (pausa melodrammatica) è uno spinello. È fatto con una sostanza illegale, la marijuana. Migliaia di ignari cittadini di New York ne hanno ricevuto uno oggi assieme al seguente messaggio di san Valentino” annunciò con faccia impenetrabile. E dopo averlo letto: “La polizia ha approntato una linea speciale per le chiamate di protesta” (numero che scorreva in basso nello schermo). “Adesso lo chiamiamo.” Mentre New York aspettava con il fiato sospeso fu proposto un riempitivo di venti minuti di notizie e pubblicità. Poi, verso la fine del telegiornale, il giornalista in studio presentò un paio di tizi in impermeabile, due perfetti cloni dei detective dei telefilm.

Giornalista: Lei è della polizia?
Poliziotto: Esatto.
Giornalista: Ho ricevuto questa nella posta.
Poliziotto: Circa a che ora?
Giornalista: Era nella posta del mattino.
Poliziotto: Nome e indirizzo?
Giornalista: Bill Jorgensen.
Poliziotto: Ha un documento?
Giornalista (perplesso): Mah, sono Bill Jorgensen. Non lo vedete il cartello? Questo è il telegiornale presentato da Bill Jorgensen.
Poliziotto: Dobbiamo lo stesso vedere un documento.
Giornalista: Ma essere in possesso di questa canna potrebbe costarmi sul serio cinque anni di prigione? È vero?
Poliziotto: Non è competenza del nostro dipartimento. Dovrebbe chiederlo al procuratore distrettuale.
Giornalista (ancor più perplesso, guardando in camera): Bene, il notiziario di stasera è terminato.

È successo sul serio su una rete di New York. Un’emittente radio del New Jersey riferì addirittura che Bill Jorgensen era stato arrestato per possesso di marjuana durante il telegiornale della sera. Ovviamente nessuno, compreso il serissimo Bill, s’è buscato la colpa del tiro mancino, però per giorni circolarono le storie più incredibili. Tentare di separare le notizie dai pettegolezzi è stato lo sforzo di una vita intera e non sono tuttora convinto che ci sia una differenza. Tutto è soggettivo, ogni informazione è distorta, selezionata, esagerata, enfatizzata, omessa, con tutte le variabili possibili. Walter Cronkite non è diverso dal vicino che ti dà la sua versione dei fatti appoggiato alla staccionata. C’è sempre tanta distorsione.
I giornalisti ti danno la “notizia”, il nemico fa “propaganda”. I nostri “soldati” e alleati sono costretti ad ammazzare per difendere la libertà, i loro “terroristi” ammazzano per finalità criminali. (Ricordate sempre che nessun terrorista bombarda da un jet, perciò solo i nemici dell’imperialismo possono guadagnarsi questa nomea.) La colpa degli scioperi se la prendono i sindacati, non le dirigenze. Gli omicidi sono materiale da notiziario, mentre i prezzi manipolati sono troppo “astratti”. Persino il giornalista televisivo che rispetto di più, Cronkite, è propenso a usare l’immaginario della Guerra fredda. Quando parlava della guerra del Vietnam, per anni ha citato l’“American way of life” o il “Mondo libero che combatte il comunismo”. Cultura nostrana contro ideologia forestiera. Nessun reporter o mezzobusto americano sarà mai autorizzato a dire che la nostra “way of life” è “capitalismo” o “imperialismo”, o che la “cooperazione” è la dinamica sociale dei paesi comunisti. I nostri “leader” contro i loro “dittatori”, la nostra “stampa libera” paragonata alla loro “linea del partito”. Il nostro governo, il loro regime.
Quanto alle notizie di politica interna, ho sentito di tanti casi in cui un caporedattore ha detto a un inviato: “Diecimila a quella manifestazione? Troppi. Scrivi tremila”. Il giornalista abbozzava, poi andava a ubriacarsi. Quando accendi la tele o apri un giornale, ti stai sintonizzando con la propaganda e i pettegolezzi dei potenti. Se credi che l’America abbia una stampa libera, significa che non hai riflettuto abbastanza. Tutti quelli che fanno e presentano le notizie sanno bene di cosa sto parlando.
(Nel caso ve lo stiate domandando, la spedizione di marijuana per posta fu interamente finanziata da Jimi Hendrix.)
Lo scenario della protesta si allargò dalla strada agli studi televisivi, fino alle case della gente comune. Tenete presente che in televisione vigeva una regola secondo la quale invitavano in trasmissione una persona con idee radicali soltanto per farle fare la figura del fesso. Sapendo ciò, io trattavo i talk show come se stessi entrando in zona di guerra: mi portavo dietro ogni sorta di munizioni verbali, pronto a qualsiasi emergenza, e prima di ogni apparizione passavo ore a studiare il format dello spettacolo.
Era una questione decisamente spinosa. Una delle prime domande che mi facevano era: “Se sei tanto censurato, come mai sei qui seduto con me in una rete nazionale?”. Permettevo anche che mi tagliassero, in modo da aderire al ruolo prefissato in una recita già scritta dai produttori della società americana. “È solo una faccia carina fra tante”. Tenendo presenti queste trappole, la televisione è stata comunque un veicolo preziosissimo per far passare qualche messaggio al pubblico medio, un veicolo che ho usato come una variante di guerra teatrale. Il lettore deve tenere presente che le interviste televisive sono montate in modo da far fare bella figura all’intervistatore, non all’intervistato. Sono solo “liberamente basate” sulla realtà, come tutte le altre fiction del mezzo catodico.
Quando fummo invitati al David Susskind Show eravamo preparati ai tentativi di neutralizzarci a suon di spiegazioni imposte. Quando Susskind ci chiese “cos’è un hippie?” si aprì una scatola come per magia, e ne volò fuori un’anatra con un cartello al collo, sono un hippie. “Perché non lo chiedi a lei, David?” Scoppiò il finimondo, l’incubo dell’intellettuale, mentre il volatile terrorizzato andava a sbattere contro i riflettori. Gli assistenti partirono alla caccia all’anatra transfuga, che intanto non la smetteva di fare la cacca in volo. Sul pubblico caddero tante bombe hippie. Poi quando fu ora di mandare in onda la puntata, Susskind tagliò l’intera scena. E per una settimana fu bersagliato da telefonate notturne, “quak, quak, quak!”.

Il vero fine di questa, non meglio identificata, disciplina artistica (parte avanspettacolo, parte insurrezione, parte divertimento collettivo) era quello di infrangere ogni pretesa di obiettività. La calma, patriarcale voce della ragione incarnata da un David Susskind, poteva essere un pericolo maggiore delle stridule accuse di comunismo. Imparammo così a intrufolarci nell’etere con frammenti d’Arte concettuale capaci di scuotere gli spettatori dal loro stupore televisivo.
Però, prima, dovevamo studiare il mezzo televisione. All’inizio puntammo sui pezzi di colore verso la fine di ogni notiziario, il segmento “varia umanità”, per offrire al pubblico un quadretto vivido che stridesse con l’indistinta macchia sfumata delle notizie serali. Infiltravamo informazioni passando dalla porta sul retro, per poi risalire pian piano fino ai titoli di testa. Per vederci sui rotocalchi settimanali come “Time” e “Newsweek” dovevi sfogliare fino alle ultime pagine, ma naturalmente ogni studente di comunicazioni di massa minimamente sveglio sa che quasi tutti leggono queste riviste partendo dal fondo. E tutti stanno sempre attenti ai servizi di “varia umanità”, perché essendo più personali deviano dal copione prefissato.
Prendevo molto sul serio le cose della televisione, che in teoria erano da prendere con le pinze. Lo sanno tutti che il pubblico in studio ride a comando, applaude come se fosse uscito di senno e in genere sembra in estasi, però è facile dimenticare quanto sia forzata e manipolata questa situazione. Io ho sfruttato questa distorsione della realtà al David Frost Show, innescando reazioni ostili nel pubblico in studio.
Durante la pausa per la pubblicità mi alzavo dalla poltrona, già con questo creando un certo scompiglio, perché gli ospiti non dovrebbero alzarsi dal posto in un talk show, a meno che non sia il presentatore a dirglielo (“Che ne diresti di cantarci una canzone?” “Sissignore.”). Io, invece, andavo dritto in mezzo al pubblico e cominciavo ad aizzarlo.
“Su, non sei ancora abbastanza arrabbiato! Io sono un muso giallo. Sono un negro. Sono un giudeo. Dai, gridalo forte!” E loro iniziavano a strillare, si alzavano in piedi imbufaliti, agitando il pugno contro di me. Una vera sinfonia dell’odio. Alla fine della pausa pubblicitaria io ero tornato al mio posto e sorridevo come un agnellino innocente, mentre il pubblico latrava e urlava e Frost mi minacciava. Allora io saltavo su e recitavo di nuovo la parte del direttore d’orchestra dell’odio. Fui molto efficace.
In quella stessa puntata attesi di essere inquadrato mentre parlavo, e alla fine della tirata mimai qualche parola senza però pronunciarla, infilando la parola “cazzo” a uso e consumo di chi sapeva leggere le labbra. Quanti guardarono la trasmissione rimasero arciconvinti che mi avessero tagliato l’audio, che mi avessero censurato.
Per eseguire queste contromanipolazioni dovevi essere molto controllato. In teoria, la gente non dovrebbe fare cose del genere in uno studio televisivo. Il senso dell’operazione era di inviare al pubblico a casa un messaggio diverso, una volta tanto, che fosse più vicino alla realtà. Cioè, chi cazzo se ne frega di quanto è dura per un attore alzarsi alle cinque del mattino per farsi incipriare il naso?

Per la radio era necessaria un’impostazione mentale diversa. Io, dopo averla studiata a fondo, l’ho sempre preferita alla tivù, l’ho sempre ritenuta migliore, perché l’ascoltatore non poteva vedere quel che succedeva e quindi reagiva a certe immagini che creavo. Una sera mi stavo facendo intervistare dal vivo da un conduttore ostile alla wnew, un’emittente di New York. A un certo punto, raccolsi il suo pacchetto di cancerose e chiesi: “Mi presta una sigaretta?”.
“Certo, si serva pure” rispose lui, così sfilai una paglia e diedi una tirata avida. “Ehi, questa è roba da sballo, amico” dissi, imitando la voce del classico musicista fumato. Allora il conduttore incazzato annunciò: “Signore e signori, sta solo fumando una banale Marlboro. Su, glielo dica, gli dica che è solo una sigaretta”. E io: “Oddio, scusa, non dovevo... mi dispiace, non voglio farti saltare la copertura. Però che figata, amico, mascherarla da sigaretta.” Non poteva sfuggire a questa trappola solo con le parole. Quindi andò giù di testa.
Durante un altro talk, ricevetti una telefonata minatoria, così dissi che sarei uscito alle cinque in punto e diedi una descrizione sommaria del sottoscritto, solo che in realtà descrissi le sembianze del conduttore. “Ho gli occhiali con la montatura di corno e una giacca sportiva scozzese bianca e marrone.” Di solito, quando parlavo della guerra o di altri temi sociali, usavo comunque l’arma dell’umorismo per tenere desta l’attenzione, e non perdevo mai l’opportunità per pubblicizzare le prossime dimostrazioni. Era tutto spazio radiofonico gratuito ed efficace. Prima della disco in radio la gente parlava, adesso invece sembra che tutti quanti, disc-jockey, conduttori, annunciatori, saltino su e giù allo stesso ritmo monotono. Un-due-tre. Un-due-tre.

Mi preparavo per le conferenze stampa o per i talk show un po’ come i cantanti e gli attori provano il loro numero. Ti devi addestrare a improvvisare. Di solito le chiacchiere in tivù sono registrate, ma io non leggevo mai un discorsetto preparato. Le domande nei talk show sono di solito fornite dagli ospiti. Le conferenze stampa dei politici sono attentamente coreografate. La gente deve credere che sia tutto “totalmente spontaneo”, però, se non è totalmente provato, diciamo che è arrangiato. Prendete per esempio una conferenza stampa del presidente. Intanto, solo gli inviati per bene (controllabili) possono entrare nel gruppo accreditato presso la Casa bianca, e di solito scelgono per le prime domande i giornalisti più sicuri e controllabili (i mezzibusti televisivi). Saltare da un giornalista all’altro, da una domanda all’altra, dà l’impressione di uno scambio di vedute libero e aperto. Essendo uno che è stato da ambo le parti della barricata, so bene che nessun format è più adatto di questo a nascondere la verità sotto la patina delle pubbliche relazioni. Naturalmente, c’è un minimo di libertà nei grandi mezzi di comunicazione statunitensi, ma invece di rendergli un omaggio genuflesso, non sarebbe meglio spiegare alla gente in che senso non è libera? Tipo non essere libera di suggerire un’alternativa al nostro sistema economico.
Inoltre, cercavo di personalizzare il pubblico. Sapendo del limitato tempo di attenzione di uno che è ridotto a guardare un quadrato luminoso nel salotto di casa sua, mi esercitavo nelle battute fulminanti, nelle riposte immediate, nelle trovate da ko. Mi allenavo con gli amici, con i camerieri, con la gente per strada, con i tassisti, con i sindaci, con le stelle del cinema, con gli sbirri, con i giornalisti e con i parenti. Quando non avevo nessuno sotto mano, accendevo la televisione e recitavo i vari personaggi, interiorizzando domande e risposte. Quel che voglio dire è che ogni forma di comunicazione è identica, che sia faccia a faccia o di fronte alla telecamera.
Leggevo “Variety”, “Show Business”, “Billboard” e altre testate del settore, di sicuro molto più di qualsiasi altro militante radicale nella storia. Potrei recitarvi a memoria i dieci maggiori incassi della settimana nei cinema, oppure i dieci spettacoli tivù più seguiti. Cercavo di studiare i dettagli, come la differenza che passa tra guardare in camera e guardare il conduttore (dipende) o se truccarsi o meno. Se non mi truccavo ero visivamente svantaggiato, però, avevo la possibilità di rispondere quando mi accusavano di essere un fasullo: “È buffo, Dick, la gente che mi lancia un’accusa come questa è sempre truccata”. E immediatamente il pubblico a casa poteva “vedere” la differenza tra noi due e capire qualcosa di più sull’informazione televisiva. Non c’è nulla di più radicale di cui tu possa discutere in televisione della televisione stessa.
Mentre analizzavo la comunicazione verbale, ho stilato una lista delle dieci parole più accettabili. La più popolare nella nostra lingua è “free”, libero, la seconda è “new”, nuovo. “Less”, meno, è più accettabile di “more”, più. Il potenziale cliente è sempre sospettoso del più, conosce la massima “paghi di più e ottieni di meno”. La pubblicità televisiva è l’apogeo della manipolazione della fantasia. Mentre scrivevo gli spot per la rivoluzione, io ho cercato appunto di imparare i ritmi dei mezzi di comunicazione.
Il mio lavoro in televisione non ha mai significato l’accettazione supina del suo format. Io sono entrato nel mondo della televisione per portare allo scoperto la sua desertificazione. Le prime cento multinazionali controllano l’80% di tutto il tempo di trasmissione delle reti. Una volta Robert Hutchins ha detto: “Possiamo mettere nella giusta prospettiva la televisione, immaginando che la grande invenzione di Gutenberg sia stata usata solo per stampare fumetti”.
In seguito, un nostro gruppo mise in scena una pièce teatrale guerrigliera che riassumeva a pennello il nostro atteggiamento nei riguardi della televisione. Quando Nixon si rivolse alla nazione per spiegare la necessità di invadere la Cambogia, noi piazzammo un 24” su un piedestallo e davanti a ventimila manifestanti incazzati prendemmo a colpi d’ascia la sua immagine sfarfallante. Vudù elettronico. Certe volte la posizione intellettuale più adatta è un bel “vaffanculo!”.

Abbie Hoffman è stato il più geniale sovversivo di tutta la storia delle controculture. è stato l’icona più importante del movimento di protesta giovanile americano negli anni Sessanta e Settanta. Una tra le sue azioni di protesta più famose fu nell’agosto del 1967, quando condusse un gruppo di contestatori nella galleria della Borsa di New York, da dove gettò biglietti da un dollaro sugli scambisti, che cominciarono a raccoglierli freneticamente, tralasciando così le loro ben più remunerative attività speculative. Durante la guerra del Vietnam, guidò 50.000 persone in manifestazione attorno al Pentagono con il proposito di far levitare in aria l’edificio per mezzo dell’energia psichica della folla. Hoffman fu arrestato dopo la Convention democratica a Chicago nel 1968, in cui il suo partito Yippie voleva candidare alla presidenza un maiale di nome Pigasus. Il gruppo di persone arrestato fu soprannominato “gli Otto di Chicago”. Assieme a lui furono arrestati anche Jerry Rubin, Tom Hayden e il fondatore delle Pantere nere, Bobby Seale. Durante il processo le trovate teatrali di Abbie Hoffman conquistarono spesso i titoli dei giornali, come quando per esempio si presentò alla sua deposizione vestito da Captain America. Il giorno della sentenza Hoffman invitò il giudice a provare l’lsd. Attivo politicamente fino al momento della sua morte, avvenuta alla fine degli anni Ottanta, Hoffman si è sempre autodescritto come “un dissidente americano”.
Le imprese più straordinarie di Abbie Hoffman appaiono oggi nella sua autobiografia ufficiale edita da
ShaKe e intitolata Ho deriso il potere. Vent’anni di storia delle controculture americane, dalla contestazione alla guerra in Vietnam fino ai sette anni passati in clandestinità, condensati in una vita che è un vero e proprio romanzo.
Introduzione di Norman Mailer e postfazione di Howard Zinn